Interventi
17/06/2014

Epidemiologia, «liaisons dangereuses» e sanità pubblica

Due recenti articoli di Le Monde,1,2 critici di alcune attività di un epidemiologo italiano (Paolo Boffetta) candidato alla direzione del Centre d’épidémiologie et Santé des Populations (CESP) a Parigi, sono sostanzialmente centrati sui conflitti di interesse (le liaisons dangereuses), tema di frequenti discussioni in seno all’AIE e in Epidemiologia&Prevenzione. Il primo articolo compare nella sezione «Scienza&Medicina» del giornale, rubrica «Etica».
Il CESP è articolato in una decina di diverse unità e, come il nome stesso indica, è un centro di ricerca epidemiologica per la sanità pubblica, e non di epidemiologia punto e basta. Con un’espressione alla moda potremmo dire «ricerca epidemiologica transizionale alla sanità pubblica», attraverso le funzioni di riferimento e consulenza, oltre che di ricerca e formazione del personale, per le questioni di sanità pubblica. Per questa ragione sposterò qui l’attenzione dal piano etico a quello dei ruoli sociali di quanti operano con funzioni diverse nella sanità pubblica.

La dottrina dei falsi positivi

Nell’ultimo decennio si è diffusa nel mondo della ricerca epidemiologica una corrente di pensiero secondo la quale gli studi epidemiologici sono così frequentemente viziati da risultati falsamente positivi da richiedere estrema cautela prima di intraprendere qualunque azione di sanità pubblica basata su di essi. L’attenzione ai falsi positivi è stata in particolare ravvivata dall’esplosione degli studi di associazione tra varianti genetiche (SNP, single nucleotide polymorphisms) e malattie. Come distinguere tra associazioni dovute al caso e associazioni che riflettono più o meno direttamente un legame causale tra variante genetica e malattia quando si saggiano un milione di loci SNP? Adottare un criterio di significatività statistica per esempio del 5% comporta, in assenza di qualunque associazione reale e ammettendo l’indipendenza dei test, il trovarsi di fronte a ben 50.000 associazioni significative puramente per caso, cioè falsamente positive. Sullo sfondo di problemi di questa natura si possono individuare almeno tre sviluppi principali:

  1. la messa a punto di metodi per sceverare associazioni casuali da associazioni probabilmente non casuali nell’ambito degli studi di genetica e poi di genomica, trascrittomica, metabolomica eccetera;3-6
  2. l’utilizzazione possibile e selettiva di alcuni di questi metodi anche in altri ambiti di studio attraverso la rivisitazione di metodi di inferenza statistica;7,8
  3. la rappresentazione dei risultati falsi positivi come il problema metodologico onnipresente e dominante in campo epidemiologico.

Entro questa dottrina metodologica dei falsi positivi la portata effettiva del problema è sovente oscurata dalla denominazione comune di falso positivo per risultati di significato completamente diverso, quali per esempio:

  • associazioni statisticamente significative in un singolo studio osservazionale poi non replicate;
  • associazioni replicate ma non esenti da distorsioni o confondimento;
  • associazioni esenti da questi fattori di disturbo e quindi probabilmente causali, ma poi non confermate da studi randomizzati;
  • associazioni probabilmente causali, ma prive di supporto sperimentale e di plausibilità biologica;
  • sovrastime di effetti reali in uno studio randomizzato;
  • hyping (esagerazione narrativa) dei risultati nel riportarli in pubblicazioni e tendenza a pubblicare i risultati solo quando sono positivi.

Sono significativi di questa dottrina due articoli di Boffetta e collaboratori.9,10 Motivati dalla preoccupazione di per sé legittima di evitare risultati falsi positivi, entrambi gli articoli si rivelano fattualmente infondati a una lettura critica sia del primo11 sia del secondo.12 I due articoli non offrono alcuna evidenza empirica in favore della tesi secondo cui i risultati falsi positivi sono realmente onnipresenti e dominanti negli studi osservazionali. Riflettono coerentemente questa stessa dottrina dei falsi positivi altri interventi13,14 e una serie di articoli di revisione dell’evidenza di carcinogenicità di diversi composti chimici ambientali.15-20 Per tutti i composti l’evidenza viene giudicata inadeguata e dubbia, quindi contraria alla valutazione affermativa di carcinogenicità espressa per quei composti che sono stati esaminati dal programma delle Monografie dell’Agenzia internazionale di ricerca sul cancro. La messa in dubbio a senso unico dell’evidenza è indicativa di un approccio scientifico squilibrato, nel quale la possibilità di risultati falsi positivi costituisce un serio problema, mentre la possibilità di risultati falsi negativi – di potenziale grande impatto in sanità pubblica – è un problema minore o insignificante, tanto che non viene neppure discusso.

Una dottrina erronea per la sanità pubblica

Questa dottrina è sicuramente erronea e quindi inappropriata per la sanità pubblica, il cui momento caratterizzante è la decisione sugli interventi da intraprendere a livello di popolazione, così come lo è la decisione a livello individuale per la clinica.
L’essenza del lavoro del clinico consiste nel prendere decisioni su quanto occorre fare per ciascun paziente: per questo vengono utilizzate tutte le conoscenze scientifiche, incluse quelle che il clinico stesso può eventualmente aver prodotto con la propria ricerca, ma costringendole dentro uno schema di scelte ammissibili il cui principio e vincolo intrinseco è ottenere il massimo beneficio probabile e il minimo danno probabile per quel dato paziente. Questo è quanto ciascuno di noi si aspetta tacitamente o esplicitamente nel rapporto fiduciale col medico: tutti vogliamo che il medico stia incondizionatamente dalla nostra parte. Questo principio intrinseco al ruolo sociale del clinico è fondamentale e immutabile anche in presenza di vincoli estrinseci, economici, di disponibilità immediate di mezzi appropriati eccetera, che concretamente possono limitare le scelte possibili per tradurre il principio in atti.
Per il professionista implicato a qualunque titolo, direttamente o anche indirettamente, in decisioni di sanità pubblica vale lo stesso principio. Le scelte ammissibili sono inquadrate e vincolate dall’obbiettivo intrinseco di massimizzare il beneficio probabile e minimizzare il danno probabile per la salute per i gruppi di popolazione esposti al rischio di non conseguire un beneficio (per esempio un trattamento) oppure di subire un danno. Nei due domini, clinico e di sanità pubblica, un ricercatore che fa unicamente della ricerca, per esempio epidemiologica, ha molta più latitudine nel proprio lavoro: può esplorare ipotesi poco ortodosse o controverse e certamente deve esplorare ipotesi nuove, per definizione non confermate per un tempo spesso lungo. È necessario che i ricercatori esplorino quanto è al di fuori del già certo (o quasi), ma è ugualmente necessario che, esattamente all’opposto, i professionisti della clinica e della sanità pubblica basino le loro decisioni su quanto è certo (o quasi) e – punto assolutamente cruciale – risolvano le inevitabili e spesso sostanziali incertezze nel senso di far ottenere il massimo dei benefici e il minimo dei rischi al malato o alla popolazione.
Risolvere le incertezze con la preoccupazione e lo scopo primario di evitare azioni conseguenti a risultati di ricerca falsamente positivi può o non può (tutto dipende dalle specificità delle singole situazioni) soddisfare questo principio di beneficio e danno. È questa la ragione per cui una dottrina che privilegia in tutte le circostanze, cioè sistematicamente, il controllo dei possibili risultati falsi positivi è totalmente erronea per la sanità pubblica.

Imparzialità e non neutralità

Il ruolo socialmente assegnato e soggettivamente accettato dal professionista che prende parte a decisioni nell’interesse della sanità pubblica è quello di essere incondizionatamente dalla parte della popolazione: è questo che il pubblico legittimamente si attende ed è questo che determina il grado di fiducia e credibilità che accorda al decisore. L’attesa è che il professionista sia:

  1. imparziale, cioè prenda in considerazione con criteri uniformi tutta l’evidenza disponibile sul problema sul quale deve decidere;
  2. non neutrale rispetto alla salute, cioè risolva l’incertezza residua dell’evidenza in senso favorevole alla salute della popolazione esposta.

Di fatto la non neutralità entra in gioco fin dall’inizio in quanto anche l’imparzialità più rigorosa è “infiltrata” e influenzata in qualche misura dall’orientamento generale della ricerca (sia essa uno studio originale o una valutazione delle evidenze): se questo orientamento è guidato dalla non neutralità, la ricerca tenderà preferenzialmente a massimizzare la produzione di informazione rilevante per la salute individuale o collettiva piuttosto che l’informazione rilevante ad altri aspetti scientifici.
Il contrario di non neutrale è ovviamente neutrale. Essere neutrali rispetto al valore «salute» non vuol dire «essere neutrali, quindi scientificamente oggettivi», come l’arrogante mistificazione più largamente diffusa nel mondo scientifico (parecchi epidemiologi inclusi) vuol far credere. Vuol dire che altri valori, scientifici, etici, economici vengono presi prioritariamente in considerazione e nell’orientamento generale della ricerca e nella risoluzione delle incertezze. L’oggettività scientifica è cosa ben distinta e diversa, irraggiungibile dal singolo ricercatore e possibile solo al livello della scienza come impresa collettiva: si fonda sul controllo reciproco di metodi e risultati da parte dei ricercatori e consiste nella validità intersoggettiva dei risultati.
Riprendo, per rafforzarlo, l’argomento precedentemente delineato. Come paziente non mi aspetto che il medico venga solo a illustrarmi l’evidenza scientifica acquisita imparzialmente e l’incertezza che l’accompagna: mi aspetto che a partire da questa base mi prospetti la soluzione, o le soluzioni, migliori per me. Come membro di un gruppo di popolazione non mi aspetto che il decisore di sanità pubblica venga solo a illustrarmi l’evidenza scientifica, e l’incertezza annessa, imparzialmente acquisita sull’inquinamento da traffico del quartiere in cui vivo: mi aspetto che prospetti le soluzioni migliori per proteggere la salute di chi vive nel quartiere.
Appare qui chiara non solo l’identità di fondo, ma anche la differenza pratica tra la decisione clinica e la decisione di sanità pubblica. La prima può essere individuale o collegiale, ma i partecipanti appartengono (con l’eccezione del paziente e dei familiari) essenzialmente al personale sanitario; la seconda vede intervenire una varietà di partecipanti, spesso fisicamente lontani (medici, epidemiologi, economisti, tecnici di diverso tipo, politici, cittadini e associazioni eccetera), il che può far perdere di vista la sostanza di fondo della decisione, cioè che chiunque vi abbia contribuito in qualunque ruolo ne condivide la responsabilità, a meno che non se ne sia esplicitamente dissociato. Il responsabile non è l’assessore all’ambiente o alla sanità che ha firmato un decreto di intervento, sono tutti quelli che hanno partecipato alla sua elaborazione. Aggiungo per i ricercatori-epidemiologi che per non perdere di vista o, peggio, far scomparire dalla vista pubblica la propria corresponsabilità decisionale è utile leggere sotto l’angolo dell’intenzione a decidere tutto quello che è scritto o detto-e-scritto sui risultati di studi epidemiologici. Ogni accenno a interpretazioni e implicazioni in un senso o nell’altro per la sanità pubblica va preso per quello che è, un germe di decisione e di corresponsabilità decisionale e non un puro orpello verbale messo lì per propagandare l’importanza pratica della ricerca epidemiologica (se ha importanza pratica ha anche responsabilità pratica, altrimenti non ha né l’una né l’altra).

Ruoli sociali nell’ambito della sanità pubblica

I contorni del ruolo di chi è implicato a vario titolo in decisioni di sanità pubblica variano in funzione di fattori istituzionali e individuali, a loro volta variabili tra società e culture diverse e in tempi diversi. Si possono identificare tre differenti posizioni di base:

  1. Per professionisti, in particolare quelli con gradi di responsabilità elevata, che appartengono a istituzioni pubbliche con mandato di protezione, in via diretta o indiretta, della salute della popolazione, come l’Istituto superiore di sanità o il CESP a Parigi o le diverse branche del Public Health Service degli Stati Uniti, il ruolo di decisore attuale o potenziale è definito istituzionalmente e comporta in modo congiunto imparzialità e non neutralità rispetto alla salute, i due requisiti prima menzionati che denotano la funzione decisionale per la sanità pubblica.
  2. Solo il primo requisito è generalmente richiesto al personale accademico e di organizzazioni di ricerca, sia private sia pubbliche, anche se per queste ultime in alcuni contesti può venire richiesto il secondo requisito. È importante che risulti chiaro al pubblico – mentre in generale non lo è affatto! – che i contributi che questo personale produce sono altrettanto vitali per far avanzare le conoscenze sulla salute individuale e della popolazione quanto non vincolati al requisito della non neutralità rispetto alla salute. Di conseguenza, o i ricercatori si sono rigorosamente astenuti da qualunque interpretazione e implicazione per la sanità pubblica (è il caso più chiaro, auspicabile e di gran lunga meno frequente), oppure i commenti o accenni interpretativi e implicativi che quasi regolarmente accompagnano gli scritti e le presentazioni delle conoscenze vanno considerati unicamente come espressione delle motivazioni personali dei singoli ricercatori, le quali includono interessi scientifici, di carriera, finanziari, così come giudizi di valore morali e politici. Si tratta cioè di giudizi imparziali per quanto concerne la valutazione dell’evidenza scientifica, soggettivi per quanto riguarda le possibili implicazioni pratiche: è la natura soggettiva di questa parte del giudizio che molto spesso viene annebbiata dal polverone di una dichiarata “neutralità scientifica” che si pretende garanzia di oggettività.
  3. Esistono, infine, situazioni in cui il professionista fa la scelta individuale di rinunciare sia all’imparzialità sia alla non neutralità. Il professionista che in un processo per danno ai lavoratori (tipico il caso dell’insorgenza di un mesotelioma in un lavoratore esposto all’amianto) opera come perito per una delle due parti, il lavoratore o i responsabili dell’impresa che impiega l’amianto, rinuncia per definizione all’imparzialità, perché compito del perito di parte è appunto di essere parziale, mettendo scientificamente in luce gli elementi favorevoli al proprio committente. Qualora la parte sia il lavoratore, il perito non rinuncia però alla non neutralità a favore della salute, mentre qualora la parte siano i responsabili dell’impresa rinuncia anche alla non neutralità. È questa la ragione per cui è di solito possibile per un professionista, vincolato dal ruolo istituzionale indicato in precedenza al punto 1, agire – se lo ritiene – come perito di parte per il lavoratore, rinunciando all’imparzialità ma non alla non neutralità.

Nelle società occidentali ognuna di queste tre posizioni è legalmente permissibile, con l’esclusione della possibilità che due posizioni contraddittorie siano prese da parte della stessa persona nello stesso tempo. Ma quanto si estende uno “stesso tempo”? Può oggi un professionista limitarsi rigorosamente a una valutazione scientifica imparziale, domani aggiungerci qualche commento personale su come interpreta l’incertezza residua, dopodomani suggerire implicitamente come questa interpretazione potrebbe influire su scelte pratiche, una volta fare il perito per una parte, l’altra volta per l’altra, e così via? La risposta è generalmente affermativa (salvo che per quanti sono vincolati istituzionalmente). Ma è anche indubbio che le posizioni prese successivamente delineano un profilo, coerente, incoerente, lineare, zigzagante, e un track record del professionista che diviene elemento essenziale nel giudicarne l’idoneità a differenti posti di lavoro.
La mobilità in periodi successivi della vita professionale tra posti con compiti e responsabilità differenti e talora in parte antitetiche – ne è esempio caratteristico un posto nel settore privato (un’industria farmaceutica) e un posto nel settore pubblico (un istituto di ricerca pubblico, un’agenzia di controllo dei farmaci) – è fruttuosa in termini di scambio e reciproca fertilizzazione di conoscenze e competenze. È questa una delle cause della produttività degli ambienti di ricerca soprattutto nei Paesi anglosassoni. Tuttavia una persona che si sposta da un posto a un altro non è un contenitore passivo di conoscenze e competenze, ma porta con sé le proprie convinzioni. Diceva Marx (Groucho): «Sirs, these are my principles. If you do not like them, I have others»; battuta che mette in chiara luce quanto sia assurdo pensare che principi e convinzioni diversi siano intercambiabili e ininfluenti sui comportamenti dei professionisti. Il pesante rovescio della medaglia della mobilità in un Paese come gli Stati Uniti, dove la prassi delle revolving doors tra pubblico e privato è diffusissima, è la distorsione – inevitabile quale che sia la buona fede delle persone – di decisioni di interesse collettivo dettate da professionisti con convinzioni di orientamento privatistico, come testimoniano per esempio varie vicende della crisi economica post 2008 coinvolgenti banchieri passati a ruoli governativi.
Il caso discusso negli articoli de Le Monde non è unico nel mondo dei rapporti tra epidemiologia e sanità pubblica. Farne una questione di etica individuale è riduttivo e può essere fuorviante, perché misconosce il punto oggettivo fondamentale: mettere le persone giuste ai posti giusti. È un grossolano errore di casting mettere professionisti competenti che siano sostenitori di quella che ho chiamato «dottrina dei falsi positivi», inappropriata alle decisioni in sanità pubblica, in ruoli chiave di istituzioni che abbiano come missione la protezione della salute delle popolazioni.

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