Usare la spinta gentile per favorire l’adesione vaccinale, ma fino a che punto?
Il nudging, o spinta gentile, è largamente applicato come strumento di persuasione morbida al compimento di atti che in passato erano normalmente affidati al comando della legge in politiche pubbliche dal successo incerto. Dai danni da fumo agli alimenti salutari, dalla donazione di organi agli screening di popolazione – per citare il solo settore della salute –, le modalità alternative di adesione agile dei cittadini ai “suggerimenti” del decisore politico si sono rivelate quali misure efficaci ed efficienti, con bassi costi di implementazione e risultati apprezzabili, inclusa la capacità di preservare spazi di scelta libera. Inoltre, in particolare nella prospettiva delle società knowledge-based, la cui regolazione appare più legittima se giustificata da evidenze scientifiche, un ulteriore valore del nudging consiste nel suo fondarsi sui risultati sperimentali delle scienze del comportamento (behavioural sciences).1
L’insieme di queste ragioni spiega perché molti Stati abbiano fatto ricorso a misure di nudging nella lotta contro il COVID-19, applicandolo in una varietà di contesti – dal lavaggio delle mani al distanziamento fisico alle app di contact tracing – per veicolare rapidamente i comportamenti adeguati e per guidare senza forzare i propri cittadini lungo percorsi di sicurezza.2 La stessa Organizzazione mondiale della sanità, fin dall’inizio delle misure di lockdown, ha fortemente sostenuto le misure di nudging, producendo e distribuendo direttamente agli Stati un behavioural insights tool per modulare al meglio interventi, politiche pubbliche e messaggi di risposta al COVID che, costruendo un rapporto di fiducia con il pubblico, potessero anche reindirizzarne rapidamente le deviazioni dagli obiettivi desiderabili.3
Non è quindi strano che, nella corsa a un rapido svolgimento e completamento delle campagne vaccinali, queste tecniche di normatività soft siano state invocate sia come strumenti organizzativi per facilitare l’esecuzione dei programmi vaccinali sia come strategie persuasive per superare l’esitazione a vaccinarsi di una parte della popolazione. Argomenti a favore del nudging sono proposte da un articolo di Mitesh S. Patel su Nature,4 che ribadisce il ruolo cruciale del nudging nel contesto vaccinale. La lunga durata della pandemia, le presumibili rimodulazioni dei vaccini e le eventuali ripetizioni nel tempo delle somministrazioni utili rendono, infatti, necessaria la messa in atto di strategie per dispensare al meglio le attività sanitarie.
Patel è direttore della Penn Medicine Nudge Unit (University of Pennsylvania) e un pioniere del nudging in sanità, avendo studiato e sperimentato il primo modello di ottimizzazione del sistema sanitario attraverso forme di nudging in esso disegnate e incorporate.5 Il problema non è, quindi, nella prospettiva di Patel, nudging sì o no, bensì le modalità più corrette di utilizzo delle spinte gentili ai fini sia del rispetto della libertà dei cittadini sia della loro migliore efficacia – finalità che spesso si intrecciano.
Tra le possibili modalità di impiego delle “architetture della scelta”, la semplificazione dei percorsi di registrazione ai programmi, la facilità delle procedure digitali e non e la predeterminazione degli appuntamenti sono aiuti che agevolano i comportamenti, producono un effetto di rinforzo positivo sulla disposizione dei cittadini nei confronti della vaccinazione e possono aumentare la percezione favorevole del programma vaccinale nel suo insieme. Patel, come molti sostenitori del nudging, tende ad accomunare tutte le sue forme espressive, alcune delle quali non sono affatto gentili e restano problematiche. Se, da un lato, l’esempio di personaggi noti o autorevoli che si vaccinano pubblicamente può avere un effetto psicologico rassicurante, dall’altro, interventi di pressione psicologica che tendano a indurre la scelta generando sensi di inferiorità o vergogna – per esempio, evocando la marginalizzazione sociale di chi abbia remore a vaccinarsi – suonano come discriminatorie e minacciose.
Ma, al di là del forte sostegno all’approccio normativo comportamentale, ciò che appare interessante nell’articolo di Patel è la segnalazione della necessità di un corretto uso del nudging, che può risultare superfluo, se non controproducente, laddove non vi sia una chiara identificazione dei suoi limiti e delle sue modalità di buon funzionamento.
Il limite riguarda l’integrazione fra nudging e infrastrutture istituzionali e sociali. Questo tema tocca in realtà tutte le tecnologie e la loro interfaccia con la società: e il nudging è una tecnologia normativa. Le tecnologie non sono separabili dalla realtà in cui vengono calate e questa integrazione è la cifra di un sistema ben costruito. In Italia, l’esempio della app IMMUNI per il contact tracing – al tempo stesso una tecnologia informatica e una forma di nudging – è in tal senso emblematico. Le informazioni fornite ai cittadini per rassicurarli sulle modalià di funzionamento di IMMUNI si sono concentrate esclusivamente sull’anonimizzazione dei dati personali e sulla loro tempestiva cancellazione. Privacy e protezione dei dati sono stati identificati come l’unico elemento di possibile problematicità dell’intero processo di tracciamento,6 mentre è diventato presto chiaro che, da una parte, il tracciamento esigeva sforzi organizzativi non disponibili, dall’altra, le vere esitazioni dei cittadini non riguardavano la protezione dei dati, ma la grande incertezza che circondava le procedure di isolamento e le successive modalità di rilascio degli individui esposti all’infezione.7 L’app di fatto è stata implementata senza prendere in considerazione le conseguenze concrete nella vita delle persone. Similmente, il nudging vaccinale deve essere costruito per integrarsi con (e non per fare da surrogato a) infrastrutture ben funzionanti: se al messaggio che fissa l’appuntamento fa seguito una lunga coda di attesa, una cattiva organizzazione dei tempi di vaccinazione o condizioni di non completa sicurezza, il vantaggio organizzativo se ne va insieme alla fiducia dei cittadini.
Alcuni studiosi hanno criticato il “nudging pandemico” come una forma di minimizzazione del ruolo dello Stato proprio nel momento in cui la sua autorevolezza deve essere maggiormente sostenuta, dal momento che le condizioni di emergenzialità in cui i cittadini si trovano a vivere esigono grande fiducia nelle istituzioni;8 mentre altri hanno proposto di vederlo come una diversificazione e complementarità di strumenti che puo rafforzare il ruolo delle Stato.9
Il caso EMA-AstraZeneca e il principio di precauzione
All’equilibrata riflessione di Patel, si può aggiungere un ulteriore pensiero.
Per la complessità prospettica, per i possibili cambiamenti in itinere, per la chiarificazione delle incertezze scientifiche che le istituzioni devono ai cittadini, per il necessario monitoraggio e mantenimento della fiducia tra decisori, scienziati e società, la lotta vaccinale alla pandemia di COVID non è paragonabile alle campagne con vaccini noti come quelli antinfluenzali.10
In generale, laddove le scelte operate dal decisore politico presentino aspetti controversi, in particolare nel contesto attuale, il nudging non dovrebbe essere utilizzato per eludere le aree di incertezza scientifica. In questi casi, solo spiegazioni accurate, trasparenti e dialogate rappresentano lo strumento centrale di costruzione della fiducia pubblica. Ne è un esempio il caso della recente dichiarazione della European Medicine Agency (EMA) sui criteri di sicurezza per la somministrazione del vaccino AstraZeneca.11 Pur ribadendo la prevalenza dei benefici sui rischi, EMA non si è espressa per l’adozione di criteri unitari, rinviando la responsabilità ai singoli Stati.
Ciò significa che gli Stati si trovano di fronte a una scelta di “sussidiarietà epistemica” (epistemic subsidiarity),12 possono cioè individualmente stabilire la posizione scientifica che ritengono più valida sulla sicurezza del vaccino in relazione al livello di protezione, e quindi di precauzione, adottato per i propri cittadini.
Questa posizione, che ha lasciato perplessi e stupiti molti commentatori istituzionali nel nostro Paese, corrisponde in realtà a quanto prevede il principio di precauzione così come delineato a livello europeo: «I responsabili debbono essere pienamente consapevoli del grado d’incertezza collegato ai risultati della valutazione delle informazioni scientifiche disponibili. Giudicare quale sia un livello di rischio “accettabile” per la società costituisce una responsabilità eminentemente politica».13 La responsabilità politica non sta in capo a un’istituzione tecnico-scientifica con competenze regolatorie, quale è EMA – in particolare in circostanze così delicate e incerte – ma ai governi degli Stati membri.
Così, alcuni Stati, come Danimarca e Norvegia (che non è Stato membro dell’UE, ma appartiene allo spazio econoico europeo), con una profonda cultura e tradizione di precauzione e di dialogo democratico con i propri cittadini, hanno deciso di sospendere la somministrazione del farmaco (e poi la Danimarca di dismetterlo completamente); mentre altri ordinamenti hanno modulato diversamente le proprie posizioni con riferimenti all’età e a eventuali patologie. Ma la condizione di sussidiarietà epistemica costringe comunque tutti gli Stati ad argomentare le proprie scelte e auspicabilmente a dialogare con i propri cittadini, che le valutano anche in relazione alle posizioni prese da altri ordinamenti.
Certamente una pronuncia unitaria di EMA avrebbe potuto fungere da spinta gentile sui cittadini attraverso un rimando alla certezza e all’oggettività di un’unica autorità scientifica. Ma l’assenza di tale opzione pone in giusto rilievo l’ineludibile situazione di incertezza e le responsabilità che ne derivano. Le conoscenze limitate che abbiamo dei vaccini anti-COVID dovrebbero suggerire che riconoscere e affrontare l’incertezza rimane la strategia migliore al fine di creare decisioni pubbliche condivise in un cammino che sarà ancora lungo e pieno di sorprese.
Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.
Bibliografia
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