Editoriali
26/11/2015

Le priorità della ricerca epidemiologica

Il numero di marzo della rivista Epidemiology si apre con un articolo di Howard Frumkin, decano della School of Public Health della Washington University, dal titolo: «Work that matters.Toward consequential environmental epidemiology», che potrebbe essere liberamente tradotto come: «La ricerca che conta. Verso un’epidemiologia ambientale attenta alle conseguenze » (Epidemiology 2015;26(2):137-40). L’articolo è una riflessione autorevole sui caratteri fondanti dell’epidemiologia, in particolare dell’epidemiologia ambientale, che secondo l’autore trae la sua legittimazione dalla capacità di intervenire efficacemente sulle principali cause di sofferenza e di morte precoce dell’umanità. Mi limiterò qui a qualche richiamo agli aspetti che amio parere hanno maggiore attinenza con la situazione italiana e a pochi commenti.

L’osservazione da cui prende le mosse l’autore è che la ricerca in epidemiologia ambientale è essenzialmente eziologica e troppo poco orientata alla valutazione degli interventi tesi a migliorare la salute della popolazione. In ultima analisi, è poco funzionale a fornire una cornice metodologica capace di aiutare le politiche di Sanità pubblica a dare risposte coerenti alle questioni che contano: quali interventi funzionano e perché, come e dove intervenire prioritariamente. Secondo l’autore, gli aspetti che devono caratterizzare un’epidemiologia tesa al cambiamento, cioè «all’attenzione alle conseguenze », sono nove, sei riferibili all’epidemiologia generale e tre specifici dell’epidemiologia ambientale. Tra questi:

  • spostare l’attenzione da ciò che viene prima (le cause) a ciò che sta a valle dell’intervento o del non intervento (l’impatto);
  • impostare una ricerca per rispondere alle domande poste o che dovrebbero essere poste dai decisori;
  • utilizzare metodi vari e flessibili, non ancorati a un purismo accademico: il metodo è un mezzo per fornire risposte rigorose, non deve diventare il fine della ricerca;
  • non continuare a battere strade già ampiamente esplorate, ripetendo ricerche in campi di cui si sa già tutto ciò che serve per prendere decisioni;
  • comunicare i risultati in modo efficace, non solo per la comunità scientifica ma per tutti coloro che possono essere interessati.

Venendo agli aspetti specifici dell’epidemiologia ambientale:

  • occuparsi prioritariamente dei fattori ambientali che stanno plasmando il pianeta, e, quindi, stanno modificando la condizione umana, e che in prospettiva possono costituire una diffusa minaccia per la salute: mutamenti climatici, urbanizzazione, perdita di biodiversità, accumulo di sostanze tossiche biopersistenti, disastri naturali.

L’articolo è un appassionato appello alla necessità che l’epidemiologia rifletta sulle proprie finalità e compia scelte conseguenti, investendo risorse su quanto ha forte e diretta attinenza con le più diffuse cause di dolore e morte degli essere umani. Il dibattito sulle motivazioni e gli scopi dell’epidemiologia non è nuovo e, in particolare, Frumkin ricorda due interventi contrapposti che già nel passato hanno segnato gli estremi delle diverse posizioni sul tema. Nel 1983, Bill Foege, epidemiologo americano, intervenendo a un meeting dell’American Public Health Association, dichiarò che l’epidemiologia era uno strumento per cambiare il mondo, non semplicemente per studiarlo («a tool to change the world, not merely to study the world»), mentre, circa un decennio dopo, Petr Skrabaneck dalTrinity College di Dublino inveiva contro la povertà dell’epidemiologia dovuta alla grande prevalenza di epidemiologi a fronte di una bassa incidenza di problemi risolvibili dai metodi epidemiologici («a high prevalence of epidemiologists when the incidence of problems soluble by epidemiological methods is low»). Entrambi gli interventi, pur da punti di vista contrapposti e con differenti implicazioni, sottolineano la necessità che l’epidemiologia si confronti con i problemi rilevanti dell’ambiente e della società, offrendo risposte utili ad assumere decisioni per risolvere i problemi indagati. Questo perché l’epidemiologia possa essere presa sul serio non tanto nella comunità scientifica, dove il suo sofisticato bagaglio metodologico le garantisce comunque una posizione sicura sebbene non di prima fila, ma nei luoghi dove si assumono decisioni, dove si cambia il mondo, o si potrebbe cambiarlo. Certo, occorre trovare questi luoghi e occorre riuscire a interloquire con chi, a volte, preferirebbe non ricevere suggerimenti esterni, neppure se basati sulle evidenze. Ma questo è solo per metà un problema dell’epidemiologia, l’altra metà compete alla politica.

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.

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