Editoriali
26/11/2012

Disastro ambientale a Taranto: il ruolo dell’epidemiologia

Il fallimento dei sistemi di controllo e di tutela della salute dei cittadini

L’entità del danno ambientale a Taranto era nota da tempo e non solo agli addetti ai lavori. Tuttavia, gli studi condotti in questi anni e le numerose denunce da parte di tecnici dell’ambiente e della salute, di organizzazioni sindacali e di cittadini non avevano avuto fino ad oggi un impatto determinante. C’è voluta un’indagine della magistratura per far diventare la questione dell’ILVA un “caso nazionale”.

Riguardo all’ILVA il Ministro dell’ambiente Corrado Clini ha affermato: «In Italia come in tutta Europa le autorità competenti in materia di protezione dell'ambiente e nel monitoraggio degli inquinanti sono identificate dalle leggi, oltre che dalle direttive. Nessuna legge attribuisce questo compito all'autorità giudiziaria».

È vero. Ma in questi anni i controlli e le indagini effettuate a Taranto dagli organismi regionali e nazionali competenti non hanno determinato da parte dei decisori interventi efficaci per limitare i danni all’ambiente e alla popolazione e per costringere l’ILVA a intraprendere azioni di bonifica. Se oggi a Taranto si stanno perseguendo dei reati, è perché gli organi preposti al controllo non sono riusciti, con gli strumenti disponibili, a tutelare l’ambiente e la salute della comunità residente. È questo un aspetto particolarmente critico che dovrebbe far riflettere non sull’effettiva competenza delle strutture preposte, quanto sulla limitatezza dei mezzi e dei poteri delle strutture di controllo e sulla necessità di ridiscuterne assetto e normative.

La perizia chimica svolta nell’ambito dell’accertamento giudiziario e il pronunciamento del GIP della Procura di Taranto, Patrizia Todisco, (successivamente confermato dal Tribunale del Riesame) hanno concluso che l’ILVA è stata responsabile della diffusione nell’ambiente di sostanze pericolose per la salute dei lavoratori e della popolazione residente, che alcune sostanze rilevate nell’ambiente e negli animali abbattuti (diossine e PCB) sono riconducibili alle emissioni di fumi e polveri dello stabilimento siderurgico, che la proprietà di quest’ultimo non ha adottato tutte le misure idonee a evitarne la dispersione, che numerose e varie sono le emissioni non convogliate che si originano dai diversi impianti dello stabilimento. La perizia ha inoltre rilevato che, pur risultando i valori delle emissioni nel 2010 conformi ai limiti di legge, l’ILVA avrebbe dovuto dotarsi già dal 1999 di sistemi di controllo automatico in continuo di diversi parametri inquinanti e non lo ha fatto. Per decenni, i camini dell’impianto siderurgico hanno riversato nell’ambiente circostante migliaia di tonnellate di polveri, di biossido di azoto, di anidride solforosa, di acido cloridrico, centinaia di chilogrammi di benzene, di IPA, decine di chili di diossine. A questo si aggiungono le emissioni “non convogliate”.

Basterebbero tali valutazioni per sostenere la necessità di un processo di riconversione degli impianti e per attivare il lungo, complesso e costoso processo di bonifica del territorio circostante.

Al contrario, mentre da oltre dieci anni nei paesi emergenti sono in uso tecniche di produzione alternative e meno inquinanti, l’ILVA ha fatto ben pochi investimenti per tecnologie più moderne e meno inquinanti. Secondo i dati riportati dal rapporto dell’E-PRTR (European Pollutant Release and Transfer Register) della Commissione europea del 2008, l’ILVA è uno dei pochi produttori di acciaio che utilizza ancora il processo d’altoforno ed è tra i peggiori impianti industriali inquinanti d’Europa.

L'apporto dell'epidemiologia

Negli ultimi decenni gli epidemiologi ambientali hanno messo a punto strumenti sempre più sofisticati: da una parte l’uso di modelli di diffusione degli inquinanti, che consente di caratterizzare sempre meglio l’esposizione della popolazione, dall’altra la standardizzazione di metodologie per l’analisi di studi di coorte, analisi di serie temporali e tecniche di analisi geografica che permettono una maggiore accuratezza nell’accertamento dei danni sulla salute.

Spesso però i risultati degli studi epidemiologici non vengono utilizzati da chi deve prendere decisioni di sanità pubblica, mentre dovrebbero costituire uno strumento indispensabile alla politica ed alla gestione ambientale e sanitaria anche quando, come spesso avviene, i risultati sono espressi in termini di probabilità e vi è incertezza nelle stime. In assenza di rischi certi, il decisore deve scegliere tra interventi di prevenzione primaria ispirati al principio di precauzione o un atteggiamento passivo ‘giustificato’ dall’incertezza. Spesso per convenienza si sceglie quest’ultimo.

Nel caso di Taranto, la popolazione residente in prossimità degli impianti dell’ILVA è stata esposta per anni ad alti livelli di inquinanti con effetti noti e ben documentati in letteratura. La perizia epidemiologica ha identificato effetti sanitari per i quali il rapporto di causalità è già stabilito, e per i quali esiste una forte e consolidata evidenza scientifica (mortalità, incidenza di patologie croniche respiratorie e cardiovascolari, incidenza di tumorimaligni). La perizia epidemiologica non ha solo definito se le esposizioni presenti siano o non siano causa dimalattia,ma ha anche quantificato i danni in termini di casi attribuibili ai livelli di inquinamento presenti nell’area. I risultati dello studio sugli effetti a breve termine mostrano un impatto molto più forte del PM10 nei quartieri più vicini agli impianti (Tamburi e Borgo) rispetto all’effetto riscontrato nell’intero comune di Taranto. Per quanto riguarda gli effetti a medio e lungo termine, i risultati dell’analisi della mortalità e dei ricoveri ospedalieri della coorte di popolazione residente seguita dal 1998 al 2010 hanno messo in luce un effetto significativo dell’inquinamento nell’area (per incrementi di PM10 di origine industriale) sullamortalità per cause cardiache ed eventi coronarici acuti e un incremento significativo della mortalità per patologie respiratorie e per tumori nella popolazione 0-14 anni.

È da sottolineare che negli studi su Taranto sono stati utilizzati i metodi più appropriati dell’epidemiologia ambientale e scale di rischio basate su criteri di valutazione che riguardano i livelli di esposizione, la gravità degli effetti evidenziati, la forza, la significatività e la plausibilità biologica dell’associazione.

La perizia epidemiologica consegnata al GIP conclude: «l’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e morte. I modelli di analisi messi a punto hanno annuale di decessi e di malattie che conseguono all’esposizione all’inquinamento».

In questo caso non si tratta di prendere decisioni in condizioni di incertezza o di doversi richiamare al principio di precauzione. Il danno sanitario non solo poteva essere previsto sulla base delle emissioni e delle conoscenze scientifiche (Health Impact Assessment) ma è stato accertato con misure epidemiologiche di popolazione.

Le reazioni delle autorità politiche

Nei giorni più caldi del caso ILVA il ministro dell’ambiente ha sostenuto che le indagini epidemiologiche realizzate per conto della magistratura, così come quelle realizzate dall'Istituto superiore di sanità nell’ambito del progetto SENTIERI,1 documentano eccessi di patologie a lunga latenza, che si riferiscono quindi a contaminazioni ambientali del passato derivanti da impianti che a quel tempo operavano nel rispetto delle leggi. È vero che negli studi epidemiologici occorre tener conto del periodo di latenza, però nel caso di Taranto i risultati indicano sia effetti a lungo termine, sia effetti a breve termine. Chi deve prendere decisioni dovrebbe avere un atteggiamento più obiettivo, promuovendo un confronto aperto tra ricercatori, richiedendo se necessario verifiche e approfondimenti delle indagini, senza ignorare, per convenienza, una parte dei risultati prodotti.

Del resto, si potrebbero citare molti casi in cui i decisori hanno assunto questo atteggiamento. Tra tutti, ricordo lo studio sull’esposizione a radiofrequenze e il rischio di leucemie nell’area di Radio vaticana. Il caso di Radio Vaticana non è sicuramente paragonabile al caso di Taranto, allora si trattava di un fattore di rischio incerto (esposizione a radiofrequenze), mentre ora si tratta di una gravissima situazione di degrado ambientale ben documentata.

Tuttavia le cronache di questi giorni richiamano la vicenda di Radio Vaticana per la reazione scomposta che ebbe una parte della “politica” e del mondo scientifico che cercò di invalidare i risultati dell’indagine epidemiologica. Si noti che lo studio su Radio Vaticana non affermava la presenza di nessi causali ma documentava un aumentato rischio di incidenza di leucemie infantili, sottolineando la necessità di indagini più approfondite, che a distanza di dieci anni, nonostante due procedimenti penali, nessuna autorità competente ha richiesto.

Il coinvolgimenti dei cittadini

Qualunque attività umana che modifica l’ambiente di vita può rappresentare un potenziale rischio per la salute umana. In tutte le scelte che possono avere implicazioni per la salute (localizzazione di un impianto industriale, di una discarica, di un inceneritore) le valutazioni di impatto dovrebbero essere sempre effettuate e rese note per tempo alla popolazione. Comunicare in modo corretto la gravità dei rischi in gioco, la valutazione dei costi e dei benefici per la popolazione dell’area, il grado di incertezza delle conoscenze scientifiche, significa promuovere il coinvolgimento della società civile, aumentando la consapevolezza dei cittadini rispetto a possibili rischi per la salute, cosa a cui hanno innegabilmente diritto. In condizioni di incertezza occorre inoltre promuovere ricerche e approfondimenti.

Quando i potenziali rischi in gioco sono elevati i politici hanno il dovere di prendere provvedimenti anche drastici, laddove inevitabili. E quando si antepongono interessi economici ai rischi per la salute di una comunità, il “buon politico” dovrebbe renderlo esplicito, piuttosto che mistificare sui livelli di pericolo.

Non si può tornare indietro

In Italia c’è ancora troppa poca attenzione nei confronti dei disastri ambientali prodotti nel corso di decenni, dei rischi che ne derivano e più in generale dell’impatto sulla qualità della vita dei cittadini residenti nelle aree inquinate. Secondo il Ministero della salute2 i siti da bonificare in Italia sonomigliaia e 57 di questi, sulla base dell’entità della contaminazione ambientale, del rischio sanitario e dell’allarme sociale (DM471/1999) sono stati definiti siti di “interesse nazionale per le bonifiche” (SIN).

È necessaria una politica ambientale rigorosa che definisca strategie e regole per affrontare i gravi problemi ambientali del nostro paese e investimenti per la bonifica e la riqualificazione delle aree degradate. Dopo Taranto non si può più tornare indietro: il governo deve sostenere azioni vincolanti per l’azienda per arrivare in tempi rapidi a una progressiva bonifica degli impianti definendo una strategia per ridurre le emissioni inquinanti.

Per il futuro servono scelte orientate verso uno sviluppo industriale sostenibile, affiancato da politiche per la tutela dell’ambiente che garantiscano la salute dei cittadini. Agli organi nazionali e regionali che si occupano di salute, l’invito a investire nella ricerca epidemiologica ambientale, per non trovarsi poi a rincorrere le evidenze scientifiche prodotte da altri poteri dello stato, magari chiedendo un improbabile “riesame”.

Bibliografia

  1. Epidemiol Prev 2011; 35 (5-6) suppl 4: 1-204
  2. http://www.rssp.salute.gov.it/
  3. http://151.1.149.72/pne11_new
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