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09/01/2025

Quali principi del SSN oggi non sono più rispettati?

Nel suo sito internet, il Ministero della Salute dichiara quali sono i principi su cui si fonda il Servizio Sanitario Nazionale, cioè Equità, Uguaglianza, Universalità, e ne dà delle brevi definizioni qui. Nel primo intervento Carlo Zocchetti parla di crisi dell'universalismo, seguono contributi di Giuseppe Costa e di Cesare Cislaghi.
Ci sono senza dubbio dei problemi di definizione dei significati dl Equità, Uguaglianza e Universalità, ma sicuramente oggi il SSN non rispetta questi principi sino in fondo ed è giusto chiedersi il perché, e anche se sia invece possibile rispettarli e come.
Invitiamo tutti i lettori di questo nostro blog a inviare commenti, anche critici, finalizzati a capire cosa stia succedendo e cosa si dovrebbe fare per difendere il Servizio Sanitario Nazionale.

Image by Gerd Altmann from Pixabay

L'universalismo è ancora una virtù del SSN?

Carlo Zocchetti, ReSiSS Ricerche e Studi in Sanità e Salute

Parafrasando il famoso libretto del 1965 di don Lorenzo Milani “L’obbedienza non è più una virtù” sarei tentato di cominciare questo contributo dal fondo e cioè dalla conclusione che l’universalismo non è più una virtù del SSN, ma per non mettere il carro davanti ai buoi mi sembra più opportuno porre invece la domanda: possiamo dire che l’universalismo è ancora una virtù del nostro servizio sanitario nazionale?

Come noto ed anche ribadito in questo blog (Bene valutare il SSN, ma innanzitutto cosa?) tre sono i principi attorno ai quali è stato costruito e modellato il nostro SSN: universalismo, uguaglianza, equità. Al di là del fatto che questi principi siano o meno stati realizzati in questi 45 anni di vita del servizio sanitario, pensando al SSN del futuro possiamo ancora contare su questi principi come base della architettura istituzionale del sistema sanitario o dobbiamo introdurre qualche aggiustamento e qualche variazione?

Non vuole essere questo contributo il luogo per una analisi estesa e critica di quello che va bene e di quello che va male nel SSN che stiamo vivendo oggi, di quello che eventualmente si è perso per strada e di quello che invece si è guadagnato, perché è tutto il contenuto del blog che ragiona su questi temi, ma credo che una riflessione sui principi ci possa aiutare a cominciare a tracciare il perimetro entro il quale muoversi per non subire passivamente i cambiamenti che il passare del tempo inevitabilmente introduce e per indirizzare le trasformazioni verso dove riteniamo che debbano andare.

Equità: “a tutti i cittadini deve essere garantita parità di accesso in rapporto a uguali bisogni di salute”. Molti sono i segnali che dicono che oggi il nostro SSN soffre sul tema della equità, ma un conto è dire che l’equità non si è realizzata (o è disattesa) a causa di tante ragioni (che non dipendono solo dal SSN e da ciò che lo circonda) sulle quali si può (e si deve) intervenire, ed altro conto è pensare ad un SSN dove l’equità non sia più un principio guida. Anche l’ospedalità privata (AIOP), spesso chiamata in causa come all’origine di fenomeni di iniquità, nel suo ultimo volume preparato in collaborazione con il CENSIS (Ospedali&Salute Ventunesimo rapporto annuale 2023, Franco Angeli) ha dichiarato la propria contrarietà, ad esempio, ad un SSN caratterizzato dal censo. Tanti comportamenti e scelte, a tutti i livelli (di singoli, di gruppi, di governi, …), possono portare a soluzioni non eque, a risultati iniqui nei confronti dei cittadini più deboli, ma queste sofferenze pratiche non devono indurre a pensare che dell’equità si possa fare a meno e che abbia senso progettare un SSN dove l’equità non sia più un principio fondativo.

Nonostante alcune sirene (non ultimo l’appello di alcuni mesi fa di 14 scienziati) evochino la preoccupazione di una deriva del nostro SSN verso il sistema sanitario degli USA, considerato per principio non equo, ritengo da una parte assai poco probabile questa prospettiva e dall’altra che la insoddisfacente equità del SSN di oggi non deve indurre a rinunciare ad essa come principio, ma semmai a metterla maggiormente al centro delle scelte che caratterizzano il SSN.

Uniformità, uguaglianza: “i cittadini devono accedere alle prestazioni del SSN senza nessuna distinzione di condizioni individuali, sociali ed economiche”. Anche questo principio è spesso disatteso. Solo per venire ad uno degli ultimi documenti di alto livello amministrativo che ne hanno parlato, e cioè la relazione svolta dalla Corte dei Conti alla inaugurazione dell’anno giudiziario 2024 (Roma, 13.2.24), vi si dice: “La tendenza, ormai già da diversi anni, appare lenta ma costante: da un servizio sanitario nazionale incentrato sulla tutela del diritto costituzionalmente garantito, a tanti diversi sistemi sanitari regionali, sempre più basati sulle regole del libero mercato”. Sono notizia di tutti i giorni le tante difformità che caratterizzano “le” sanità dei nostri territori, e non solo per le differenze tra regioni ma anche per quelle intraregionali (soprattutto nelle regioni geograficamente più estese), così come non si può evitare di pensare alle tante ragioni che da tempo sono all’origine dei rilevanti fenomeni di mobilità sanitaria. Ma come per l’equità, la mancata realizzazione del principio di uniformità e di uguaglianza non implica la rinuncia all’uso di questo principio per fondare il SSN di domani.

E non considero adeguate anche le preoccupazioni di coloro che pensano che il principio di uniformità ed uguaglianza sarà disatteso dalle proposte di autonomia differenziata in discussione: ho già espresso in altra parte di questo blog come sia possibile pensare alla autonomia differenziata senza mettere in discussione equità ed uguaglianza.

Certo le attuali disuniformità vanno affrontate e superate ma non voterei per un SSN che rinunci all’uguaglianza come principio fondativo.

Universalismo: “estensione delle prestazioni sanitarie a tutta la popolazione”. Siamo sicuri che si stia applicando questo principio? La distribuzione molto eterogenea della rete di offerta di servizi sanitari e socio-sanitari, ed in particolare il deficit (per non parlare della mancanza) soprattutto (ad esempio) di servizi socio-sanitari e di attività di prevenzione in molte regioni, la incapacità manifesta di alcune di esse di erogare le prestazioni considerate essenziali, la fuga (migrazione) da alcuni territori alla ricerca di prestazioni che non si ritiene di ricevere a ragionevole distanza da casa, e così via, sono tutti segnali indice della difficoltà ad erogare le prestazioni sanitarie a tutta la popolazione.

La Ragioneria Generale dello Stato (Rapporto n. 10 del 2023 sul monitoraggio della spesa sanitaria) ci avverte che in un anno i cittadini italiani hanno speso di tasca propria circa 40 miliardi per prestazioni sanitarie (25% della spesa sanitaria complessiva), quota molto rilevante (e probabilmente sottostimata) ed in notevole crescita negli ultimi 10-15 anni, per altro con notevoli variabilità regionali visto che si va dai 351 euro pro-capite della Basilicata e 382 della Calabria agli 852 dell’Emilia Romagna e 937 della Lombardia. Anche i confronti europei (per quanto da prendere sempre con le molle) confermano la maggiore propensione dei nostri cittadini (rispetto alle altre nazioni) a pagare di tasca propria prestazioni sanitarie acquistate sia dentro che fuori il SSN. Pure l’ultimo rapporto OASI (Università Bocconi) tratta l’argomento e raggiunge le stesse conclusioni. In altre parole: si superano le ristrettezze (e gli impedimenti) poste alla applicazione del principio universalista uscendo dal SSN.

Queste constatazioni non indicano il motivo per cui molti cittadini non riescono a (o sono costretti a non ) ricevere prestazioni essenziali ma rivelano un elemento importante: la disponibilità (più o meno forzata) di molti cittadini a mettere in secondo piano il principio universalista o comunque la necessità di rivalutare e ripensare il suo significato ed il suo ruolo come virtù e pilastro del SSN.

Qualcuno, sempre OASI, parla già di un universalismo selettivo, cioè di un universalismo indirizzato verso una parte dei LEA di oggi o verso gruppi identificati di popolazione, ed in questo contesto sarebbe importante che le soluzioni proposte siano conseguenza di scelte esplicite di priorità identificate, e non conseguano invece, come è la situazione attuale, a fenomeni di iniquità (chi ha i soldi) o siano frutto di un razionamento implicito o dettato dal caso (esempio: indisponibilità di servizi, lunghi tempi di attesa, …) o dalla capacità di taluni di destreggiarsi nel mare magnum della nostra burocrazia o facendo ricorso al proprio giro di conoscenze.

Sempre sul tema dell’universalismo mi è sembrata interessante la lettura del recentissimo volume curato da L. Pesenti e G. Rovati e pubblicato da Il Mulino (“Tra le crepe dell’universalismo. Disuguaglianze di salute, povertà sanitaria e Terzo settore in Italia”, 2024), che parla anche di equità e disuguaglianze ma che, evidenziando soprattutto il ruolo del Terzo settore, particolarmente presente in campo socio-sanitario ma con contributi rilevanti anche in campo sanitario ad esempio nella raccolta e distribuzione di farmaci a cittadini che per ragioni economiche non se li possono permettere, mostra alcune crepe che l’universalismo presenta e che necessitano di essere (almeno) aggiustate se non eliminate.

Per semplificare la discussione ed evidenziarne gli aspetti di maggiore rilevanza ho trattato i tre principi (universalismo, uguaglianza ed equità) come se fossero tre entità separate: in realtà il loro collegamento è del tutto evidente, così come non è sempre semplice distinguere, di fronte ad un determinato problema (esempio: liste di attesa, acquisto di farmaci e prestazioni essenziali socio-sanitarie, …), quale dei tre singoli principi stia (o non stia) agendo o se vi sia invece un concorso di azione.

Non solo, ma per una discussione completa occorrerebbe mettere sul tavolo anche la questione della essenzialità, perché da una parte non vi è dubbio che molte delle attività e delle prestazioni oggi considerate non essenziali (e quindi fuori dai LEA) non sono servizi superflui rispetto al diritto alla tutela della salute richiamato dalla Costituzione e per alcune categorie di soggetti (ad esempio quelli in povertà assoluta o relativa) potrebbero diventare essenziali, e dall’altra alcune condizioni poste alla erogazione di servizi e prestazioni essenziali (ticket farmaceutici, compartecipazione all’utilizzo di servizi socio-sanitari, …) rendono difficile l’esercizio dei tre principi.

In sintesi, e non entrando qui nel merito di una necessaria riflessione sul tema della essenzialità che è alla base di molti dei problemi di mancata attuazione dei tre principi in discussione. Equità? Sì. Uguaglianza? Sì. Universalismo? Ci si può lavorare con scelte di priorità esplicite e governate. Servono anche altri principi? Pensiamoci.

Modificata da: Image by Clker-Free-Vector-Images from Pixabay e da: Image by Clker-Free-Vector-Images from Pixabay

 

Il Servizio Sanitario Nazionale è malato? 

Giuseppe Costa, Università di Torino

Da un po’ di anni autorevoli Cassandre annunciano l’arrivo della “tempesta perfetta”, fatta di invecchiamento della popolazione, innovazione tecnologica sempre più costosa e crescente attitudine al consumo. Passata la bolla pandemica che aveva sospeso ogni margine alla spesa sanitaria, il cappio del debito pubblico è tornato a stringersi intorno alla spesa pubblica, impedendo alla spesa sanitaria di crescere al suo ritmo “naturale” in proporzione al PIL.

 La reazione del sistema è stato il razionamento dei livelli di assistenza più comprimibili, quelli della assistenza specialistica e strumentale, attraverso la leva del controllo dell’offerta e delle liste di attesa. La conseguenza principale consiste sia nell’aumento della spesa privata sia nella rinuncia alle cure per questi livelli di assistenza, effetti che si sommano a quelli già causati dal razionamento dei livelli di assistenza non essenziali, quelli appropriati come la salute orale o la non autosufficienza, e quelli meno appropriati. Si tratta di effetti che sono molto disuguali e potenzialmente iniqui, oltre che particolarmente invisi al pubblico.

Per queste ragioni da un lato si è mobilitata l’opposizione politica che ne ha fatto il principale obiettivo di mobilitazione politica insieme al salario minimo, in entrambi i casi senza un particolare successo; la CGIL poi propone un disegno di riforma del SSN; mentre scienziati e esperti di management sanitario tornano a riflettere sui principi fondativi del SSN per suggerirne un aggiornamento al contesto di oggi.   Dall’altro lato la maggioranza governativa ha ritagliato piccoli investimenti per tamponare le principali lacune nelle liste di attesa; mentre allo stesso tempo la sanità privata e le assicurazioni stanno approfittando di questa congiuntura per accreditarsi come la soluzione più efficiente.   

Nel contesto di queste riflessioni sulla sanità pubblica malata e sui rimedi l’intervento di Zocchetti sostiene che equità e uguaglianza non sarebbero in discussione, semmai migliorabili, ma che l’universalismo sarebbe invece il principio più minacciato a causa della selettività implicita e disuguale nell'offerta sanitaria. Se proprio l’offerta sanitaria dovesse essere razionata per ragioni di sostenibilità, questa selezione dovrebbe essere esplicita e ispirata a principi di equità e uguaglianza. Concordo con Zocchetti sul fatto che questa potrebbe essere una delle responsabilità di maggiore attualità per l’epidemiologia: informare i decisori e i portatori di interesse sulle implicazioni per la salute delle scelte di razionamento e dei possibili rimedi.

Il Servizio Sanitario Nazionale non dovrebbe lasciarsi dettare l’agenda della sostenibilità e degli eventuali razionamenti dei livelli di assistenza dalle circostanze delle ricorrenti crisi e meno che mai dai non disinteressati suggeritori del mercato. Per questo scopo il SSN dovrebbe saper tradurre i livelli (essenziali) di assistenza (LEA) in una metrica comune di impatto sulla salute che possa diventare la moneta corrente con cui governare l’offerta e l’eventuale razionamento di LEA. Solo disponendo di questa informazione i decisori e i portatori di interesse potrebbero fare scelte fondate su una comprensione condivisa del loro impatto sulla salute nella popolazione e nei vari gruppi e territori, in modo che ognuno possa valutare cosa perde o guadagna da una decisione.

Tra l’altro il tema è particolarmente attuale nel contesto della regolazione dell’autonomia differenziata, dove l’uguale accessibilità ai LEA e financo anche ai livelli (essenziali) di tutela (LEP) sarebbe precondizione per aprire spazio a forme di differenziazione sui livelli non essenziali. Il problema è se sia possibile stimare quanto vale in salute un LEA o un LEP. Bisogna risalire alla discussione sugli algoritmi di allocazione delle risorse per i livelli di assistenza nello stato dell’Oregon per trovare un interesse simile. Riaprire un laboratorio dedicato a questo compito sarebbe la migliore risposta epidemiologica ed economico-sanitaria al lavoro della Commissione del CNEL sui LEP e LEA. Gli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile (BES) dell’Istat sono stati appunto introdotti come base informativa della relazione di accompagnamento alla Legge di Bilancio, proprio sulla base del principio che le scelte allocative dello Stato (per finanziare LEP e LEA) dovessero misurarsi su una valutazione comparativa dell’andamento dei livelli di tutela del benessere misurati dal BES. Se si misura l’andamento temporale, geografico e sociale di questi indicatori si può già imparare molto sugli effetti sul benessere delle crisi e dei rimedi introdotti dalla programmazione.

Il dibattito sulla sanità malata trascura poi di considerare e dare valore alle importanti trasformazioni in corso nella assistenza territoriale, che più di ogni altra circostanza potrebbe cambiare le competenze con cui i vari attori partecipano a rendere sostenibile la sanità pubblica con le proprie scelte. La missione 6 del PNRR e il conseguente DM77 investono una quantità inedita di finanziamenti e di impegni di riforma nella trasformazione dell’offerta della sanità territoriale: COT, Case della Comunità, Ospedali di Comunità sono i luoghi chiamati a rendere la sanità territoriale visibile e innovativa nella promozione della salute e nella prevenzione, nella sanità di iniziativa, nella continuità assistenziale, nella domiciliarità.

Si tratta di investimenti strutturali, tecnologici, soprattutto nella digitalizzazione, organizzativi, di procedure, di formazione e di governance, di una entità e ambiziosità mai viste nel nostro SSN. Anche questo sforzo ha bisogno di essere accompagnato dall’epidemiologia per assicurare un’adeguata metrica di monitoraggio degli indicatori di salute che guidi gli attori della programmazione locale verso i rischi e bisogni a maggiore impatto applicando i rimedi più efficaci, costruendo così una comunità locale che sappia dare valore alle conseguenze delle scelte, eventualmente anche quelle di un razionamento che si rendesse necessario.

Una metrica buona per misurare impatto su salute di LEA e LEP con una particolare attenzione ai livelli di assistenza e tutela governabili a livello locale potrebbe essere il mandato per un nuovo laboratorio interdisciplinare che l’epidemiologia potrebbe proporre alle altre discipline, in particolare l’economia sanitaria, magari nella sede del lavoro istruttorio sui LEP del CNEL.   

Immagine di freepik

 

Non è certo solo questione di spesa

Cesare Cislaghi, epieconomista

Le difficoltà evidenti del SSN non derivano certo solo da questioni di carenza di finanziamento anche se le risorse pubbliche per la sanità sono certamente carenti e l'aumento in termini assoluti del fondo sanitario da parte del Governo Meloni nasconde una diminuzione della quota della ricchezza del paese (il PIL) destinata alla sanità pubblica.

Questi tagli in termini "reali" della spesa sanitaria non sono solo di oggi ma almeno durano da una quindicina di anni in cui si è ritenuta fosse la soluzione più semplice per recuperare dei fondi per altri settori. Ma non è tutto qui, vi è stata anche l'aggressività del mercato che ha ritenuto conveniente puntare sulla sanità privata ed ancora una crescente sfiducia della popolazione nel pubblico meno attento alle problematiche degli utenti.

Però, al di là del significato dei termini, se per universalità si intende l'allargamento della copertura dell'assistenza all'intera popolazione, si deve riconoscere che nessun italiano viene escluso dal SSN, mentre però lo sono i molti migranti irregolari.

Distinguerei però l'universalità di diritto dall'universalità di fatto in quanto i ritardi nelle erogazioni escludono da alcune prestazioni i soggetti meno abbienti e costringono gli altri a trovare altre forme di assistenza rivolgendosi alla sanità privata pagandone il prezzo o stipulando delle assicurazioni. Spesso anche i costi di alcune compartecipazioni, come quella dei ricoveri nelle RSA, di fatto escludono i meno abbienti.

Ma nella mia terminologia questa non è mancanza di universalità, bensì mancanza di equità. Le regole di accesso alle prestazioni sono uguali per tutti ma non è così per tutti l'uguale possibilità di curarsi. Il Ministero definisce l'equità come un pari accesso per uguali bisogni, ma aggiungerei anche a parità di possibilità economiche di accesso.

La questione allora ricade sulla definizione dei LEA e sulla garanzia delle possibilità di usufruirne nei tempi e nei modi opportuni. Dei LEA di fatto non esigibili da parte di molti non sono certo dei LEA garantiti, e se questo riguarda soprattutto i meno abbienti la questione diventa una grave iniquità.

Trump pretenderebbe un aumento delle spese militari al 5% del PIL, cioè due volte e mezzo le attuali, non vorremmo che a perderci fosse ancora una volta la sanità. Purtroppo, chi decide sono per lo più una popolazione sana che vorrebbe che, come per altri settori del mercato, i consumi sanitari se li pagassero i malati. Ci sono due settori in cui la spesa non deve e non può essere a carico di chi ne usufruisce ma deve essere a carico dell'intera comunità: l'istruzione e la sanità.

Ma se la scarsità delle risorse del nostro paese dovessero invece in futuro realmente impedire sempre più la erogazione adeguata dei LEA, ovvero se i LEA stessi dovessero essere razionati, allora dovremmo pensare che si dovrebbe fare per garantire l'equità delle cure a tutta la popolazione. E credo che la via percorribile dovrebbe prevedere da una parte una reale revisione dell'appropriatezza delle cure e dall'altra una maggiore compartecipazione proporzionale alle capacità di ciascuno. o addirittura ad una forma di assicurazione sanitaria pubblica integrativa anch'essa proporzionale al reddito famigliare.

Ma ancor prima dovremmo rivedere dopo 46 anni di vita del SSN, se l'impostazione del sistema sanitario è ancora quella adeguata alla situazione attuale. La medicina generale, la sanità territoriale specialistica, i pronto soccorso, la prevenzione, ecc. devono essere ripensate e riorganizzate per aumentarne sia l'efficienza che l'efficacia.

E ancor prima si deve dotare gli operatori di una mentalità manageriale che non consideri solo le capacità tecnico professionali di ciascuno, ma anche le esigenze di funzionamento del sistema nel suo complesso. E questo a partire dalle facoltà di medicina che non affrontano purtroppo mai nei temi di insegnamento i problemi di gestione e di governo del sistema sanitario.

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