Attualità
04/12/2009

Non c’è posto per le «anime belle»

In un recente articolo pubblicato sul Journal of Medical Ethics si ricordava l’importanza dell’influenza dell’industria farmaceutica sui risultati delle sperimentazioni cliniche. Qualche anno (secolo?) fa, in un documento sull’etica in epidemiologia ambientale un gruppo di autorevoli epidemiologi e il sottoscritto sottolineavano l’importanza delle istituzioni nella gestione dei dati epidemiologici. Si sottintendeva (si auspicava) la terzietà di quelle nell’esclusivo interesse del bene comune. Ma da chi sono rappresentate tali istituzioni? Spesso si tratta dei rappresentanti della maggioranza degli elettori, qualche volta solo di quelli economicamente e culturalmente prevalenti in quel momento. Non si può quindi escludere che anche ricerche condotte all’interno, o per conto, di istituzioni pubbliche siano viziate da diversi tipi di bias, o addirittura frodi. Ho fatto queste premesse per invitare a evitare posizioni da «anime belle» allorché ci si occupa di prevenzione. Che (in particolare se primaria), occupandosi di «sani», deve spostare l’attenzione sui fattori di rischio. Già nel 1998 l’OMS asseriva che «la promozione della salute è vista come un processo di cambiamento che opera attraverso persone, politiche e organizzazioni per intervenire sui meccanismi di fondo». Bisogna cioè occuparsi di aspetti connessi alla salute, ma sono soprattutto la politica e l’economia che possono favorire alcuni e sfavorire altri. In tal senso, a mio avviso può essere utile sostenere (seppure provocatoriamente) che la sostanza della conoscenza del medico non è il malato. Egli è l’oggetto del suo operare, che quindi deve essere considerato nelle sue diverse dimensioni (anche psicologiche ed etiche), garantendogli un rapporto di umana comprensione e vicinanza. In realtà, l’oggetto su cui il medico basa il proprio operare è la conoscenza della malattia, cioè delle sue cause, meccanismi, suscettibilità, sintomi e segni, evoluzione, anche in relazione ai trattamenti terapeutici. Conoscere la malattia significa però conoscerne (appunto) anche il contesto economico, sociale e politico. Un esempio. I primi segnali della diffusione dell’influenza suina sono emersi in un piccolo centro messicano situato presso un allevamento di suini con circa un milione di capi con grossi problemi ambientali connessi con il trattamento dei liquami. Anche se il caso indice è stato individuato nel mese di aprile, già a febbraio la popolazione aveva manifestato un’epidemia di una sindrome respiratoria attribuita alla presenza di quell’allevamento (le autorità locali dissero che si trattava di una coda della precedente epidemia influenzale). In conseguenza dell’allarme che ne è seguito, il mercato dei vaccini e dei farmaci antivirali ha registrato un incremento dei tassi di crescita del 15% con la previsione di un incremento dei ricavi nei prossimi tre anni di 20 miliardi di euro. Lo scorso anno, una commissione promossa dal Pew Research Center affermava che la continua circolazione di virus instabili è favorita dalle condizioni di allevamento, dal sovraffollamento, dal frequente riutilizzo di acque provenienti dai liquami, dall’afflusso di uccelli selvatici nelle distese di liquami in cui vengono scaricati virus influenzali aviari. A ciò si aggiunga che l’uso sregolato di antibiotici negli allevamenti suini ha indebolito il sistema immunitario degli animali. Infine, segnalava che l’uso di vaccini antinfluenzali negli allevamenti non porterebbe all’eliminazione dei virus. Di fronte a questo quadro significativo del contesto socioeconomico, politico e ambientale in cui si colloca un fenomeno naturale come la diffusione di una malattia, credo che l’unica soluzione, come peraltro evocato da Ponz, sia evitare di rimandare ad altri il giudizio, ma anche (per quanto possibile) le decisioni. Occorre cioè che i tecnici e i medici, oltre a elevare il proprio livello di sensibilità su questi temi, si organizzino per sostenere iniziative (almeno nel campo di loro competenza, come la conoscenza) a favore della salute in modo equo nel tempo (tra le generazioni) e nello spazio (tra le nazioni povere e quelle più ricche). Devono cioè assumersi le proprie responsabilità.

«Credo che l’unica soluzione, come peraltro evocato da Ponz, sia che tecnici e medici evitino di rimandare ad altri il giudizio, ma anche (per quanto possibile) le decisioni».

Ammetto che si tratta di una posizione affatto nuova. Ritengo però che anche il suo opposto, e cioè chiudersi gli occhi, attribuire sempre e solo alla politica l’onore e l’onere di giudicare e decidere, non si è certo rivelata una scelta saggia. Occorre partire dagli errori commessi in passato e cercare le soluzioni, anche organizzative, più efficaci per la promozione della conoscenza (in termini di scienza e trasparenza) al fine di un’azione più consapevole e giustificata eticamente. E su questo Epidemiologia & Prevenzione potrebbe avere un ruolo cruciale.

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