Attualità
22/06/2011

L’Associazione italiana di epidemiologia si interroga sulla VIS

Gli epidemiologi devono incominciare ad occuparsi di valutazione di impatto sanitario? Lo sviluppo delle economie e delle società evolute è sempre più condizionato da problemi non congiunturali di sostenibilità che rendono difficile il mantenimento dei livelli di tutela del benessere finora garantiti dallo stato e dalle risorse delle comunità.

A queste difficoltà si può far fronte in due modi:

  • aumentando la produttività di chi fa tutela,
  • razionando il contenuto e le dosi della tutela offerta per renderle più sostenibili.

In questo secondo caso occorrono criteri robusti e validi per scegliere quali livelli di tutela siano essenziali e a quali si possa rinunciare; il più importante dei criteri di selezione è l’impatto atteso dovuto all’attività di tutela.

Le politiche e la politica sono abbastanza impreparate a questo compito, dato che la valutazione di impatto delle politiche e degli interventi è stata finora assai poco sostenuta, praticata e valorizzata, se non con timidi esempi in campo ambientale.

Questa povertà di esperienze non ha messo in moto un adeguato sviluppo di competenze scientifiche e tecniche, dunque di ricerca, informazione e formazione, utili per questo scopo, né nell’accademia, né nelle maglie delle istituzioni pubbliche e sociali.

Le organizzazioni internazionali e le istituzioni europee sempre più spesso richiamano le responsabilità nazionali sulla necessità di introdurre cultura, clausole, metodi e strumenti di valutazione di impatto, ex ante ed ex post, all’interno dei processi decisionali più rilevanti.

Le istituzioni nazionali, regionali e locali che provano a prendere sul serio queste raccomandazioni per orientare le proprie scelte sulla base dell’impatto che esse hanno sul benessere, quindi sulla salute, non trovano adeguata sponda nella ricerca scientifica e nelle competenze disponibili.

I principali ostacoli a soddisfare questo bisogno sono:

  • la separazione disciplinare tra i saperi che concorrono a questa conoscenza: le scienze economico-sociali, quelle tecniche, quelle igienistiche, quelle sanitarie e mediche partono da linguaggi, metodi, meccanismi di arruolamento delle competenze,  fonti di finanziamento della ricerca, percorsi di formazione professionale che spesso non comunicano, non interagiscono, non sanno realizzare economie;
  • la povertà e la difficoltà di accesso dell’infrastruttura informativa necessaria per fare ricerca e monitoraggio: l’integrazione tra le fonti informative su base amministrativa o statistica già disponibile e lo sviluppo di nuovi sistemi di indagine spesso richiede investimenti finanziari e legittimazione  istituzionale che non sono alla portata dei singoli ricercatori  delle singole discipline;
  • la frammentarietà e il frazionamento disciplinare dell’offerta formativa disponibile sia per il livello decisionale più alto (quello dell’assistenza alla formulazione delle politiche, si pensi agli uffici di staff e di agenzia delle istituzioni pubbliche e sociali), sia per il livello più operativo (quello dei tecnici sul campo che hanno facoltà di innescare processi virtuosi di revisione degli interventi, si pensi ai tecnici  che accompagnano scelte locali di pianificazione ambientale, urbanistica, sociale sanitaria);
  • l’episodicità della comunicazione e della formazione verso i decisori e le comunità, là dove si creano le motivazioni e il mandato in direzione della valutazione di impatto.

L’Associazione italiana di epidemiologia s’interroga su come colmare queste lacune e sollecita commenti ed interventi in proposito.

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