Riassunto

La ricerca epidemiologica partecipata che a 40 anni dallo scoppio dell’impianto petrolchimico dell’ENI ha coinvolto la popolazione di Manfredonia è stata ampiamente illustrata sulle pagine di questa rivista (tutti i materiali sono scaricabili dal sito di E&P). Molte delle novità che hanno caratterizzato la ricerca sono quindi note ai nostri lettori, ma c’è ancora molto da condividere.
In questo numero di EpiChange si sottolinea la multidisciplinarietà del nuovo approccio, che ha consentito una innovativa collaborazione tra epidemiologia e scienze umane: come si può constatare leggendo il volume di Giulia Malavasi, storica, la Prefazione di Bruna De Marchi, sociologa, e la Postfazione di Annibale Biggeri, medico epidemiologo e statistico. Testi che mettono fortemente in discussione il ruolo tradizionale dell’epidemiologo e che, grazie alla gentile concessione dell’Editoriale Jaca Book, abbiamo il piacere di pubblicare in anteprima su Epidemiologia&Prevenzione.

A Manfredonia c’era un petrolchimico, uno dei tanti miraggi del miracolo economico italiano: lavoro e benessere in una terra d’emigrazione, una catastrofe continuata per la salute e l’ambiente. La storia di Manfredonia non è conosciuta, eppure è presente sottotraccia nella storia ambientale italiana, e riserva alcune sorprese: il terribile incidente dell’arsenico del 1976 che, insieme a quello di Seveso, ha portato alle leggi sui rischi di incidenti nell’industria chimica; la lotta dei cittadini contro la nave dei veleni e l’esperienza dell’università in piazza; il ruolo decisivo delle donne vincitrici di un ricorso alla Corte di giustizia europea, agli albori dell’odierna legislazione sul diritto all’informazione; il ruolo di un operaio, Nicola Lovecchio, che ha portato l’Enichem a processo.

 


 

Manfredonia. storia di una catastrofe continuata prefazione

Bruna De Marchi
SVT, Università di Bergen, Norvegia

La storia dell’industria chimica è disseminata di incidenti che continuano ad accadere nonostante l’applicazione, in alcune parti del mondo, di più avanzate tecnologie, più strette regolamentazioni e più rigide norme di sicurezza.
Le cause tecniche sono largamente esplorate e le numerose banche dati esistenti, fra cui quella della Commissione europea1 raccolgono densi rapporti su malfunzionamento e guasti degli impianti, falle nelle procedure di produzione, trasporto e stoccaggio, errori gestionali e operativi, eventi climatici, fenomeni geologici, attacchi terroristici, ecc. Il più delle volte le cause sono molteplici o meglio complesse, ossia derivanti da fattori e circostanze che si combinano in maniera inattesa e imprevista, anche se non necessariamente imprevedibile.
Nelle banche dati si trovano anche quantificazioni dei danni alle persone, ai beni materiali, all’ambiente, alle attività economiche e produttive. Si tratta di quantificazioni approssimative, parziali, temporalmente limitate e formulate in freddi termini numerici: morti, feriti, patologie acute nell’immediato post-incidente, stime monetarie di perdite materiali e impatti ambientali; il tutto riferito all’immediato post-incidente, alle sue conseguenze a breve termine.
Ciò che non appare, se non talvolta come generica menzione, sono i danni non materiali che le persone e le comunità esposte subiscono e scontano in termini di stravolgimento di abitudini, stili di vita e relazioni sociali, sofferenze fisiche, morali e mentali, paura, angoscia, incertezza sul futuro e, non ultime, frustrazione e rabbia per una “giustizia negata”. Troppo spesso, infatti, studi e indagini scientifiche, investigazioni, inchieste e azioni legali si prolungano per anni e decenni senza produrre risultati conclusivi ed evidenze sufficienti per il riconoscimento di danni e torti subiti e per l’attribuzione di responsabilità e colpe, che spesso rimangono non accertate o impunite. Le conseguenze a medio e lungo termine sono infatti assai difficili da accertare e quantificare e danno adito a infiniti confronti e scontri fra parti in causa, normalmente sostenute da opposte fazioni di esperti.
In questo volume, Giulia Malavasi ricostruisce con grande competenza, accuratezza ed empatia la storia di Manfredonia legata al petrolchimico dell’ENI, collocato a ridosso della città nell’ambito di una strategia di sviluppo del Mezzogiorno delineata già negli anni del secondo dopoguerra. Nell’arco di attività dello stabilimento – dal 1971 al 1994 – gli incidenti venuti alla luce sono stati numerosi; alcuni gravissimi e con irreparabili effetti negativi sul territorio, la salute e la sicurezza dei suoi abitanti. E conseguenze negative tuttora non sanate sono derivate non solo dagli incidenti, ma anche dalle “normali” operazioni produttive, con emissioni e scarichi nocivi e inquinanti, in alcuni casi addirittura effettuati con autorizzazioni ministeriali. Da qui la “catastrofe continuata” del sottotitolo, catastrofe che si è protratta anche dopo la chiusura dell’impianto, con le scelte irresponsabili e fallimentari della cosiddetta seconda industrializzazione.
Giulia Malavasi si avvale di una documentazione molto vasta e diversificata, proveniente da molteplici fonti esistenti e reperita con un attento lavoro di ricerca e raccolta. A questo si aggiungono le interviste a una serie di persone che, con diversi ruoli e in diversi momenti, hanno vissuto in prima persona le vicende narrate nel libro. Attraverso le loro voci, ci arrivano resoconti di lotte condivise e di conflitti profondi, di vittorie e sconfitte personali e collettive, punteggiate da promesse, illusioni, speranze, delusioni, fra volontà di ricordare e bisogno di rimuovere.
Ne emerge il quadro di una comunità segnata da profonde ferite e divisioni, ma al tempo stesso “resistente” e, nonostante tutto, ancora disposta ad aprire un credito di fiducia a quanti si propongono di ricostruire le vicende degli ultimi quarant’anni senza presunzione o irrealistiche pretese, ossia riconoscendo apertamente gli inevitabili limiti del lavoro di ricerca e indagine che, pur se condotto con criteri rigorosi, difficilmente è in grado di fornire risultati assolutamente certi e definitivi.
E un’apertura di credito è stata di fatto concessa a un’équipe scientifica multidisciplinare di cui Giulia Malavasi ha fatto parte. Questo volume nasce infatti dal lavoro da lei svolto nell’ambito di una “ricerca partecipata” condotta nel 2015-2016, a quasi quarant’anni dal gravissimo incidente accaduto il 26 settembre del 1976, con la fuoriuscita di alcune tonnellate di composti contenenti arsenico a seguito dello scoppio della colonna di lavaggio dell’ammoniaca dello stabilimento. L’arsenico è da tempo un noto cancerogeno, e le patologie oncologiche che esso provoca, in particolare il tumore al polmone, hanno una latenza di 30-40 anni.
Alla richiesta originaria del sindaco di Manfredonia di disegnare uno studio per valutare il profilo di salute complessivo della popolazione, con particolare attenzione alle patologie legate all’esposizione all’arsenico, l’epidemiologa contattata rispose con la proposta di costruire un gruppo di ricerca multidisciplinare al fine di raccogliere dati ed informazioni non esclusivamente di tipo sanitario, ma anche ambientale, storico e sociologico, e inoltre di coinvolgere i cittadini nella ricostruzione degli eventi passati, nella definizione dei quesiti di ricerca e nell’elaborazione di proposte concrete per la salvaguardia della salute e dell’ambiente.2 Ciò nella convinzione, esplicitamente dichiarata, che il coinvolgimento dei cittadini vada sollecitato e accolto per motivi non solamente etici, ma anche per il contributo che essi sono in grado di apportare ad una più scrupolosa costruzione e conduzione del lavoro di ricerca e alla formulazione di strategie di riqua­lificazione e prevenzione.
Il resoconto della ricerca partecipata si può leggere altrove,3 mentre questo libro documenta le profonde trasformazioni che la «città di terra e di mare, fondata da re Manfredi» ha subito e che hanno prodotto ferite e lacerazioni durature nel suo territorio, così come nell’animo dei suoi abitanti.
I cittadini di Manfredonia, come quelli di tantissime altre località in cui si sono insediate delle installazioni potenzialmente pericolose, sono stati esposti a dei rischi senza possibilità di scelta e senza neppu­re essere adeguatamente informati. Prima, e spesso anche dopo gli incidenti, il pericolo è stato negato, sottovalutato, occultato. I “risarcimenti” sono stati spesso assenti o tardivi, perfino nella riduttiva forma di compensazioni monetarie che, se permettono di ricomprare parte di ciò che ha un prezzo, mai possono restituire ciò che ha un valore non monetizzabile.
Oltre a danni e sofferenze, tutto ciò ha generato una profonda sfiducia nelle istituzioni preposte alla salvaguardia della salute e della sicurezza dei cittadini, sfiducia che ha travalicato i confini delle comu­nità colpite. La “economia delle promesse”, con le sue illusioni di prosperità e benessere dapprima generate e successivamente tradite, ha minato le convinzioni e le garanzie che stanno alla base della convivenza civile, ossia che legittimi interessi e inalienabili diritti possano essere riconosciuti ed efficacemente tutelati con il ricorso agli strumenti della democrazia.

Milano, agosto 2018
copyright: © 2018
Editoriale Jaca Book Srl, Milano.
Tutti i diritti riservati.

Bibliografia

  1. European Commission. eMARS. Disponibile all’indirizzo: https://emars.jrc.ec.europa.eu/en/emars/content (consultato l’8 agosto 2018).
  2. EpiChange. Manfredonia. Salute, ambiente, partecipazione. Disponibile all’indirizzo: www.epiprev.it/materiali/Epichange-Manfredonia.pdf
  3. De Marchi B. Manfredonia: cronaca di una ricerca partecipata. In: L’Astorina A, Di Fiore M. Scienziati in affanno? Ricerca e Innovazione Responsabili (rri) in teoria e nelle pratiche. Roma, CNR, 2018; pp. 129-36.

 


Manfredonia. storia di una catastrofe continuata postfazione

Annibale Biggeri
Dipartimento di Statistica, Informatica, Applicazioni “Giuseppe Parenti”, Università di Firenze

Nel dibattito pubblico, al di fuori degli ambiti specialistici, l’impatto degli incidenti industriali, o più in generale della presenza di poli industriali altamente inquinanti, è spesso dominato da considerazioni epidemiologiche: il bilancio dei morti e dei feriti. Il dibattito pubblico ruota infatti intorno al binomio lavoro-salute e quello che viene richiesto è la quantificazione del carico di malattia e morte.
Fino al recente passato, sia in ambito tecnico sia non specialistico, la quantificazione del danno sanitario si è limitata alle conseguenze dirette dell’esposizione a specifiche sostanze inquinanti o cause fisiche come esplosioni o incendi legati ai singoli incidenti considerati. Ancora oggi la limitatezza di questa impostazione non è stata del tutto recepita.
Il problema era facilmente risolvibile nel frame epidemiologico. Abbiamo una ben definita popolazione esposta, abbiamo una buona caratterizzazione dell’esposizione e lo studio epidemiologico di coorte1 rappresenta la soluzione tecnica ideale per quantificarne il profilo di salute o mortalità.
Una strategia di grande successo che ha visto nell’epidemiologia moderna lo strumento più importante per l’identificazione dei fattori di rischio delle malattie cronico-degenerative. E i rischi occupazionali e/o ambientali in primis.2
Per il sito di interesse nazionale di Manfredonia3 la letteratura epidemiologica è povera di studi e di risultati. I grandi progetti di monitoraggio e sorveglianza epidemiologica, come lo studio SENTIERI4 co­ordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, ci descrivono il quadro attuale delle popolazioni residenti nelle cosiddette aree a rischio, un quadro direi desolante, come opportunamente riportato dalla stampa nazionale all’indomani dell’ultimo aggiornamento dello studio del giugno 2018.5 Desolante per il numero di italiani che vivono in aree ambientali compromesse, per gli eccessi di patologie croniche come i tumori maligni, per le persistenti fratture che ripropongono uno svantaggio selettivo per il Sud Italia. Queste sono considerazioni generali che servono per pianificare investimenti macroeconomici come quelli necessari per dar corso alle bonifiche ambientali, ma non possono incidere nello specifico delle singole situazioni. Fare graduatorie su queste basi informative è iniquo e inopportuno.
La povertà epidemiologica è dovuta a:

  • il numero limitato di persone coinvolte, che porta ad una limitata potenza statistica. La probabilità di evidenziare un eccesso di malattia o morte è bassa, anche nel caso in cui veramente il rischio di malattia o morte sia aumentato;
  • la impossibilità di risalire a posteriori alla coorte di persone esposte all’epoca dell’incidente. Infatti all’indomani dell’incidente non fu fatto nessuno sforzo in tal senso, contrariamente a quanto teoricamente raccomandato;
  • la presenza di effetti ritardati dell’esposizione, come nel caso dei tumori, per i quali è necessario un lungo periodo di incubazione tra l’esposizione all’agente nocivo e lo sviluppo della malattia. Gli studi eseguiti nei primi venti anni dall’incidente verosimilmente non potranno evidenziare alcun aumento di patologia tumorale;
  • la limitata conoscenza delle sostanze chimiche e fattori fisici che possono danneggiare la salute della popolazione: a Manfredonia ci si è limitati a considerare l’arsenico;
  • l’uso di statistiche correnti di mortalità, e più raramente di ricovero ospedaliero o di registrazione dei tumori, incompleta nel territorio nazionale e disponibile solo recentemente a Manfredonia, soffre della approssimativa definizione diagnostica e, cosa ancor più grave, della mancanza di dati individuali di esposizione, per cui l’associazione tra esposizione e malattie è stabilita a priori o induttivamente, ma non quantificata.

Non è una situazione limitata a Manfredonia. La stampa quotidiana riporta spesso la notizia di eccessi di casi di leucemia infantile o di altre malattie, e la percezione che se ne ha è che siano eccessi “reali”. Invece sono molto pochi i cluster di casi di malattia che hanno avuto una esauriente spiegazione epidemiologica.6 Ma se pochi esempi di eccessi di malattia hanno trovato una spiegazione, ci possiamo chiedere: quante sono le situazioni ambientali compromesse che, per le ragioni summenzionate, non sono state riconosciute dall’epidemiologia? Molte, come commenta un noto epidemiologo, Daniel Wartenberg, nel libro premio Pulitzer di Dan Fagin.7
Povertà di risultati a volte colpevolmente non dichiarata. Come definire i rapporti rassicuranti o persino le sentenze assolutorie quando i tempi di incubazione/latenza non permettono di evidenziare eccessi di malattia? Come si può interpretare la risposta negativa di un epidemiologo a cui – nell’anno 2000, dopo soli 24 anni dall’incidente del 1976 – si ponga una domanda alla quale di fatto non è possibile rispondere: «Ha osservato un eccesso di casi di tumore polmonare a Manfredonia?». Anche ammettendo la buona fede dell’Epidemiologia, è questa una situazione che si presta alle strategie giocate ad esempio nei procedimenti penali dove la vecchia formula “assenza di evidenza di rischio = evidenza di assenza di rischio” è sempre attuale.
Eppure questo inquadramento epidemiologico (specifica esposizione-specifica malattia) viene reso meno riduttivo nella attuale valutazione epidemiologica dei “disastri” oggi inquadrati sempre più come eventi complessi e non da interpretare limitatamente a una singola esposizione ad una sostanza nociva. L’epidemiologia dei disastri tiene conto di fattori psicosociali e documenta effetti sulla salute cardiovascolare, ad esempio, che in passato non erano mai stati presi in considerazione.8 Lo sguardo dall’esterno dell’epidemiologo però finisce per replicare l’atteggiamento riduzionista rilevato in precedenza anche nel caso del disastro tout court. L’incidente è l’esposizione, a cui si applicano le nozioni sulla storia naturale della malattia oggetto di interesse. Ma sono processi dinamici e non puntuali, difficilmente in­quadrabili temporalmente, quelli che Bruna De Marchi definisce nella prefazione: «i danni non materiali che le persone e le comunità esposte subiscono e scontano in termini di stravolgimento di abitudini, stili di vita e relazioni sociali, sofferenze fisiche, morali e mentali, paura, angoscia, incertezza sul futuro e, non ultime, frustrazione e rabbia per una “giustizia negata”».
Il volume di Giulia Malavasi fa parte di un’indagine epidemiologica condotta nell’area a rischio di Manfredonia e contribuisce al processo di reframing dell’Epidemiologia nel campo dei disastri e degli inci­denti ambientali in senso lato. Il compito dinanzi a cui ci troviamo come epidemiologi nell’affrontare le conseguenze di un disastro ambientale è di evitare la facile scorciatoia tecnica e riduzionistica dell’indagine volta ad asseverare il nesso di causalità tra una singola esposizione e una specifica malattia. È un compito che richiede la presenza di molteplici professionalità e punti di vista e nel quale l’epidemiologia non necessariamente la fa da padrone. Un compito anche scomodo, perché richiede la partecipazione della popolazione all’indagine, dà parola laddove il riduzionismo tecnico la toglieva. Restituisce complessità e non fornisce banali risposte dicotomiche (sì/no) sulle quali si giocano forzature allarmistiche o strategie negazioniste.
L’invito quindi è di farsi tentare dalla curiosità e contestualizzare il lavoro di Giulia Malavasi anche nel quadro della ricerca epidemiologica.

Milano, agosto 2018
copyright: © 2018
Editoriale Jaca Book Srl, Milano.
Tutti i diritti riservati.

Bibliografia

  1. Lo studio di coorte è uno studio su base individuale che prevede di seguire nel tempo la storia di vita dei soggetti arruolati e di confrontarla con la storia di vita di soggetti comparabili ma non esposti all’agente in studio. È lo studio con il più alto valore di prova nel caso di esposizioni a sostanze nocive per le quali ragioni etiche impediscono di utilizzare il disegno con randomizzazione usato per gli studi clinici.
  2. R. Saracci, C.P. Wild, International Agency for Research on Cancer: The first 50 years, 1965-2015, International Agency for Research on Cancer, Lyon 2015.
  3. Capitolo «Una catastrofe irrisolta. Manfredonia dimenticata». In: Malavasi G. Manfredonia. Una catastrofe continuata. Jaca Book, Milano, 2018.
  4. Lo studio è consultabile sul sito ministeriale: http://www.salute.gov.it/portale/home.html  (consultato il 28 agosto 2018).
  5. Cfr. http://www.cittadinireattivi.it/2018/06/23/siti-inquinati-e-cittadini-la-sintesi-del-v-rapporto-sentieri-sullo-stato-di-salute-delle-popolazioni-che-vivono-nei-sine-sira-cura-di-iss-e-ministero-della-salute/ (consultato il 28 agosto 2018).
  6. Si veda la lista esigua e chiaramente insoddisfacente in https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_cancer_clusters (consultato il 28 agosto 2018).
  7. D. Fagin, Toms River: A Story of Science and Salvation, Bantam Books, New York, 2013, p. 454.
  8. Si veda ad esempio per il caso Seveso: D. Consonni, A.C. Pesatori, C. Zocchetti, R. Sindaco, L.C. D’Oro, M. Rubagotti, P.A. Bertazzi, Mortality in a population exposed to dioxin after the Seveso, Italy, accident in 1976: 25 years of follow-up. Am J Epidemiol 2008;167(7):847-58.
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