Rubriche
23/07/2012

Topini gialli e macachi dominanti

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Quando nel 2003 Amartya Sen pubblicò il suo articolo «The hidden penalties of gender inequality: fetal origins of ill-health»1 su Economics and Human Biology, il dibattito suscitato dalle teorie di Barker sulle conseguenze della nutrizionematerna in gravidanza per la salute del nascituro, e per la sua salute durante la vita adulta, era ampiamente in corso. Chissà se però il premio Nobel per l’economia avrà continuato a seguire gli aspetti più strettamente biosperimentali della discussione scientifica sull’origine fetale della salute e della malattia e se avrà mai sentito parlare dei topini gialli agouti (http://www.pbs.org/wgbh/nova/body/epigenetic-mice.html), citatissima prova del nove degli effetti della vita intrauterina (e dei meccanismi epigenetici connessi) nello sviluppo di tratti della vita adulta. Dato l’argomento trattato in questa rubrica, è quasi d’obbligo menzionare e descrivere il caso dei topini gialli diventato ormai un classico dell’epigenetica.

Questi piccoli roditori hanno una mutazione (Avy, Agouti viable yellow) a carico del gene agouti che controlla la colorazione del pelo e nascono gialli invece che del classico colore scuro. Oltre a modificare la colorazione del pelo, la proteina espressa dal gene agouti mutato (ASP, Agouti signalling protein) compete con il ligando normale per il recettore della melanocortina-4 (MC4R), ormone in grado di regolare l’appetito. Questa competizione annulla il sistema che normalmente inibisce il desiderio di mangiare e i topi risutano iperfagici, di conseguenza obesi e diabetici.

Che cosa c’entra tutto ciò con l’epigenetica e la vita intrauterina? Si è visto che nelle nidiate di topi con la stessa mutazione non necessariamente tutti hanno il pelo giallo e sono obesi; alcuni topini possono essere un po’ più scuri e snelli. Bene, la variazione del colore del topo agouti è dovuta a un meccanismo epigenetico, nello specifico al diverso grado di metilazione del DNA del promotore a monte del gene agouti. Se il promotore è demetilato, il gene agouti “si esprime” con conseguente abbondanza del suo prodotto genico, la proteina ASP, e il risultato nei topi è la presenza di pelo giallo e la tendenza all’obesità. Se il promotore è fortemente metilato, il gene agouti mutato è bloccato, la proteina ASP non viene prodotta, il pelo è del normale colore scuro, MC4R è normalmente attivato e sopprime la sensazione di fame (per inciso, il deficit del recettore della MC4R è la forma più comune di obesità mendeliana nell’uomo). Abbiamo già visto come il processo di metilazione del DNA dipenda dalla disponibilità di gruppi metili “in circolo”. Ebbene, l’introduzione di supplementi ricchi di gruppi metili, come acido folico e vitamina B12, nella dieta in gravidanza di topine gialle agouti (gene mutato quindi) influenza il colore del pelo della nidiata a seconda di come il loro gene agouti viene metilato durante la crescita embrionale. Tra i topini della nidiata completamente gialli e obesi e quelli scuri e snelli esiste una gamma di variazioni di colore del manto e della massa corporea assolutamente associata alla quantità di acido folico fornito e, di conseguenza, al livello di metilazione del promotore del gene: ottimo esempio di come la variabilità epigenetica induca una variazione del fenotipo!

Ma non è finita qui. I topini agouti forniscono anche una prova (una delle poche) di come la variabilità fenotipica indotta dalla variabilità epigenetica si possa manifestare in generazioni successive. Le topine agouti con la mutazione ma con il promotore altamente metilato sono scure e snelle. La loro prole, anche in assenza di supplementi di acido folico e vitamina B12 in gravi danza, è in parte scura e snella (il promotore continua a essere disattivato). La proporzione nella prole di topini con il fenotipo “normale” aumenta se sia la mamma sia la nonna con gene mutato sono nate da gravidanze supplementate; si crea quindi una specie di effetto accumulo. Sempre grazie ai topini, non solo quelli gialli questa volta, abbiamo potuto capire la sequenza dei processi programmati di modificazione dell’epigenoma: dalle cellule germinali maschili e femminili all’ovulo fecondato, alla blastocisti una volta impiantata nell’utero, fino alla differenziazione cellulare in organi e tessuti, e ancora alla formazione delle nuove cellule germinali. Essenzialmente si alternano varie fasi di demetilazione e metilazione (tranne per gli imprinted genes, che conservano memoria della metilazione parenterale di origine) in cui c’è di fatto una cancellazione dell’epigenoma parentale e una riprogrammazione cruciale per l’embriogenesi. Tutte queste fasi coincidono con periodi critici, “finestre” di suscettibilità, in cui l’intervento “ambientale esterno” (per esempio la disponibilità o la penuria di gruppi metilici) può influenzare enormemente la riprogrammazione dell’epigenoma.

Passando dai topini agli umani, tra gli oramai tanti articoli che indagano le esposizioni in gravidanza e le modificazioni epigenetiche correlate vale proprio la pena leggere la bella review di Perera e Herbstman2 pubblicata in Reproductive Toxicology, nella quale, partendo proprio dalle teorie di Barker, vengono ricomposti i pezzi del puzzle di questa storia. Si fornisce una descrizione dettagliata del processo di riprogrammazione dell’epigenoma durante lo sviluppo fetale (vedi on line la figura 1 http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3171169/figure/F1/) e si analizza il ruolo di diversi inquinanti e stressor ambientali, specialmente gli interferenti endocrini, nell’indurre modificazioni epigenetiche che danno luogo a eventi avversi in particolare nello sviluppo neurologico, discutendo anche la potenziale funzione esacerbante di fattori sociali e l’effetto transgenerazionale. La riflessione finale delle autrici è che l’incoraggiamento di politiche che riducano le esposizioni ad agenti tossici nelle primissime fasi dello sviluppo («e promuovano il benessere delle future madri», direbbe Amartya Sen) è una priorità assoluta in sanità pubblica, con effetti immediati sulla salute dei nascituri, degli adulti che saranno e forse anche delle generazioni successive.

Uno stress “benefico” sull’assetto dell’epigenoma sembra invece quello legato all’avere una posizione dominante nella scala sociale: questa volta ci illuminano le femmine di Macacus rhesus, primati caratterizzati da una forte gerarchia sociale perpetuata per linea materna. È stato osservato che le scimmie con un basso livello sociale mostrano alti livelli di attività di geni associati alla risposta immunitaria e all’infiammazione in generale.3 Il pattern di metilazione di questi geni è differente tra i gruppi di scimmie con diverso rango sociale. Se sperimentalmente le scimmie vengono spostate di rango sociale, si osserva un cambiamento dell’assetto immunobiologico (e del relativo profilo epigenetico).

Come dire, «il potere logora chi non ce l’ha». Niente di nuovo per la verità: già gli studiWithehall sui dipendenti statali inglesi iniziati negli anni Sessanta ci avevano detto che chi aveva maggior potere decisionale aveva anche uno stato di salute migliore. Certo c’è da lavorare un po’ sui fattori confondenti, ma non sarebbe male se una maggiore capacità decisionale nella propria vita, anche lavorativa, potesse realmente avere dei benefici sullo stato di salute complessivo. Ministri Fornero e Balduzzi, parlatevi!

Bibliografia

  1. Osmania S, Sen A. The hidden penalties of gender inequality: fetal origins of ill-health. Econ Hum Biol 2003; 1(1):105-21.
  2. Perera F, Herbstman J. Prenatal environmental exposures, epigenetics, and disease. Reprod Toxicol 2011;31(3):363-73.
  3. Tung J, Barreiro LB, Johnson ZP et al. Social environment is associated with gene regulatory variation in the rhesus macaque immune system. Proc Natl Acad Sci USA 2012;109(17): 6490-5.
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