Rubriche
11/12/2012

Sul conflitto di interessi

Una prevenzione efficace del cambiamento climatico e dei suoi effetti comporta necessariamente una lotta ai conflitti di interesse (CdI), visto che i negazionisti militano pressoché tutti nel campo dell’industria, in particolare di quella petrolifera. È importante tuttavia chiarire che cosa si intende per conflitto di interesse, dal momento che esiste un’ampia gamma di definizioni.

Quando c’è conflitto di interesse?

Secondo le definizioni più restrittive, per esempio, il conflitto di interesse sussiste solamente quando si è pagati dall’industria petrolifera per studiare il cambiamento climatico, mentre secondo quelle più estensive basterebbe possedere azioni bancarie − magari senza saperlo − di un’industria che contribuisce all’aumento della CO2).

Inoltre vi sono ampie differenze culturali tra nazioni: negli Stati Uniti è comune l’attività di lobbying e perfino il fenomeno della revolving door, cioè di uomini d’affari che entrano in politica e poi tornano all’impresa. In Europa alcuni sostengono che il fatto che l’Agenzia internazionale per le ricerche sul cancro (IARC) ammetta osservatori dell’industria (senza diritto di voto) per valutare le sue monografie già di per sé inficia il processo valutativo e costituisce un conflitto di interessi.

Ma anche entro l’Europa vi sono grandi differenze. La mia esperienza personale in due organismi governativi, uno italiano e uno inglese, è stata istruttiva. In Italia il Consiglio superiore di sanità, come molte istituzioni del nostro Paese, non ha richiesto a nessuno (almeno finché ne ho fatto parte) di dichiarare CdI, anche se gran parte delle deliberazioni erano frutto di negoziazioni tra corporazioni (gli infermieri, gli ortopedici, i chirurghi plastici eccetera), per esempio nell’approvazione di nuove scuole di specializzazione. In altre parole, in Italia la negoziazione è la norma, le procedure sono blande e l’esito è fondamentalmente condizionato da come ciascun attore percepisce la posizione che occuperà al termine del processo. In Inghilterra, nel Committee on the Carcinogenicity of Chemicals del Ministero della salute (altra esperienza personale) il conflitto di interessi è apparentemente più presente, perché all’industria è concesso farne parte. Tutti devono dichiarare il conflitto caso per caso, a seconda delle sostanze di cui si valuta la cancerogenicità. Di fatto, però, il processo è guidato da procedure scientifiche, e il posizionamento di ciascuno rispetto agli esiti è secondario rispetto a una valutazione equilibrata delle prove. Detto in breve, in Inghilterra le prove prendono il sopravvento sugli interessi, in Italia gli interessi sulle prove (usando il termine «interessi» in senso molto lato, non solo quelli economici).

Il modello IARC

A mio avviso nessuno dei due modelli è ideale; certamente non quello italiano per il ruolo secondario della prova, ma neanche quello inglese ove l’industria viene a trovarsi in un ruolo quasi paritario. Rispetto a entrambi è certamente preferibile il modello IARC: procedure rigorose, basate sull’evidenza, trasparenza nei CdI e mero ruolo di osservatori per i rappresentanti dell’industria. Questo modello rispecchia quello che a mio avviso è il principio più alto stabilito per garantire il funzionamento di una democrazia, quello di John Rawls, detto «del velo di ignoranza»: chi è chiamato a decidere su una questione pubblica non deve essere influenzato dalla posizione che occuperà come conseguenza della decisione, cioè deve decidere «dietro il velo di ignoranza». Questi temi sono stati largamente ripresi, con significative differenze, dal maggiore rappresentante dell’etica pubblica di oggi, Michael Sandel.

Non solo regolamenti

Il CdI è molto più diffuso di quanto crediamo ed è spesso sfumato, la sua regolamentazione dovrebbe essere affidata alle consuetudini e non solo ai regolamenti. Il CdI non è esclusivamente un portato della corruzione (ove l’Italia è un caso estremo). Per esempio, costituisce un CdI entro una struttura di ricerca il fatto che un direttore di Dipartimento utilizzi le risorse materiali e umane principalmente per gli scopi del proprio laboratorio, anziché essere super partes (in effetti trovare persone limpidamente super partes non è comunissimo). Ma esistono elementi di CdI, all’estremo opposto, quasi istituzionalizzati o promossi a livello societario. Ne è un esempio l’enfasi della UE sulla commerciabilità dei prodotti della ricerca e sull’impatto comunitario inteso come impatto economico, di cui ha esperienza chi ha fatto domande di finanziamento alla Commissione. Nel caso del cambiamento climatico, è possibile, anche se non necessario, che molte delle soluzioni tecnologiche volte a mitigarlo o prevenirlo abbiano un impatto economico negativo, e non si traducano in vantaggi economici per piccole e medie imprese. Questo è un CdI nella misura in cui l’insistenza sulle ricadute economiche finisce per distorcere la scelta e il disegno di indagini, che lasciate alla sola razionalità della ricerca andrebbero in una direzione diversa. Vengono alla mente altri esempi: spin-off di Università, creati per commercializzare i prodotti della ricerca dell’Università stessa, vengono promossi dalle istituzioni finanziatrici, ma talvolta ciò che è stato scoperto non ha le virtù che vengono pubblicizzate al momento della commercializzazione. Un esempio è il kit per identificare le persone che hanno maggiore difficoltà a smettere di fumare, basato sul gene DRD2, con valutazioni contrastanti tra gli articoli scientifici e le promesse commerciali.1 O ancora: ricercatori che hanno lavorato per anni per un’Agenzia pubblica internazionale costituiscono poi con finanziamenti privati un’istituzione che sconfessa le attività di quella stessa Agenzia – mi riferisco all’International Prevention Research Institute (iPRI) vs. IARC.

Lo stesso mondo della comunicazione è affetto da CdI. L’obbrobrio costituito dalla par condicio ne è un esempio. Non c’è nessun motivo per cui chi sostiene che i campi di concentramento non sono esistiti debba avere lo stesso spazio di chi sostiene il contrario, semplicemente perché la prima posizione è falsa. La par condicio è nata in una condizione di grande litigiosità politica e mediatica ed è spesso servita a dare dignità a posizioni che meriterebbero molta meno pubblicità, come il negazionismo climatico. La par condicio serve a creare cortine fumogene, attività in cui si sono letteralmente specializzati istituti creati dall’industria come il Cato Institute. Dall’altro serve agli scopi spettacolaristici dei mezzi d’informazione.

Una questione di etica pubblica

Fino a che questi problemi non vengono chiariti a livello societario è difficile riuscire a trovare risposte convincenti alle grandi sfide come il cambiamento climatico. Dicevo prima che la soluzione non è soltanto la regolamentazione con norme dettagliate: sappiamo che in Italia troppe regole possono essere controproducenti. Trovo molto efficace l’approccio di Sandel basato sul concetto di etica pubblica. Il problema è che le sedi per esercitare l’etica pubblica e discuterne i presupposti e le applicazioni sono ben poche. Il dramma largamente discusso da Zygmunt Bauman nei suoi libri è la perdita della strutturazione della società (in quelle che lui chiama società liquide) nei tre livelli della microstruttura (la famiglia), la mesostruttura (i partiti, il sindacato, i movimenti) e la macrostruttura (la società nel suo insieme e l’economia). Il cambiamento climatico si sta realizzando congiuntamente a una sostanziale scomparsa delle mesostrutture, sostituite da un rapporto diretto tra individui attraverso la rete telematica, e un’ipertrofia delle «megastrutture» (l’assoluto predominio dell’economia e della finanza). Le conseguenze di questa trasformazione sono tutte da identificare, ma segnano chiaramente la fine del Novecento, quell’era in cui l’etica pubblica veniva discussa nella mesostruttura, come i parititi o le Chiese, e si riverberava sulla microstruttura (le famiglie). Pertanto, la più grande crisi ecologica dell’umanità si svolge congiuntamente al più grande mutamento comunicativo e decisionale. Come si modellano i CdI attraverso le reti telematiche nessuno lo sa, anche se non è difficile intuirlo.

Bibliografia

  1. Munafò MR, Johnstone EC,MurphyMF, Aveyard P. Lack of association of DRD2 rs1800497 (Taq1A) polymorphism with smoking cessation in a nicotine replacement therapy randomized trial. Nicotine Tob Res 2009;11(4):404-7.
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