Se le strade cambiassero di nome: storie di italiane al lavoro in America
Ester Rizzo |
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Leon Stein |
Camminare per le strade potrebbe essere l’occasione di incontri straordinari e sconvolgenti. Potremmo trovare via Caterina, Lucia e Rosaria Maltese a Marsala in Sicilia, per esempio. Strana l’intitolazione a tre donne. Sono così poche le vie dedicate a figure femminili che tre nomi femminili evocano strane imprese. “Strana” l’impresa di quei due emigrati russi a New York che, volti al profitto e incuranti dei rischi, organizzano la produzione di camicette alla moda nella Manhattan degli inizi del Novecento. Lunga la giornata e la settimana di lavoro fino al pomeriggio del sabato, affollamento, porte chiuse per evitare furti, monotonia, cottimo. Lavoro poco pagato e, dunque, perfetto per le centinaia di ragazze immigrate, povere, senza istruzione, con famiglie numerose alle spalle. Cercano di che vivere in quella Manhattan di immigrazione dove tubercolosi, tracoma e altre malattie infettive dominano le piccole affollate Italie, Russie, Slavie.
È finito il lavoro, è ora di andare, ma sabato 25 marzo 1911 si sviluppa l’incendio più grave della storia newyorkese: 129 operaie muoiono, 42 le italiane quasi tutte siciliane; tra di loro, Caterina e le due figlie, Lucia e Rosaria Maltese.
Questa è solo una delle tante storie di donne raccontate da Ester Rizzo, giornalista-ricercatrice e autrice del libro Camicette bianche. Oltre l’8 marzo. Raccoglie le singole storie di emigrazione di ragazze sicule, ebree, russe, polacche, ucraine, che sono un’unica storia tristemente ripetitiva nelle modalità e nel tragico epilogo.
Dello stesso incendio parla Leon Stein in The Triangle fire, cui dobbiamo la prima documentazione e le interviste ai/alle sopravvissuti/e, che l’autore ricostruisce con non celata commozione. Ogni capitolo è preceduto dai versi di un altro Inferno, quello di Dante. Nel suo libro, Stein cita un altro grave incendio, quello di Newark (New Jersey). Solo quattro mesi prima, il 26 novembre 1910 alle nove di mattina, nella fabbrica Wolf Muslin Undergarment Company si sviluppa un incendio al quarto piano affollato di 60 operaie. Muoiono 25 donne: un’altra tragedia dell’immigrazione per l’assenza di presidi anti-incendio tra i più semplici. L’incendio di Newark è rimasto sepolto nella memoria per anni e solo grazie al giornalista Guy Sterling, reporter dello Star-Ledger, è stato possibile ricordarlo con la ricostruzione dei nomi delle operaie morte.
Amy Bernardy, italo-americana figlia del Console per gli Stati Uniti in Italia, era stata incaricata nel 1908 dalla Commissione generale sull’immigrazione del Ministero degli affari esteri di studiare le condizioni morali e materiali di donne e bambini negli Stati Uniti. La giornalista-pubblicista scrive decine di articoli soprattutto per il Corriere della sera e il Giornale d’Italia, nonché pubblica numerosi libri. Tra questi, due raccontano i suoi viaggi transoceanici nell’Est e Ovest degli Stati Uniti. In America vissuta, descrive i gravi infortuni sul lavoro cui sono sottoposti gli italiani, sottolineando il prezzo dell’immigrazione. Ma la Bernardy, come tanti altri, non cita le tragedie sopra descritte. Era, infatti, necessario considerare gli Stati Uniti come terra di successo e non di disperazione, favorire l’emigrazione per le rimesse degli emigranti in Italia.
Ricercare nomi, luoghi, condizioni e ricostruire questa memoria, anche dal punto di vista del genere femminile, diventa, dunque, un dovere al quale in molti, come abbiamo visto, possiamo concorrere se dei fatti storici non si fanno rimozioni.
«Tutti coloro che dimenticano il loro passato sono condannati a riviverlo», ricordava Primo Levi: ecco perché ancora oggi dobbiamo continuare a illuminare il passato, specie quello più buio, perché capace di parlare al presente.