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16/03/2020

Scrivere di amianto dopo 30 anni di esperienza nei Servizi di prevenzione territoriali

Sono medico del lavoro in un Servizio territoriale di prevenzione, igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro; come l’Autore del testo, sono stato talvolta nominato da   giudici o da procure della Repubblica come perito in procedimenti sia penali sia civili, in particolare in materia di amianto. Chi avrà la pazienza di leggere questa  recensione, ma soprattutto chi leggerà il volume di Barbieri, capirà facilmente il perché di questa dichiarazione in premessa, inusuale in questo contesto.

Memoria partecipata

Si fa fatica a inquadrare il libro di Pietro Gino Barbieri: testo di storia, diario di una vita di lavoro, testo scientifico divulgativo, inchiesta, probabilmente tutte queste cose insieme. Iniziando a scorrerne le pagine si viene coinvolti dal racconto e dalla intensa partecipazione dell’Autore al dramma, al dolore, alle speranze, alla rabbia  dei personaggi, prima lavoratori poi malati, e delle loro famiglie; accanto a loro, i medici e i tecnici dei servizi di prevenzione territoriale della USL, increduli di fronte al dramma che si rivela ai loro occhi e che, grazie alle loro insistenti ricerche, assume dimensioni in quegli anni ancora inimmaginabili. E poi il mondo accademico, incerto e  imbarazzato, come spesso accade quando si tratta di coniugare Scienza e Coscienza di fronte al rapporto salute/lavoro; il linguaggio scientifico sembra perdere la certezza della propria oggettività, si contraddice, diventa autoritario e, alla fine, nel dibattito divenuto giudiziario, svela interessi che con la pretesa scientifica hanno  poco a che vedere.
La chiave di lettura storica del testo è forse la più coerente, ed è proprio in questa direzione che orienta il proemio a firma di Franco Carnevale, che richiama a un  approccio rigoroso e rispettoso della memoria. Memoria attenta, documentata, ma anche partecipata, che aiuta a interpretare la complessità di un’epoca, la nostra, in  cui si è indotti a dimenticare per cancellare. Ciò che non sappiamo non è avvenuto e ci sorprenderà. La vicenda dell’amianto, della sua lunga storia da minerale prodigioso a prodotto insostituibile e, infine, a causa di morte, non è nuova e oggi appare metafora di un processo di sviluppo che ha dapprima prodotto prodigi, lavoro,  sviluppo, benessere e ha incantato il mondo, divenendo obbiettivo globale, asfaltando ogni cultura, per poi rivelarsi l’immane trappola ambientale nella quale  l’umanità intera è scivolata e sta pagando un prezzo probabilmente non sostenibile.

La storia scritta da un testimone

Il testo di Barbieri è un esempio di storia scritta dal basso, da chi è stato testimone dei fatti che narra. Non si percepisce mai distacco e i protagonisti, anche  quando appena tratteggiati, sono persone vere, non figure simboliche: dalla maestra Elena a tutti gli altri nomi fittizi e comunque reali, si muovono prima nelle  aziende poi negli ospedali, esprimono attese e speranze per una occupazione non scontata, inconsapevolezza del dramma incombente su ciò che stanno  costruendo e, infine, sofferenza, dolore e preoccupazione per le proprie famiglie fino alla inevitabile, tragica conclusione, inaccettabilmente anticipata; l’Autore narra le loro storie con intensa partecipazione, espressa fin dalla dedica: “a quanti sono morti a causa di malattieprovocate dall’amianto”. All’immensità del dramma  a da contrappunto la semplicità del lavoro che svolgevano. Non si muore in nome diideali o per perseguire un obbiettivo elevato; si muore per recuperare sacchi usati di iuta, per cernere stracci, per costruire bambole, per stirare, cucire, riparare elettrodomestici o, addirittura, giocando con la plastilina; si muore per aver  utilizzato un minerale altamente pericoloso per scopi per i quali non era indispensabile, per i quali già da molti anni non avrebbe dovuto neppure essere proposto e che avrebbe potuto essere  facilmente sostituito; si muore per garantire stabilità a profitti che sarebbero comunque rimasti stabili se invece di orientare la ricerca per dimostrare a tutti i costi  l’innocuità dell’amianto, si fosse investito sull’uso di materiali più sicuri. Si continua a morire anche quando negli ospedali, nelle università o in Confindustria, si discute delle esistenze di lavoratori ridotte a numeri, a quantità di fibre, a latenze e si mettono a confronto lavoro, profitto, occupazione, sviluppo… ma non si discute di vie  alternative rispetto a quella già tracciata.

Succede anche oggi

Sorge spontanea la domanda: in che misura questo avviene tuttora? Quante volte, nonostante l’emergere di rischi da dati scientifici “robusti”, si preferisce investire  per alimentare il dubbio su questi dati piuttosto che per alternative? L’applicazione del principio di precauzione è un dovere della scienza applicata e,  proprio perché difficile e non scevra di rischi, riconosce precisi percorsi valutativi e di condivisione; ciò che appare difficile da giustificare è lo schierarsi sistematico di una porzione della “scienza accademica” da una sola parte, tanto nei dibattiti scientifici quanto nelle aule dei tribunali. Barbieri affronta di petto la questione,  senza fare sconti e senza usare perifrasi. Appare indifendibile chi, per interesse economico, ha continuato a proporre sul mercato un prodotto di cui da decenni  erano noti, rischi, potenza cancerogena ed effetti; e appare una realtà storica degna di studio e interpretazione, come fa Barbieri, il fatto che parte della medicina
del lavoro e dell’igiene industriale accademica sia costantemente impegnata nella sua ben retribuita difesa, utilizzando forzature scientifiche congeniali al processo  penale.

Responsabilità

Ma il libro di Barbieri richiama tutti alle proprie responsabilità, perché dobbiamo ammettere che la consapevolezza dei rischi da amianto è maturata tardi e male in  ogni settore; lo dimostra il fatto che, nel momento di massima consapevolezza del rischio cancerogeno da amianto, cioè fra gli anni Sessanta e Settanta, epoca di  massima sensibilità sociale alla tutela della salute sul lavoro, si è raggiunto l’acme dell’utilizzo degli amianti, sotto gli occhi di tutti e senza che nessuno, fino agli inizi degli anni Ottanta (troppo tardi!), cominciasse a prendere in seria considerazione la necessità di interventi radicali di prevenzione. n questo troppo lungo periodo
appare inganno mortale la reiterata negazione del rischio da parte di chi, gestendo estrazione e lavorazioni primarie dell’amianto, non ha giustificazione nell’avere mistificato il problema.
Una riflessione più distaccata degli eventi permette di considerare che alcune affermazioni del professor Girolamo Chiappino del 1985, riportate da Barbieri (p. 32),  appaiono molto simili a quelle proposte anche oggi per altri cancerogeni. È probabile che ciò avvenga nella convinzione che non siano dotati di potenza cancerogena  pari a quella dell’amianto, ma anche per l’amianto la potenza cancerogena non è stata pienamente nota fin dall’inizio. Particolarmente calzante è il  paragone con la silice libera cristallina, come l’amianto fattore di rischio “storico”, da 40 anni sospetta di essere cancerogena per il polmone, da 20 anni considerata cancerogeno certo gruppo 1 dalla IARC, da due anniriconosciuta cancerogena anche dalla Comunità europea: già i tempi di questa discussione sono esemplificativi, ma sembra diffusa la convinzione che si tratti di cancerogeno a bassa potenza, anche se ciò potrebbe essere dovuto alla mancanza di un evento sentinella tanto  forte come il mesotelioma. Alcune analogie fra quanto affermato da Chiappino nel 1985:

  • alcuni amianti (come alcune silici), possono essere utilizzati in condizioni di accettabile sicurezza;
  • concentrazioni di amianto più basse (così come di silice), debbono corrispondere a rischi quasi trascurabili, forse non evidenziabili;
  • i limiti indicati per l’amianto per gli ambienti di lavoro sono tali da annullare l’effetto sclerogeno e da ridurre l’effetto cancerogeno a frequenze non più individuabili  con l’indagine epidemiologica; stesso principio proclamato per la silice nelle recenti direttive comunitarie sui cancerogeni (2398/17 e 130/19) che però  contestualmente sdoganano un OELV (0,1 mg/mc) che non protegge dall’effetto sclerogeno ed è più alto di quelli raccomandati dagli organismi scientifici.

Amianto in tribunale

Alcune delle argomentazioni richiamate dai consulenti delle difese in procedimenti giudiziari possono considerarsi ipotesi scientifiche rispetto alle quali sarebbe stata auspicabile una discussione in ben altra sede che non il Tribunale. Per l’amianto molte di queste “tesi” sono già state ampiamente contraddette. Per altri  cancerogeni, solo una severa analisi condotta in sedi appropriate potrebbe stabilire la loro compatibilità con un uso sicuro oppure se cronicizzazione del danno o diluizione degli effetti siano “socialmente accettabili”. Nel processo di valutazione di una sostanza, in presenza di ragionevoli dubbi sulla probabilità di gravi effetti, le cautele nell’esposizione dovrebbero essere rigorose, per essere eventualmente allentate con il progredire delle conoscenze sulla sicurezza del prodotto. Nella realtà,  avviene l’opposto. Ciò fa riflettere sul fatto che viviamo in un sistema socioeconomico per il quale il bene primario da tutelare è la produzione, nella  convinzione che da questa dipenda anche la salute. Nell’eterna discussione fra chi anela a una esposizione nulla ai cancerogeni e chi invece tende a un rischio  controllato secondo principi che permettano di cogliere i benefici derivanti dal loro utilizzo (ALARA: as low as reasonable possible), è spesso assente l’etica, e il  conflitto d’interesse non consente di riconoscere il confine fra dubbio legittimo e malafede.

L’evoluzione giudiziaria della vicenda amianto ha definitivamente inquinato il dibattito che, se fosse rimasto in una sede scientifica, avrebbe forse potuto conservare dignità. Barbieri affronta diffusamente i capisaldi delle difese a oltranza di dirigenti e datori di lavoro, a partire dalla contestazione delle diagnosi di mesotelioma, che i consulenti si affrettano a considerare “estremamente difficili”, al punto da metterle sistematicamente in dubbio nonostante nelle casistiche autoptiche la diagnosi risulti confermata in ben oltre il 90% dei casi, compresi  quelli diagnosticati in vita semplicemente “per immagini”. Si sofferma poi sulle tesi con pretesa scientifica, orientate a ricondurre le responsabilità per le esposizioni  causa della patologia a epoche tanto remote che i responsabili non siano più perseguibili: dalla negazione del modello di sviluppo multistadio dei tumori e del ruolo di  tutte le esposizioni al minerale nell’insorgenza del tumore fino alla conseguente teoria del “basta una fibra”, la prima. Il vero protagonista di questa parte del libro è lo sdegno dell’Autore di fronte alla presa d’atto che Scienza e Coscienza non sempre sono indissolubilmente legate e che la medicina del lavoro, come altre branche della sanità pubblica, ha difficoltà nel condividere all’interno della propria comunità scientifica principi etici e deontologici,  roppo soggetta a conflitti di ben più ampio valore socioeconomico.

Processi senza responsabili?

Ha fatto bene Barbieri a narrare in questo suo testo la lunga e travagliata vicenda giudiziaria dell’amianto, pagina di rilievo storico che rischia di perdersi negli archivi dei Tribunali. Sebbene rinchiami giustamente l’obbligo del processo penale a fronte delle responsabilità per lesioni personali colpose, come previsto dal nostro  ordinamento, credo sia giusto chiedersi se a 30 anni dalla cessazione della maggior parte delle esposizioni, abbia ancora possibilità di successo la ricerca in Tribunale di responsabilità e connivenze e quanto invece, come contribuisce a fare lo stesso Autore, questa verità sia ormai da affidare alla Storia, anche a quella giudiziaria. A distanza di tanti anni è lecito temere la conclusione della maggior parte dei processi senza responsabili. Poiché nella vicenda amianto vi sono responsabilità sociali ben più alte di quelle di molti singoli datori di lavoro, credo auspicabili altri percorsi per rendere giustizia a tutte le vittime dell’amianto, anche a chi è morto per  esposizioni ambientali e domestiche o per esposizioni lavorative per le quali non è stato possibile, né lo sarà, individuare responsabili diretti.

Racconti e riflessioni

Il libro di Barbieri, corredato da una importante e coerente iconografia, frutto di ricerca in alcuni archivi storici ma principalmente derivante dalla attività di servizio della struttura territoriale di prevenzione, ha anche contenuti scientifici: con linguaggio semplice, ma non banale, affronta questioni spesso controverse, talvolta  senza risposta, su meccanismi di azione, percorsi diagnostici, attribuzioni eziologiche, terapie eccetera.
La notevole casistica raccontata, più che analizzata, da Barbieri permette considerazioni e riflessioni che aprono interrogativi di rilievo:

  • cos’è in grado di moltiplicare il potere cancerogeno delle fibre d’amianto tanto da rendere una esposizione presumibilmente molto bassa, capace di indurre cluster di mesoteliomi in piccole casistiche di addetti, come nel caso delle telefoniste SIP esposte al solo rischio legato alla presenza di vinil amianto?
  • in che misura, utilizzando i criteri di attribuzione delle esposizioni adottati dal Registro Nazionale Mesoteliomi (Re- NaM), si corre il rischio di sottostimare l’esposizione per casi legati a esposizioni passive o per casi isolati? In chemisura, viceversa, in realtà altamente industrializzate, si corre il rischio di sovrastimare le attribuzioni di esposizione probabile o certa?
  • qual è il ruolo della suscettibilità genetica al mesotelioma, che assume particolare drammaticità quando si manifesta in consanguinei, spesso correlata a esposizioni domestiche?

Per una vera multidisciplinarietà

Queste e molte altre considerazioni nascono dal lavoro attento e professionale degli operatori dei servizi di prevenzione, igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro del Dipartimento di prevenzione dell’Azienda sanitaria bresciana. Proprio questa è un’altra chiave di lettura di grande interesse del libro di Barbieri. Non esistono, a mia conoscenza, manuali che parlino con altrettanta attenzione del lavoro svolto nei servizi di prevenzione; non esistono testi che guidino allo svolgimento delle attività  di indagine e di ricerca attiva delle malattie professionali, che coniughino gli obbiettivi di prevenzione con quelli giudiziari e con quelli previdenziali. È forse  questo il primo testo che, partendo da una concreta esperienza di lavoro, insegna a coltivare una multidisciplinarietà fondata sulle competenze integrate di ciascuna figura professionale, quella clinica e quella sulla tecnologia industriale, ma anche sull’attenzione alla storia del territorio, del lavoro, dell’industria e,  soprattutto, al rispetto per i lavoratori. Non sempre l’indagine sulle malattie professionali è guidata, come per l’amianto, da patologie ad alta frazione eziologica. Per  questo la lezione di Barbieri è preziosa, a maggior ragione per le tante patologie a bassa frazione eziologica che, ancora, non sappiamo evidenziare né prevenire.

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