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24/06/2022

RSA: spunti per la gestione nell’era post-COVID

Intervista ad Andrea Ciattaglia, direttore della rivista Prospettive Assistenziali e rappresentante della Fondazione “Promozione Sociale e del Coordinamento Sanità e Assistenza” (CSA) tra i movimenti di base

Grazie al tuo impegno per i diritti dei malati non autosufficienti, hai un’ampia prospettiva sulla loro situazione sanitaria.

Per la tutela di queste persone, il riferimento è la legge 833/1978, istitutiva del SSN in difesa della salute di tutti i cittadini e dei malati acuti o, come le persone non autosufficienti, cronici. Dalla legge 3 del 2001, riforma del titolo V, e contestualmente con l’introduzione dei livelli essenziali di assistenza, la presa in carico dei non autosufficienti, prima come spesa poi come competenze, ha subito un progressivo slittamento de facto dalla sanità verso le politiche sociali, anzi, verso l’assistenza a carico delle famiglie tamponata dai servizi sociali solo in caso d’indigenza.
Un anziano non autosufficiente ricoverato in RSA in convenzione con l’ASL ha per diritto il 50% del costo pagato dalla sanità e il restante 50% a carico proprio oppure, se non ha sufficienti risorse economiche, del Comune. La ripartizione dei costi non corrisponde a una divisione delle prestazioni. Non si ricevono trattamenti al 50% sanitari e all’altro 50% alberghieri: è una suddivisione burocratica che è il nocciolo del comparto cosiddetto sociosanitario. Si è stabilito che, per un certo tipo di malati e percorsi di cura, c’è una compartecipazione: all’interno di una presa in carico di competenza esclusiva della sanità, l’intervento sanitario è parziale sia a livello di costi sia di prestazioni.
Nei fatti, e per gli utenti, significa che questa parte di sanità era di serie B già prima del COVID, in gran parte appaltata alla gestione privata, poco controllata dalle strutture pubbliche e con i livelli minimi delle prestazioni stabiliti dalle Regioni, che spesso nella pratica si abbassano ancora rispetto agli standard assieme alla copertura di personale e ai percorsi terapeutici. Le esigenze sanitarie dei ricoverati, invece, crescono. Negli ultimi 10 anni, soprattutto. Da ben prima della pandemia, gli operatori e gli indici statistici dicono che le persone non autosufficienti ricoverate hanno patologie mediamente più gravi di quelle registrate negli anni precedenti. Si trovano in questo limbo sanitario persone che dovrebbero essere in ospedale o in case di cura con presidio medico continuativo e che vengono invece assistite in strutture con meno personale e capacità di cura.

Nel 2019-2020 arriva la pandemia e rivela drammaticamente la situazione…

I numeri danno la fotografia di cosa è stato quel momento. Si era in piena emergenza, mancavano dispositivi di protezione eccetera. Ma questi erano elementi a contorno, pur gravi, di una debolezza strutturale programmata del settore. Il COVID ha fatto emergere in scala aumentata una situazione che c’era già: ogni anno, già prima della pandemia, la stagione influenzale mieteva parecchie vittime nelle RSA. Con una situazione pandemica e la gestione alienata al privato, si sono trovati abbandonati sia i gestori sia i pazienti. A inizio 2020, il COVID ha fatto venir fuori i limiti di questa presa in carico. Gli si è abbattuto contro uno tsunami e avevano una palafitta, ma la scelta della palafitta era stata fatta quando già erano in un mare agitato. 
Questo si è tradotto in un aumento dei decessi difficile da quantificare. In Piemonte, l’Assessorato alla sanità non ha ancora diffuso i dati di mortalità nelle RSA nel 2020-2021. È consolidata una cifra superiore a 5.000 morti nelle strutture residenziali piemontesi su un bacino di 29.000 posti letto. Questo ha creato una situazione ulteriormente deleteria per i bisogni di questi pazienti che sono stati visti come un fenomeno da rimuovere – ricordo le dichiarazioni del presidente della Liguria, Toti: «Sono anziani che muoiono, non sono utili allo sforzo produttivo del Paese» – per il rifiuto da parte della politica sanitaria di occuparsi di malati che pure sono di sua competenza. Inoltre, il numero dei contagi in RSA veniva visto come una minaccia per il SSN e di questo aspetto fanno parte le vicende, approdate anche alle procure, dei pronto soccorso che rifiutavano i pazienti RSA, sostenendo che fosse meglio per loro morire nel proprio letto. Il COVID ha colpito duro anche i malati non autosufficienti rimasti a casa senza presa in carico da parte del servizio pubblico. I dati ISS sul COVID hanno registrato una costante: le vittime sono in gran parte ultra ottantenni con più patologie, fra cui la demenza nel 20% dei casi.

Conosci buone pratiche messe in atto per rimediare a questa situazione?

Assistiamo le famiglie in un migliaio di controversie l’anno in merito all’accesso (negato dalle ASL) alle prestazioni sanitarie e sociosanitarie. Con il COVID, la richiesta di aiuto si è estesa a chi aveva perso un familiare o riscontrava problemi come la segregazione, il vedersi solo da un vetro eccetera. Il motivo per cui è difficile parlare di buone pratiche è che le RSA sono state utilizzate come serbatoio di personale per il servizio pubblico gravemente depauperato negli ultimi decenni. Nell’emergenza, l’apertura dei bandi per posti in aziende sanitarie e ospedali ha drenato moltissimo personale dalle RSA. Operatori sociosanitari, infermieri e riabilitatori hanno risposto alla chiamata del servizio pubblico, perché lì le condizioni lavorative sono migliori (questo chiarisce da dove viene il risparmio del servizio invocato come merito dai privati: con contratti meno tutelanti e retribuzioni più basse). Il risultato di questo spostamento di massa è stato un impoverimento di personale per le RSA, per cui si fatica a trovare chi riesce a comportarsi bene. 
Tuttavia, alcuni percorsi di sorveglianza messi in moto a fronte dello sdegno per le situazioni rivelate dalla pandemia stanno dando risultati. Il Piemonte ha mappato, come mai aveva fatto prima, tutte le strutture residenziali: le RSA con accreditamento sanitario, ma anche RA (residenze alberghiere) e RAA (residenze alberghiere assistite) e adesso sa quante, quali e dove sono e quanti posti hanno: questo è importante perché consente un controllo. Inoltre, ci sono state azioni magari ridotte, però significative in termini di partecipazione, decise dalla città metropolitana di Torino, come la “Cabina di regia” delle RSA convocata dopo la prima ondata del COVID, che si aggiorna ogni due settimane. Vi partecipano delegati della società civile che possono suggerire indicazioni e impostazioni su come gestire i contagi, le vaccinazioni, i problemi delle RSA o l’ingresso in convenzione di nuovi pazienti. È un sistema di controllo necessario che le strutture pubbliche dovranno garantire anche dopo il COVID, con le parti sociali coinvolte, perché le RSA devono smettere di essere un luogo chiuso, gestito da un privato che non viene mai controllato. Sono strutture accreditate che lavorano in nome e per conto del SSN: queste pratiche di trasparenza devono rimanere.

Legge 833: partecipazione e pubblico come elementi fondanti del SSN anche nel futuro?

Nei prossimi anni si svilupperanno le risorse del PNRR. Bisogna ricordare che i servizi della legge 833 e dei livelli essenziali sono spesa corrente dello Stato, non c’entrano con il PNRR, che offre risorse straordinarie. Se queste saranno utilizzate per l’ordinario, allora saranno spese male. Devono servire, invece, per impostare percorsi nuovi, che partano come progetti e poi si stabilizzino. I fondi del PNRR, nel loro ammontare complessivo per la sanità, sono molto pochi rispetto alla dotazione del fondo sanitario nazionale. All’interno dei progetti del PNRR segnalo quello della missione 6 che riguarda gli Ospedali di Comunità (che meglio sarebbe chiamare infermerie). Il modello del PNRR prevede una struttura a conduzione infermieristica e con degenza temporanea, pensata sul modello di regioni come il Veneto che assiste il post-ospedaliero in queste sedi. L’impostazione solo infermieristica non risponde alle esigenze dei malati non autosufficienti, che sono gravi: queste strutture dovrebbero integrarsi con le RSA arricchendole di valenza sanitaria puntando alle risorse dell’UE. Va però chiarito che non esiste la responsabilità prevalentemente infermieristica in nessuna struttura sanitaria, perché altrimenti si ricade nella presa in carico RSA attuale, sottodimensionata rispetto alle esigenze. Ci vogliono i medici, ci vuole un’équipe che sovrintende e magari anche una parte ambulatoriale. Inoltre, non esiste il ricovero temporaneo. Nella legge 833, il ricovero è senza limiti di durata e prosegue finché c’è necessità. Siccome i malati non autosufficienti per definizione avranno sempre necessità, magari anche decrescenti dopo una fase acuta – ma non è detto perché si riacutizzano facilmente –, non esiste la possibilità di mettere una data di scadenza al ricovero. La scadenza la mette purtroppo la morte o la guarigione, oppure la volontà – espressa direttamente dal malato o da qualcuno che lo rappresenti – di rinuncia ai servizi sanitari. In difetto di queste tre cose (e purtroppo la guarigione nei casi di malati cronici non autosufficienti non è considerabile), la cura deve continuare. Questa è un’idea di utilizzo dei fondi PNRR funzionale per questa sezione del SSN se si vuole migliorare la presa in carico territoriale ammettendo che oggi, purtroppo, strutture come le RSA sono luoghi che non rispondono ai bisogni delle persone ricoverate.

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