Rubriche
14/03/2011

Rischi di incidenti rilevanti. Qualcosa è cambiato?

Scrivendo a pochi mesi di distanza dall’incidente avvenuto all’ICMESA diMeda il 10 luglio del 1976, che aveva causato la fuoriuscita di diossina e la contaminazione di una vasta area della Brianza, Giulio Maccacaro si rifiutava di considerarlo un evento imprevedibile e unico, circoscrivibile in uno spazio e un tempo determinati. Mentre ne individuava le cause nel colpevole disinteresse per i valori della salute e dell’ambiente, profetizzava (e in parte già riscontrava) negligenze e omissioni destinate ad aggravarne le conseguenze e a favorire il ripetersi di simili accadimenti. Non era certo la mancanza di conoscenza a venire individuata come il problema centrale, ma piuttosto la sua strumentalizzazione e non condivisione.1

Ignari dei rischi prima, e comprensibilmente spaventati dopo, lavoratori e residenti si trovarono a fronteggiare l’incertezza del futuro fra informazioni contraddittorie e indicazioni contrastanti, fra rassicurazioni verbali destinate a tranquillizzarli e provvedimenti restrittivi emessi nell’intento di limitare ulteriori esposizioni. E si trovarono inoltre a essere vittime di strumentalizzazioni politiche di vario tipo e perfino di discriminazioni pesanti.

A quasi trentacinque anni di distanza, la regolamentazione delle installazioni “a rischio di incidente rilevante” è radicalmente cambiata, anche per quanto attiene agli obblighi di informazione nei confronti di lavoratori e residenti. L’incidente avvenuto all’ICMESA (a tutti noto come l’incidente di Seveso dal nome del comune che maggiormente ne subì le conseguenze) era stato preceduto da molti altri, spesso gravissimi, come quello di Flixborough, in Inghilterra nel 1974, e a livello comunitario era già in discussione una normativa per regolamentare gli impianti in cui venivano prodotti, usati o stoccati certi tipi di sostanze chimiche. Non era più tollerabile, infatti, che di tali impianti, disseminati ovunque in Europa, non esistesse un censimento e che spesso le stesse autorità amministrative e sanitarie non fossero informate della loro esistenza sul territorio di propria competenza. L’incidente avvenuto nel nostro Paese mostrò l’assoluta indilazionabilità di una legislazione comunitaria in materia, ma allo stesso tempo introdusse nuovi motivi di contenzioso fa gli attori interessati: in particolare l’industria chimica manifestò una forte resistenza alla diffusione dell’informazione sul rischio che, riteneva, avrebbe potuto danneggiarla.

La prima direttiva…

Nel 1982 fu finalmente emanata la prima direttiva europea in materia, immediatamente ribattezzata “direttiva Seveso” a scapito delle proteste dei residenti che vi leggevano un permanere dello stigma che li aveva colpiti al tempo dell’incidente.2 La direttiva introdusse, fra le altre, una norma contenente l’obbligo di informare «le persone che possono essere colpite da un incidente rilevante … sulle misure di sicurezza e sulle norme da seguire in caso di incidente». Ho discusso altrove della limitatezza di tale norma e degli stessi presupposti su cui si basa, mostrando come nella sua formulazione essa configuri un soggetto “di bisogno” piuttosto che “di diritto”; un soggetto che deve essere protetto, istruito e rassicurato, anziché un cittadino responsabile e partecipe alle decisioni.3 Si trattò comunque di un’innovazione importante, della prima tappa in un percorso destinato a essere ancora lungo e difficile e che è a tutt’oggi incompiuto.

… e le modifiche successive

La normativa europea fumodificata ripetutamente ed è innegabile il tentativo di imparare dall’esperienza, inclusa quella, ahimè, di nuovi incidenti, accaduti in Europa e altrove. Il più terribile si verificò nello stabilimento della Union Carbide di Bhopal, nello stato indiano del Madhya Pradesh nel 1984, con il rilascio di una enorme quantità di isocianato di metile. Le conseguenze di quello spaventoso evento sono ancor oggi difficili da quantificare con precisione in termini di perdita di vite umane, danni all’ambiente, alla salute delle persone esposte e della loro progenie e, non ultime, ingiustizie di tutti i tipi subite dai residenti per assistenzamancata, ritardi nelle procedure amministrative e giudiziarie, risarcimenti inesistenti o ridicoli.

Il secondo emendamento alla “direttiva Seveso”, pubblicato nel 1988,4 estese e chiarì il dettato della norma sull’informazione, precisando che questa doveva essere fornita attivamente agli interessati, aggiornata e ripetuta a intervalli adeguati. Attività di monitoraggio compiute da scienziati sociali sullo stato dell’applicazione della norma in Europa avevano infatti mostrato come in alcuni Stati membri gli attori delegati a fornire l’informazione si limitassero a renderla disponibile su richiesta e non si facessero invece promotori attivi della sua diffusione.

Chi informa il cittadino? E come?

Necessariamente le direttive europee lasciano ampia discrezionalità agli Stati membri nel decidere “chi” deve informare. In Italia, dove il recepimento della direttiva Seveso e del suo primo emendamento nel 1988 (!) ebbe i caratteri di una saga che non c’è spazio qui per ricostruire, l’informazione è «a cura dei sindaci dei comuni in cui sono localizzati gli impianti» (dunque Meda ma non Seveso; se tale legislazione fosse stata in vigore al tempo dell’incidente del 1976!),mentre è il prefetto competente per territorio che, dopo aver predisposto un piano di emergenza esterno all’impianto, «assicura che la popolazione sia informata». Tali poco chiare formulazioni, generando complesse procedure applicative non esenti da conflitti e sovrapposizioni di competenze, sono destinate a ripercuotersi sul territorio con ritardi e inadempienze diffusi. E infatti impressionanti furono e sono i ritardi e le omissioni nel nostro Paese, oltre che nel recepimento formale della legislazione comunitaria, anche nell’ottemperare agli obblighi da essa derivati, incluso quello dell’informazione.

Il legislatore europeo si premura invece di dare indicazioni su “che cosa” comunicare, sui contenuti minimi dell’informazione che, a partire dall’emendamento del 1986, riassume in un allegato tecnico. A confermare ancora una volta che la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, tale allegato non facilita affatto il compito dei soggetti preposti alla diffusione dell’informazione in quanto, elencando un gran numero di voci (tipo di impianti, caratteristiche delle sostanze, conferma dell’obbligo di informazione, ecc.) non tiene in alcun conto le esigenze di una comunicazione efficace che deve essere, in primis, chiara, comprensibile e ”leggera”. Il livello di dettaglio richiesto è tale che, soprattutto nel caso di più impianti in una stessa area, i residenti si vedrebbero subissati da una granmole di dati tecnici e da informazioni comportamentali non raramente in contraddizione l’una con l’altra.

Come già osservava Maccacaro, per capire, e per prevenire «bisogna andare ben oltre le pagine di un trattato di chimica…e varcare la soglia della fabbrica e calarsi nella realtà della produzione…». Aggiungo che, per informare efficacemente a fini di prevenzione e auto-protezione, bisogna conoscere il territorio intorno all’impianto e le caratteristiche socio-demografiche e culturali della popolazione che lo abita. Anche a prescindere dall’allegato, uno dei grossi problemi non risolti riguarda il tipo di informazioni comportamentali da fornire alla popolazione esposta al rischio, perché gli scenari incidentali sonomolteplici e diversi per uno stesso impianto (esplosione, incendio, rilascio di sostanze tossiche,…) e ancor più nel caso di vicinanza di più impianti (effetto domino).

Una buona localizzazione viene prima di una buona informazione

Se è innegabile che l’informazione sia un diritto irrinunciabile e che, se appropriatamente generata, formulata e diffusa, essa possa avere significativi effetti positivi, il problema centrale rimane la localizzazione degli impianti a rischio che in molti casi si trovano, oggi come in passato, là dove non dovrebbero essere e che continuano a provocare drammatici incidenti, pur in presenza di una legislazione severa in materia. Basti pensare al disastro di Tolosa del 2001, quando un’ingentissima quantità di nitrato d’ammonio esplose in un deposito di fertilizzanti nello stabilimento dell’AZF (Azote de France), causando una trentina di vittime e circa duemilacinquecento feriti, nonché la necessità di evacuare oltre ventimila persone.

Di fatto, una successiva direttiva del 1996, nota come “Seveso II”,5 contiene uno specifico articolo sul controllo dell’urbanizzazione che rimanda ai principi di una corretta pianificazione territoriale. Con altri articoli si estende inoltre la tipologia dei soggetti aventi titolo a ottenere l’informazione e se ne amplia il contenuto, che arriva a includere parti del rapporto di sicurezza che i gestori sono tenuti a presentare alle autorità competenti.

L’ennesimo scaricabarile?

Altre innovazioni sono relative alla consultazione dei cittadini, in particolare sui piani di emergenza esterni (in Italia, ricordiamo, responsabilità dei prefetti) che potrebbero essere lette come un segnale di apertura alla partecipazione in vista di una nuova cultura della governance dei rischi.

Esiste tuttavia una lettura alternativa, corroborata dal fatto che, pur con molti cambiamenti puntuali, l’impostazione complessiva della normativa, e ancor più le modalità della sua (non) applicazione, rimangono invariate. Nell’accresciuto coinvolgimento dei cittadini si potrebbe addirittura intravvedere l’abbozzo di un tentativo di spostare la responsabilità “dal produttore (del rischio) al consumatore”, privilegiando un indirizzo burocratico, basato su adempimenti formali, a una efficace gestione della prevenzione e della sicurezza, fondata su un’etica della responsabilità.

Bibliografia

  1. Maccacaro G. Seveso, un crimine di pace. Sapere 1976;LXXIX(796) nov dic: 49.
  2. Direttiva 82/501/CEE del Consiglio del 5 agosto 1982 sui rischi di incidenti rilevanti di determinate attività industriali, GU L230, 5 agosto 1982.
  3. De Marchi B. Origini e sviluppi della comunicazione del rischio nella legislazione europea. In: Rodotà S, Tallacchini M (eds). Ambito e fonti del biodiritto, Vol I, Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Giuffrè Milano, 2010, pp. 467-489.
  4. Direttiva 88/610/CEE del Consiglio del 24 novembre 1988 che modifica la Direttiva 82/501/CEE sui rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate attività industriali, GU L336, 7 dicembre 1988.
  5. Direttiva 96/82/CE del Consiglio del 3 dicembre 1996 sul controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose, GU L10, 14 gennaio 1997.
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