Mammografia: meglio un innocente in prigione o un colpevole libero?
Il titolo del nuovo volume di Eugenio Paci, Mammografia, al primo impatto fa pensare a un argomento tecnico, all’esame radiologico – quale è la mammografia – al di fuori dei contesti in cui è utilizzata. In realtà, si tratta di un pretesto per spaziare dalla storia naturale del cancro alla comunicazione, dall’incertezza dell’interpretazione dei risultati della ricerca al loro utilizzo nella pratica clinica, dal rapporto tra cura e prevenzione, clinica e sanità pubblica all’evoluzione dell’agire medico nel contesto sociale e assistenziale. La mammografia, quella di screening del carcinoma mammario, è il fil rouge attraverso il quale si dipana la narrazione della storia di uno screening che ha suscitato negli ultimi 30 anni, e suscita tuttora, dibattiti e controversie nella comunità medica e scientifica, nei media e nella popolazione riguardo alla sua efficacia, ai vantaggi e agli svantaggi che questa pratica comporta.
È il sottotitolo, Emozioni, evidenze e controversie scientifiche nella diagnosi precoce del tumore al seno, a rivelare un’altra dimensione del racconto: quella della storia e dell’esperienza di un testimone/attore delle vicende che sono narrate e meticolosamente documentate.
L’intreccio tra esperienza personale, raccontata con un evidente impegno di onestà intellettuale, storia e discussione critica dei dati scientifici, stimola la lettura.
Nel testo sono inseriti box e sezioni didattiche ed esplicative su sovradiagnosi, metodi di stima e modelli di studio che portano a chiedersi per chi sia stato scritto questo libro. Sinceramente non saprei cosa rispondere; in ogni caso, ne consiglierei la lettura non solo a chi si occupa di screening del cancro, ma anche ai clinici (in particolare ai senologi), agli studenti di medicina, agli operatori delle organizzazioni di volontariato, a tutti coloro che sono interessati ad addentrarsi nei meandri della complessità di questa materia, che non è solo scientifica.
Più che entrare nel merito di singoli punti, a volte particolarmente controversi, è interessante soffermarsi su alcuni aspetti generali dell’approccio che l’autore ha ad argomenti quali la sovradiagnosi e lo screening nella pratica clinica.
Al di là degli aspetti metodologici nella quantificazione della sovradiagnosi e alla storia delle controversie che si sono sviluppate al riguardo, credo sia importante dedicare attenzione a come sia possibile “mitigare” la sovradiagnosi. Eugenio Paci cita i carcinomi mammari in situ (che sono circa un quinto/un sesto dei tumori diagnosticati allo screening mammografico), per i quali dovrebbero essere considerate “terapie proporzionate” per i tumori al seno di bassa aggressività, al fine di ridurre il sovratrattamento, sottolineando la necessità di caratterizzare biologicamente i tumori a fini terapeutici e prognostici. Tuttavia, il raggiungimento di questo obiettivo cruciale non modificherebbe la quantità di sovradiagnosi, che potrebbe essere ridotta con meno episodi di screening nel corso della vita (diminuendo di conseguenza il numero di cancri radioindotti) e migliorando l’accuratezza diagnostica. Come conseguenza, si dovrebbe limitare il numero di casi falsi positivi da avviare al trattamento.
Il dilemma si divide, come spesso in medicina, tra sensibilità e specificità: è preferibile avere un possibile innocente in prigione o un possibile colpevole libero?
Il reservoir di alterazioni del tessuto mammario viene sempre di più prosciugato grazie ai progressi della tecnologia utilizzata in fase di test e di valutazione diagnostica nei soggetti positivi alla mammografia. Ma la proporzione di lesioni diagnosticate allo screening, dalla rilevanza clinica sconosciuta o incerta, tende ad aumentare. Se le tecnologie di diagnostica mammaria raggiungessero la stessa sensibilità dell’esame istologico post mortem, i casi di carcinoma in situ raddoppierebbero.1
Si è arrivati al paradosso della mastectomia bilaterale profilattica nelle donne portatrici di mutazione dei geni BRCA. In questo gruppo, la sovradiagnosi non esiste, perché non esiste il tumore in sé, ma un rischio elevato di tumore. Si accetta, quindi, di avere una proporzione di donne positive per BRCA di circa il 50%-60%2 che vengono inutilmente operate. Questo stato confusionale della senologia non riguarda soltanto lo screening, ma anche i cosiddetti casi sintomatici. La soglia di positività diagnostica varia negli anni, così come la soglia di percezione del sintomo da parte delle persone. Alcuni decenni fa, la dimensione dei carcinomi mammari sintomatici alla diagnosi era di due o tre centimetri, molto di più che adesso. Verosimilmente, tumori indolenti e non progressivi sono presenti tra i casi diagnosticati in seguito a sintomi più o meno predittivi. Tali lesioni non sarebbero state diagnosticate 30-40 anni fa, poiché la cosiddetta breast awareness ha modificato la soglia di percezione dei sintomi. Forse la sovradiagnosi non riguarda solo lo screening, ma anche tutti quei procedimenti clinici che portano alla diagnosi di alterazioni mammarie indolenti o non progressive. Ma un punto è proprio questo: non siamo in grado – come anche osserva Paci – di perseguire l’obiettivo fondamentale di distinguere i cancri letali dagli altri. Vi è una chiara e forse crescente discrepanza tra diagnosi morfologica e significato clinico e prognostico della diagnosi. La conseguenza è che si tratta tutto, e molto spesso si sovratratta, per precauzione. Lo stesso problema esiste in particolare per i tumori della prostata e della tiroide. La reticenza del clinico a usare i marcatori biologici, che pure vengono misurati, come fattori prognostici per modulare il trattamento e decidere se e come trattare può essere comprensibile. Benché le evidenze scientifiche sulla predittività prognostica dei marcatori siano tutt’altro che consolidate, il loro uso come guida per adottare e condividere con il paziente le decisioni sul trattamento pare urgente e non rinunciabile. Quanto si propone alle pazienti che hanno diagnosi di tumore è di trattare comunque e, per sicurezza, di trattare in modo aggressivo. In coorti di donne che hanno rifiutato ogni trattamento di carcinomi mammari, la sopravvivenza a 5 anni è stata del 20%.1 Attualmente, la sopravvivenza dei casi trattati supera l’80%, quattro volte superiore alla precedente. Credo che, da un punto di vista etico, non solo sia da perseguire il paternalismo libertario nel rispetto dell’autonomia decisionale delle persone, ma sia utile un riconoscimento dei limiti delle conoscenze e dell’agire medico per far progredire le conoscenze e rifondare il rapporto con i malati.
Penso sia discutibile proporre a un paziente terapie per le quali l’indicazione è incerta, come nei casi di carcinoma duttale in situ, in cui la probabilità di progressione è di un terzo. Al di là dei valori e delle scelte individuali dei pazienti (che possono preferire comunque di essere trattati o meno), bisogna proporre, al fine della decisione sul trattamento, scenari responsabili. Proporre un trattamento demolitivo e debilitante a una persona che ha una probabilità su tre di averne bisogno pone una serie di quesiti etici, prima ancora che scientifici, relativi alla definizione di malattia e all’identificazione del malato.
In realtà, il punto fondamentale è costituito dagli effetti avversi del trattamento. Se il trattamento del carcinoma mammario fosse del tutto innocuo, il problema della sovradiagnosi e dei falsi positivi sarebbe principalmente economico e di utilizzo delle risorse. Da questo punto di vista, la mastectomia bilaterale profilattica come intervento chirurgico viene probabilmente percepita come meno aggressiva e più rassicurante che non una chemio e radioterapia dopo intervento chirurgico, eventualmente dopo 20 o 30 anni.
L’analisi di Eugenio Paci, che si è addentrata in aspetti sociologici, psicologici e comportamentali sia dei pazienti sia del sistema sanitario, pare non consideri la possibilità di come, in realtà, le controversie sull’efficacia dello screening mammografico, anche se non risolte, possano considerarsi superate. La distinzione tra casi diagnosticati in fase asintomatica o in fase sintomatica è oramai difficile. Non solo perché il sintomo è qualcosa di storicamente e culturalmente definito, che varia nel tempo, ma anche perché l’atteggiamento dei medici è tale da eseguire accertamenti per qualsiasi vago segno o sintomo. Anche i casi intervallo sono un’entità difficile da inquadrare come definizione e modalità diagnostica. La commistione tra diagnosi del carcinoma mammario in programmi di screening e nella pratica clinica, spesso eseguita negli stessi centri di senologia afferenti ai programmi di screening, crea nuovi scenari nel contesto delle pratiche assistenziali e di prevenzione. Non ha più senso chiedersi se sospendere i programmi di screening organizzato (comunque più accurati ed efficienti dello screening opportunistico) oppure quale sia la dimensione della sovradiagnosi, ma bisogna domandarsi come ridurre la sovradiagnosi (verosimilmente più elevata al di fuori di programmi organizzati) nei programmi di screening, nella pratica di diagnosi precoce spontanea e nella attività clinica diagnostica.3 Nel contempo, specie nello screening del carcinoma mammario, recuperare il valore della specificità, cioè non mirare a diminuire i falsi negativi a scapito dei falsi positivi, potrebbe portare più benefici di quanto si immagina e ridurre i danni. Eugenio Paci potrà, così, aggiungere nuovi capitoli al suo lavoro Mammografia.
Bibliografia
- Segnan N, Minozzi S, Armaroli P et al. Epidemiologic evidence of slow growing, nonprogressive or regressive breast cancer: A systematic review. Int J Cancer 2016;139(3):554-73.
- Chen S, Parmigiani G. Meta-analysis of BRCA1 and BRCA2 penetrance. J Clin Oncol 2007;25(11):1329-33.
- Esserman L, O’Kane ME. Moving beyond the breast cancer screening debate. J Womens Health (Larchmt) 2014;23(8):629-30.