L’impatto della pandemia sulla vigilanza per la sicurezza sul lavoro
Intervista a Marco Caldiroli, Presidente di Medicina Democratica, tecnico della prevenzione presso la UOC prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro (PSAL) della ATS Milano Città Metropolitana
Quale impatto ha avuto la pandemia sulla vigilanza per la sicurezza e l’igiene del lavoro?
Il primo impatto è stato pesante. L’ATS Milano ha posto i tecnici della prevenzione in smart working limitando il loro diritto-dovere di verificare il rispetto delle norme via via introdotte. Alla ripresa, il 5 maggio 2020, c’è stato un contraccolpo costituito da una richiesta di forte incremento di sopralluoghi specifici “anti-COVID” in aggiunta a quelli tradizionali affrontando nuovi temi. In particolare, si è passati da necessità di utilizzo di dispositivi di protezione individuale (DPI) estemporanee come luoghi rumorosi, cantieri eccetera, dove erano già previsti, a una situazione in cui tutti i luoghi di lavoro presentano una pericolosità “biologica” intrinseca di base e omogenea. Un ulteriore impatto è stato dato dall’estensione dei mezzi per riunioni e formazione via web. Per le riunioni, data la praticità e la riduzione degli spostamenti, l’impatto è stato positivo dando modo di utilizzare una forma di confronto alternativa, anche se non sempre ottimale. Per la formazione, la modalità a distanza è risultata di maggiore rigidità per impostazione, erogazione e fruizione; si riducono il confronto e la discussione ed è più difficile mantenere un livello di attenzione adeguato e continuo.
La pandemia ha posto sotto stress i servizi sanitari peggiorando i servizi di cura di tutte le malattie. Inoltre, sono aumentate le morti sui luoghi di lavoro. Come leggi questo quadro?
«La salute innanzitutto» è stato il mantra della prima emergenza, ma quell’affermazione nell’immediato non includeva i lavoratori e le lavoratrici essenziali, e poi si è estesa a tutti durante la cosiddetta seconda fase. Che la salute venga prima del profitto è alla base del mio ruolo istituzionale finalizzato a garantire condizioni di lavoro sicure e salubri in riferimento a tutti i rischi per infortuni e malattie professionali. Il mantra applicato nei luoghi di lavoro ma riferito solo alla pandemia sta diventando ideologico, nel senso marxiano di falsa coscienza, e si presta ad accentuare gli aspetti individuali della prevenzione – dai DPI al distanziamento, al green pass – senza mettere in discussione i problemi preesistenti. Si perde così l’occasione di una revisione degli obiettivi di salubrità degli ambienti di lavoro, centrale nelle rivendicazioni negli anni Settanta, riforma sanitaria inclusa, quale bene comune riconosciuto dalla normativa di sicurezza e prevenzione. La ripresa degli infortuni sul lavoro negli ultimi mesi conferma che, COVID-19 a parte, nulla è cambiato.
La perpetuazione dell’emergenza e l’imposizione di misure stringenti nei luoghi di lavoro possono dipendere da questioni industriali più che sanitarie?
La fisarmonica emergenziale, l’apri e chiudi delle attività turistiche e ludiche, ha avuto effetti limitati sulla produzione, perlomeno su quella propriamente industriale e dei servizi connessi. Vi è stata una preferenza, un “rischio ragionato”, per le attività produttive rispetto a quelle non considerate tali. Questo presupposto vincola ancora contenuti e modalità di gestione del contagio per non stressare oltre la soglia le strutture sanitarie. Siamo, infatti, passati dalla misurazione della diffusione del virus come fattore decisionale allo stato di occupazione degli ospedali come regola per la mobilità nelle singole regioni – fatto salvo l’obbligo di andare al lavoro.
Per gli effetti economici, ci sono due aspetti. Da un lato, in contraddizione con la politica di austerità del recente passato, c’è l’improvvisa disponibilità di risorse per la gestione sanitaria, che rischia di essere momentanea e foriera di un prossimo ritorno a nuove strette. Dall’altro, occorre attendere la concretizzazione degli obiettivi del Piano di ripresa e resilienza (PNRR) in sanità. Da più parti si denuncia la mancanza di un progetto, di una reale controtendenza rispetto alle politiche di smantellamento del SSN introdotto nel 1978, attuate dai primi anni Novanta. Gli obiettivi di potenziamento della medicina territoriale, uno degli aspetti dichiarati nel PNRR, non possono innestarsi in un sistema immodificato. Si è facili profeti: o si finirà con un insuccesso riportando in breve a quell’ospedalicentrismo che doveva essere scalzato dalla riforma del 1978, ma che resta predominante, oppure queste modifiche costituiranno un’ulteriore elemento della deriva mutualistico-assicurativa, welfare aziendale incluso, e della privatizzazione dei rapporti, delle strutture e delle finalità del “sistema” sanitario, non più “servizio”, come anticipato da esempio e pratica in Lombardia. Considerazioni analoghe valgono per la transizione ecologica e la miriade di opere finanziate dal PNRR: c’è sfasamento tra le necessità di cura e i contenuti che sono quelli classici a sostegno dei meccanismi di accumulazione capitalista, nonostante l’evidenza del baratro ambientale e sociale che il mondo ha di fronte.
I protocolli nei luoghi pubblici e di lavoro e l’assegnazione ai tecnici delle decisioni sanitarie hanno ridotto gli spazi di partecipazione: c’è il rischio di una concezione elitaria della medicina?
Con la pandemia, questa tendenza è stata aggravata dal teatrino dei tecnici. L’autoreferenzialità di molti, sedotti da un momento di notorietà, assieme a un approccio riduzionista già visto secondo cui “la scienza non è democratica” ha fatto risaltare l’incapacità di cogliere e trasmettere il significato dell’incertezza che la scienza porta con sé e che va, invece, indicata come premessa epistemologica, tanto più di fronte a eventi nuovi. Si è espressa soprattutto una presunta ma risibile onnipotenza scientifica. Questa ha prodotto disposizioni sanitarie accompagnate da messaggi autoritari ma non sempre autorevoli, da ultimo il green pass per lavorare. Una pandemia è un fenomeno complesso. I rischi di semplificazione sono sempre in agguato, perché i decisori devono dare indicazioni fondando le loro scelte su criteri che i numeri non sempre mostrano con oggettività. Alle singole tesi si sono poi aggrappati portatori di interessi specifici, che hanno chiuso ogni dialogo, trincerandosi dietro le proprie sicurezze. Proprio il contrario del metodo scientifico che s’interroga, verifica le proprie idee e continua a mettersi in discussione prima di tentare una sintesi e, soprattutto, fa questo senza l’intenzione di sostituirsi ai decisori, ma fornendo loro tutti gli elementi utili per interventi dotati di logica e attesa efficacia.
Le tesi preformate spingono a usare i dati per confermare i propri convincimenti e non per una migliore rappresentazione degli eventi. La mancanza di volontà o l’incapacità di fornire dati completi articolati in modo da rendere compiutamente analisi che non sono solo matematiche limitano la discussione pubblica e l’offerta di letture alternative degli stessi dati, accentuandone l’uso strumentale. Per contrastare il pensiero unico e la pretenziosità dei tecnici, occorre ridare spazio all’educazione alla salute che, assieme alla partecipazione, era tra gli obiettivi di base della riforma sanitaria. La loro assenza riduce ruolo e funzioni del SSN a questioni di amministrazione tra fondi disponibili e servizi erogati.
Cosa pensi della possibile obbligatorietà del vaccino per accedere al lavoro?
I brevetti, strumenti di profitto dei vaccini, essenziali nel contrasto al virus, sono il motivo della loro iniqua produzione e distribuzione. Il brevetto su farmaci salvavita, a fronte di un impegno pubblico oneroso, è uno dei più odiosi e ottusi prodotti delle logiche di mercato. Odioso perché disumano. Ottuso perché, se non si raggiungono in tempi veloci e in modo coordinato livelli di vaccinazione estesi in tutto il mondo, si favoriranno varianti che renderanno endemica la pandemia. Allora il virus sarà come un terremoto per il PIL: distruttivo di vite umane, ma capace di riattivare il ciclo del profitto. Per questo, come Medicina Democratica aderiamo all’iniziativa “Noprofitonpandemic” che evidenzia questa contraddizione. Disponibilità di vaccini non è però sinonimo di obbligatorietà, un’ipotesi su cui siamo contrari soprattutto se connessa a coercizioni punitive. La previsione di obblighi rigidi per categorie di lavoro o generalizzati, tanto più se connessi con la sospensione e l’azzeramento del reddito fino al licenziamento per le categorie precarie, sono in contrasto con i diritti dei lavoratori e le norme di sicurezza. Queste vedono in un processo partecipato di valutazione dei rischi e individuazione delle misure di protezione, in dialettica tra medico competente e lavoratori, il modo corretto per affrontare anche il rischio biologico, senza forzature e riducendo gli effetti di un rifiuto a limitazioni (spostamenti di mansione), non a punizioni. Inoltre, per ridurre le polemiche sulla campagna vaccinale e ricondurre le questioni a un contesto epidemiologico e scientifico, occorre una sorveglianza attiva sugli effetti avversi che il sistema di rilevazione ora sottostima. Disporre di dati corretti e completi è la premessa di ogni discussione e decisione.