Rubriche
15/09/2011

La correzione per il case-mix è un optional?

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L’intesa del 3 dicembre 2009 tra il governo e le regioni concernente il nuovo patto per la salute per gli anni 2010-2012 prevede, tra l’altro, di «monitorare i livelli essenziali di assistenza in relazione alla definizione dei costi standard» (art. 10 c.3) e all’art. 2 elenca gli indicatori su cui si deve basare il monitoraggio: in particolare, quelli indicati al punto 2b riguardano gli indicatori sui costi medi, e sono riportati nell’allegato 2.

Allegato 2

Come si osserva facilmente, gli indicatori presenti nell’allegato sono di due tipi, i costi pro capite delle diverse prestazioni e i costi medi per singole prestazioni: è proprio a questi ultimi (i costi medi per singole prestazioni) che intende dedicare la sua attenzione questo contributo perché, in accordo con lo spirito della rubrica, se non si sta attenti è possibile prendere qualche granchio.

Prima di entrare nel merito, è bene osservare che il documento di intesa fa riferimento esplicito ai costi delle prestazioni (e a titolo esemplificativo in questo scritto ci limitiamo alle prestazioni specialistiche, intra ed extraospedaliere), ma sul termine «costo» è opportuna qualche precisazione. Per calcolare i costi procapite ci si deve riferire a tutte (e sole) le prestazioni consumate dai cittadini residenti, effettuate sia nella stessa regione sia altrove e sia in presidi pubblici sia privati convenzionati: non c’è infatti altro modo per individuare una popolazione cui riferire un quantitativo di prestazioni se non quello di fare riferimento alla popolazione residente. Così facendo, però, da una parte i costi della produzione in presidi pubblici di prestazioni a favore dei residenti non possono esser distinti da quelli delle prestazioni erogate ai non residenti; e dall’altra non si possono conoscere i costi delle prestazioni dei residenti erogate da presidi convenzionati o ubicati fuori regione: per questi erogatori i costi possono solo essere assunti pari ai valori tariffari delle prestazioni erogate, il che corrisponde al costo d’acquisto delle prestazioni stesse.

Problema analogo si pone per il calcolo dei costi medi per prestazione: essi si possono calcolare solo relativamente alle prestazioni prodotte dai presidi pubblici ed erogate sia a residenti sia a non residenti, mentre per i presidi convenzionati si ricade nella tematica dei costi di acquisto (e cioè le tariffe) già segnalata.

Superato l’ostacolo definitorio di cosa sono i costi, e accettata l’idea che chiamiamo costo un concetto che è ibrido in quanto in parte costituito da costi di produzione e in parte costituito da costi di acquisto (il che già indica che eventuali differenze tra regioni potrebbero essere imputabili semplicemente alla diversa composizione del mix di erogatori, pubblici e privati), il calcolo dei costi medi di per sé non incontra difficoltà pratiche in quanto nei flussi informativi esistenti vengono rilevati sia i costi dei livelli di assistenza (i cosiddetti LA) sia il numero delle prestazioni erogate (sia per le prestazioni ospedaliere sia per quelle extra ospedaliere). La qualità di questi ultimi dati (numero delle prestazioni) non è stata ancora completamente determinata ma si può supporre che sia di livello accettabile, mentre è noto che i dati sui costi hanno maggiori problemi tanto che, per motivi non sempre evidenti, essi non sono mai stati divulgati pur essendo disponibili negli archivi del Ministero. Per gli scopi dell’esercizio che segue non ci soffermiamo però su questi problemi di attendibilità e possiamo tranquillamente assumere che questa problematica sia superata, anche se purtroppo (nei fatti) oggi non lo è (per lo meno a livello nazionale), e definiamo il costo medio come il rapporto tra il valore dei costi e il numero delle prestazioni (e, con il solito gusto della precisione che come epidemiologi ci distingue, aggiungiamo al costo medio l’aggettivo grezzo).

Tutto ciò premesso, dove sta il granchio? Il problema da cui può sgusciar fuori il granchio risiede nel significato che può avere il calcolo grezzo di un costo medio di prestazioni che hanno tra di loro diversissima complessità (e quindi anche costi che sono potenzialmente diversi). Non disponiamo oggi purtroppo di dati analitici di costo che superino l’ambito ristretto di singoli presidi in cui è implementata una contabilità analitica per attività; possiamo però supporre che le tariffe delle prestazioni siano una buona proxy della complessità produttiva di una prestazione. Le tariffe, infatti, dovrebbero (almeno secondo la normativa) basarsi appunto sui costi di produzione, e anche quando non lo fossero dovrebbero grossomodo rappresentarli almeno in modo proporzionale.

Rifacendoci all’unico nomenclatore nazionale, quello del 22 luglio 1996 e considerando i valori relativi delle tariffe in esso contenute osserviamo che le tariffe hanno un valore che va da quasi 1 a oltre 1000: la prestazione specialistica a minor costo è la determinazione del colesterolo LDL quotata 0.67 euro e quella a maggior costo è la tomoscintigrafia globale quotata a 1 071.65 euro. Si osservi che oggi sono entrate nei nomenclatori regionali in vigore prestazioni ancora più care, mentre lo sviluppo tecnologico ha permesso di ridurre ulteriormente i costi di alcune semplici prestazioni: il che ha aumentato ulteriormente la forbice tra le prestazioni di basso costo (bassa complessità) e quelle di costo elevato (alta complessità).

Ci si chiede quindi se abbia senso calcolare un costo medio (grezzo) di prestazioni, alcune delle quali valgono meno di uno mentre altre valgono più di mille (valore 1996 oggi chiaramente inflazionato) senza tenere in qualche modo conto del mix di prestazioni erogate. A questa possibile obiezione viene talvolta risposto che calcolando i costi medi per ASL, o addirittura per regione, le differenze di composizione del mix delle prestazioni non possono essere troppo diverse e quindi il costo medio (grezzo) mantiene un suo significato quando si effettuano dei confronti anche se perde valore in senso assoluto.

Abbiamo per questo cercato di vedere quale è il valore medio delle prestazioni specialistiche di alcune ASL utilizzando per questo i dati della regione Lombardia relativi all’anno 2010.

Nella tabella sotto riportata si evidenzia come i valori medi tariffari (grezzi) per ASL relativi a tutte le prestazioni specialistiche prodotte dai servizi pubblici regionali abbia una variazione che va dal + 13.1% dell’ASL di MI1 Melegnano a –28.7% dell’ASL di Valle Camonica, e un valore medio unitario di 15.31 euro: questi dati si riferiscono alla produzione del 2010. Gli scostamenti delle sottoclassificazioni delle prestazioni specialistiche sono ancora maggiori e arrivano sino a un –38% della ASL della Valle Camonica relativa alle prescrizioni di diagnostica (radiografie, ecografie, tac, risonanza...).

Tabella

Se i costi fossero esattamente proporzionali ai valori tariffari la loro variabilità sarebbe identica a quella presentata in tabella e figura e verrebbe magari erroneamente interpretata come dovuta a fattori di efficienza produttiva. Differenze di costi medi di produzione per intere ASL dell’ordine del 30% sono differenze importanti, che se fossero riportate sull’intero costo della specialistica a livello nazionale equivarrebbero a circa 4 miliardi di euro (se le prestazioni fossero prodotte tutte ai costi minori o ai costi maggiori)! Ciò dimostra lo scarso significato che ha il calcolo dei costi medi grezzi (ecco il granchio): invece che fornire indicazioni valide per il confronto tra aree (regioni, ASL) può indurre a conclusioni distorte e pericolose. Infatti, poiché è probabile che l’efficienza sia maggiore laddove si producono le prestazioni di maggior complessità, viceversa proprio lì si evidenzierebbero dei costi medi più elevati equivocabili come segno di inefficienza.

Scostamenti dal valore regionale

Che fare allora per acchiappare il granchio e riget tarlo in acqua? La prima soluzione potrebbe essere quella di correggere i costi medi grezzi per il rapporto tra il valore medio tariffario dell’area rispetto al valore medio totale, usando la formula:

Un’alternativa migliore, seppur più analitica, sarebbe quella di non considerare il numero di prestazioni bensì il numero di unità prodotte assegnando valore unitario a una prestazione di riferimento (per esempio, pari alla tariffa di una visita generale). Se consideriamo questa situazione, e facciamo riferimento alle tariffe del nomenclatore nazionale del 1996, un conteggio dei leucociti avrebbe valore pari a 0,0475 unità (cioè lire 1 900 / 40 000) mentre una tipizzazione genomica HLADRB ad alta risoluzione corrisponderebbe a 15,0825 unità (cioè lire 603 300 / 40 000). Così facendo il costo medio sarebbe riferibile a quello di una unità convenzionale di assistenza specialistica e non risulterebbe più grossolanamente affetto da distorsioni dovute a differenze di casemix.

Il nostro auspicio ovviamente è quello di non dover osservare troppi granchi invadere le tabelle ministeriali e regionali relative ai costi medi per prestazioni, perché correggere per il casemix non è un optional dovuto agli arzigogoli di qualche epidemiologo troppo innamorato dei suoi metodi, ma è un obbligo per quanti vogliano poi ragionare sui valori assegnando a essi il significato vero di differenziale dei costi di produzione.

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