Rubriche
11/12/2017

Il cervello in un mondo che invecchia

Quando si legge un qualunque articolo scientifico che riguarda le malattie dell’anziano, l’introduzione recita di un progressivo e inevitabile invecchiamento della popolazione umana. Il fenomeno è vero sia per i cosiddetti Paesi sviluppati sia per quelli emergenti e addirittura per quelli in via di sviluppo. Questo fenomeno demografico viene in generale spiegato, con un certo compiacimento, con le migliorate condizioni sociali, igieniche e sanitarie in cui progressivamente nel tempo si è trovata a vivere l’umanità contemporanea. Il fenomeno, però, viene, ancora una volta inevitabilmente, commentato anche nelle sue conseguenze sanitarie e più in generale sociali. I vecchi sono affetti da tumori, malattie vascolari e neurodegenerative, disabilità e sono per lo più improduttivi ed economicamente dipendenti dalle istituzioni e dalla società dei “giovani”. Di qui nasce una reazione di allarme circa la loro sostenibilità economica, che ha giustificato scelte definite spesso come “dolorose” (per esempio, Legge Fornero). Questo allarme è ingigantito dal comune pensiero che il progressivo invecchiamento della popolazione sarà inarrestabile almeno nei prossimi 20-40 anni. L’Istat, per esempio, prevede un aumento lineare nel tempo della popolazione italiana con più di 65 anni, che passerà dal 22% nel 2015 al 33% (limiti di confidenza 31%-35%) nel 2045, con una progressiva lenta diminuzione a partire da quest’ultimo anno di calendario (figura 1).

Queste previsioni sul futuro contribuiscono ulteriormente al clima di allarme-emergenza e hanno fatto parlare addirittura, nel caso della malattia di Alzheimer (la forma più frequente di neurodegenerazione dell’anziano), di epidemia silente. Se tutto si limitasse alla presa d’atto di problematiche emergenti nell’ottica di trovare soluzioni adeguate e percorribili, l’aumentata sensibilità circa l’invecchiamento della popolazione potrebbe essere vista come un comune sentire, potenzialmente capace di innestare processi virtuosi. Purtroppo, però, il clima emergenziale e l’allarme sociale generati dall’invecchiamento della popolazione mi paiono più portatori di atteggiamenti giustificatori dell’insufficiente attenzione che la nostra società e le istituzioni sono in grado oggi di dedicare ai problemi degli anziani. Ma è realmente incontestabile che stiamo assistendo a un processo inarrestabile che porterà a una popolazione con oltre un terzo di ultra65enni tendenzialmente improduttivi e portatori di bisogni sociali e sanitari a cui è difficile dare soluzione? Io credo di no, perché l’invecchiamento della popolazione potrebbe non essere un fenomeno con un progressivo andamento lineare nel tempo. Vi sono, poi, iniziali segnali di un’inversione di tendenza osservati nel 2015, anno in controtendenza, caratterizzato da una riduzione dell’aspettativa di vita.
Se analizziamo le differenze di aspettative di vita negli Stati Uniti tra il 1965 e il 2010, si osserva un consistente invecchiamento della popolazione in accordo con tutti i parametri considerati.1 L’aspettativa di vita alla nascita passa da 70,2 anni nel 1965 a 78,8 anni nel 2010 e da 14,7 anni a 19,3 anni per quanto riguarda l’aspettativa di vita all’età di 65 anni. Ancora più evidente e impressionante è l’aumento della probabilità di sopravvivenza fino agli 85 anni nei sopravvissuti all’età di 65 anni, che quasi raddoppia, passando dal 28,1% al 50,1%. Le previsioni di questi parametri sono, però, drammaticamente ridotte per l’anno 2040, dove l’attesa di vita alla nascita è di 80,5 anni, quella a 65 anni è di 19,6 anni e la probabilità di sopravvivere all’età di 85 anni nei sessantacinquenni è pari al 50,9% (sostanzialmente uguale a quella del 2010). La spiegazione di questo drammatico rallentamento nelle aspettative di vita è probabilmente da ricercarsi nella diversità costituzionale delle coorti di popolazioni sopravvissute fino all’età di 65 anni nei diversi anni di calendario. Si pensi agli ultra65enni sopravvissuti fino a questa età negli anni di calendario fra il 1965 e il 2010: si tratta di generazioni che, in parte, non hanno avuto accesso alle principali vaccinazioni contro malattie infettive gravi, sono sopravvissute alla pandemia influenzale del 1918, non hanno avuto a disposizione la terapia antibiotica (e altri importanti presidi terapeutici e pratiche preventive) per periodi più o meno lunghi della loro vita e, non ultimo, hanno sperimentato almeno una delle guerre mondiali. Volendo sintetizzare è ragionevole pensare che queste coorti generazionali, sopravvissute fino a noi, siano più resilienti ai fattori biologici e non capaci di limitare la sopravvivenza.
I segnali di una maggiore fragilità delle popolazioni presenti rispetto a quelle del nostro passato recente sono in qualche modo supportati dall’aumento del numero di morti osservato in Italia e in altri Paesi nel 1915. Su E&P,2 Cesare Cislaghi, Giuseppe Costa e Aldo Rosano suggeriscono che l’aumento di oltre 40.000 morti del 2015 rispetto al 2014 come dovuto alla maggiore rappresentazione degli ultra-anziani nella popolazione del 2015 rispetto a quella del 2014, a causa degli effetti sulla natalità della Prima e forse della Seconda guerra mondiale. Ciononostante, non possiamo escludere che una progressiva maggiore presenza di elementi meno resilienti negli anziani di oggi rispetto a quelli del nostro recente passato possa aver avuto un ruolo nel fenomeno osservato. Questa affermazione è in qualche modo sostenuta dall’osservazione che l’aumento di morti, e possibilmente anche di mortalità, nel 2015 è stato un fenomeno non solo italiano, ma europeo,3 ed è stato osservato anche negli Stati Uniti, dove gli effetti della prima guerra mondiale sulla struttura della popolazione sono stati con ogni probabilità meno incisivi. A questo proposito, un recente articolo4 riporta che nel 2015 si è osservata negli Stati Uniti una riduzione dell’aspettativa di vita alla nascita rispetto al 2014 di circa 0,175 anni e una riduzione dell’aspettativa di vita dopo i 65 anni di 0,057 anni nei maschi e di 0,136 anni nelle femmine.
Provando a cercare una conclusione, mi sento di affermare che più di un dato indica che la prevalenza delle malattie dell’anziano non è destinata ad aumentare in modo sostanziale nei prossimi anni come conseguenza dell’invecchiare della popolazione. È, quindi, necessario considerare appieno i bisogni degli anziani, rifiutando l’alibi che, se le risposte sono oggi inadeguate, lo sarà in futuro anche un qualunque loro correttivo o enhancement visto che le dimensioni del problema sono destinate a ingigantirsi sempre più fino ad arriva ben oltre i confini della sostenibilità economica.

Bibliografia

  1. Olshansky SJ. Has the Rate of Human Aging Already Been Modified? Cold Spring Harb Perspect Med 2015;5(12):a025965.
  2. Cislaghi C, Costa G, Rosano A. Una strage o solo un dato statistico? Il surplus di decessi nel 2015. Epidemiol Prev 2016;40(1):9-11.
  3. Mølbak K, Espenhain L, Nielsen J et al. Excess mortality among the elderly in European countries, December 2014 to February 2015. Euro Surveill 2015;20(11):21065.
  4. Acciai F, Firebaugh G. Why did life expectancy decline in the United States in 2015? A gender-specific analysis. Soc Sci Med 2017;190:174-80.
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