Rubriche
11/04/2018

Guariniello: una vita al servizio della giustizia

La giustizia non è un sogno Perché ho creduto e credo nella dignità di tutti

Raffaele Guariniello
Milano, Rizzoli, 2017 238 pagine; 19,00 euro

C’è chi guarda con sufficienza a questa sorta di autobiografia professionale di Raffaele Guariniello imputando all’autore di essere troppo “autocentrato”. Altri lamentano la mancanza di approfondimenti nelle pieghe dei singoli processi e delle indagini che li hanno preceduti. La mia impressione è che ambedue queste critiche discendano da una comune, ma errata, aspettativa. Perché questo testo non è né un resoconto – asettico – dei procedimenti giudiziari che hanno costituito la vita professionale di uno dei più noti magistrati italiani, né un vademecum per coloro che vogliano intraprendere in futuro la medesima strada. È innanzitutto l’esplicitazione dei princìpi che il magistrato ha seguito in quasi 50 anni di carriera, «un bilancio personale di quello che ho cercato di fare nella mia vita». Ma soprattutto, è una grande dichiarazione di amore per il suo lavoro e per la giustizia.
Fin dall’inizio, Guariniello opera scelte nette, talvolta controcorrente. A cominciare dalla decisione di entrare in Magistratura, rinunciando alla carriera accademica, per arrivare al suo primo incarico in Pretura, dove entra nel 1969 dopo due anni passati all’Ufficio istruzione del Tribunale di Torino, considerato «il posto ideale per chi sogni di fare questo mestiere», ma che per il giovane magistrato aveva un difetto: lì, dopo aver condotto le indagini e analizzato le prove, alla fine si doveva decidere se utilizzare o meno la “custodia cautelare”. E a lui, «mandare la gente in galera non è mai piaciuto». Per questo sceglie la pretura, «all’epoca considerato il luogo meno nobile della giustizia, dove si trattavano i reati di poco conto».
Ma proprio come pretore riceve la denuncia da cui partirà una delle inchieste più importanti dell’Italia del dopoguerra, quella sulle schedature FIAT. Doveva organizzare una perquisizione «nel palazzo dei palazzi. Non è uno scherzo», scriveva nei suoi appunti dell’epoca, il 1971. Il problema era duplice: individuare i luoghi giusti ed eseguire la perquisizione di sorpresa. Per questo il giovane pretore decide di agire nel periodo delle sue ferie estive, senza nemmeno avvisare i superiori. Quello che troverà sarà sconvolgente: centinaia di faldoni contenenti informazioni dettagliate su dipendenti, politici, sindacalisti, accumulate dal 1949 e raccolte grazie alla “collaborazione” di alcuni poliziotti e carabinieri corrotti con poche lire e del capo torinese del SID (il servizio segreto di allora). Guariniello l’ha “fatta grossa”, gli viene fatto notare da colleghi anziani. E qui si scontra per la prima volta con la difficoltà di tenere saldo il principio costituzionale dell’autonomia della magistratura dal potere politico.
Resta il fatto che proprio quell’inchiesta chiarisce a Guariniello la strada da intraprendere: tentare di incidere sulla società occupandosi delle fasce sociali meno forti, dei diritti nei luoghi di lavoro, della tutela della sicurezza: «tutelare i deboli, proteggerli con leggi che esistono e attendono solo di essere applicate».
Come attendevano di essere applicate da tempo le norme in difesa della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro quando, negli anni Settanta, il magistrato comincia a interessarsi all’amianto e scopre che in nessuna sentenza, dall’Unità d’Italia alla fine degli anni Settanta, si vede affermato il principio giuridico che considera la malattia da esposizione a sostanze tossiche per l’organismo umano un reato grave, fino all’omicidio colposo. «Eravamo pieni di leggi e regolamenti applicabili alle malattie professionali. Soltanto, mancava l’abitudine, forse la voglia, di considerarli per quel che erano».
E non si tratta solo di inerzia da parte delle istituzioni giudiziarie. Ciò che colpisce Guariniello, mentre si documenta sui pericoli dell’amianto, è la totale assenza di denunce. Allora, è lui che procede: individua le aziende della provincia di Torino che lavorano il minerale (una cinquantina) e le fa controllare tutte, andandoci anche di persona (mai prima di allora si era visto un magistrato ispezionare una fabbrica). Anche alla SIA (Società italiana per l’amianto), che verrà processata e condannata nel 1995 per la morte di 32 lavoratori: una sentenza che ancora oggi è un caposaldo della giurisprudenza sull’amianto. Ed è proprio con il caso SIA, nel 1977, che l’allora pretore si scontra per la prima volta con una realtà tuttora attuale: la preoccupazione degli operai per il mantenimento del posto di lavoro. Ma decide di andare avanti comunque. «Non potevo accettare che la gente continuasse ad ammalarsi e a morire, neppure se era consapevole del rischio».
Su queste basi, fatte di rigore, studio, rispetto per le vittime, ma anche per i diritti di indagati e rei, indifferenza ai richiami “di opportunità” e determinazione nell’applicare le leggi che esistono, continua la vita professionale del magistrato: dalle inchieste sull’incendio al cinema Statuto di Torino a quella sul doping in casa Juventus, attraverso il caso Stamina fino a una delle inchieste e dei processi più famosi e discussi degli ultimi decenni, quello all’Eternit di Casale Monferrato, da cui è nato l’Osservatorio sulle malattie professionali, una struttura unica, nata nel 1992, che fa parte della Procura di Torino. «Una gigantesca banca dati che non si limita a catalogare, ma, attraverso una serie di protocolli, approfondisce le situazioni a rischio».
Una cosa Guariniello non ha potuto vedere realizzata: quella Procura nazionale che, radunando competenze ed esperienze maturate in anni di lavoro e studio in un’unica struttura, possa occuparsi con efficienza dei delitti ambientali e sul posto di lavoro.

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