Fibre di vetro: le cavie siamo noi
Prima si chiamava Vitrofil ed era di proprietà della Montedison, oggi si chiama Vetrotex ed è della Saint-Gobain. La fabbrica, che ha sede a Vado Ligure in provincia di Savona, è un raro esempio di riconversione industriale. È stata avviata nel 1976, dopo tre anni di occupazione da parte degli operai dell’ex stabilimento di prodotti chimici APE, e oggi produce fibre di vetro e impiega circa 250 persone. Cambiata la ragione sociale, la Vitrofil ha perso immediatamente quell’immagine di stabilimento pulito e tecnologicamente avanzato che i dirigenti della Montedison avevano propagandato.
Infatti, contemporaneamente all’avvio delle produzioni sono cominciati all’interno della fabbrica i primi problemi di salute: pruriti, arrossamenti, dermatosi, allergie e varie forme di irritazione colpirono decine e decine di lavoratori, ma diversi fattori, che elenchiamo qui di seguito, hanno impedito di valutarne appieno già da subito la pericolosità. Una frequente rotazione tra posti diversi, la temporaneità di alcune forme di queste patologie, una scarsissima conoscenza del prodotto (le fibre di vetro) e delle sue caratteristiche chimiche e fisiche, altri fattori ambientali particolarmente pesanti quali i ritmi e il microclima, il logico momento di rilassamento dopo una lotta durata anni per la difesa del posto di lavoro e, non ultima, l’abitudine di buona parte delle maestranze a lavorare a contatto con prodotti estremamente pericolosi quali cianuri e acidi contribuirono a sottovalutare la questione ambientale che in parte esiste tutt’oggi.
Numerosi lavoratori, soprattutto giovani neoassunti, furono indotti a licenziarsi perché costretti a lunghi periodi di malattia e tanti altri preferirono dedicare i propri sforzi alla ricerca di un’occupazione alternativa piuttosto che impegnarsi in una lotta per il risanamento ambientale.
Nonostante il fatto che il continuo ricambio di addetti facesse somigliare la fabbrica più a un porto di mare che a uno stabilimento; nonostante le prime indagini ambientali effettuate dalle Università di Pavia (1977) e di Genova (1982) già allora mettessero in guardia sui probabili effetti nocivi della fibra di vetro e delle sostanze usate nel ciclo produttivo, per una dozzina d’anni ognuno visse queste patologie (di cui pare abbiano sofferto un po’ quasi tutti gli addetti alla produzione anche se con intensità e forme diverse) come un problema personale, addebitandone le cause di volta in volta all’alimentazione, alla scarsa capacità di sopportazione individuale e, per i più anziani, ai postumi di anni di lavoro tra le sostanze velenose dello stabilimento precedente.
Ciò fino a quando un lavoratore affetto da una seria dermatosi, un polipo alla gola poi asportato e un carcinoma alla laringe che lo costrinse a una laringectomia totale, non si convinse che la natura delle sue gravi patologie potesse avere origine all’interno del processo produttivo e dal contatto con le sostanze tossiconocive presenti all’interno del luogo di lavoro. Coadiuvato da alcuni compagni di lavoro (pochissimi per la verità) iniziò così la lunga trafila di domande di malattia professionale, di riconoscimento di inabilità, di richiesta di appoggio alle strutture sindacali che non ottennero alcun risultato pratico. Non solo l’intervento del sindacato si limitò a una generica domanda di malattia professionale attraverso il patronato INCA, peraltro respinta dall’INAIL che ha negato addirittura l’esistenza della patologia, ma lo stesso Consiglio di fabbrica (CdF) della Vetrotex si rifiutò di appoggiare le richieste del lavoratore di essere inserito in un posto di lavoro più idoneo alle sue condizioni di salute, ritenendo di non avere argomenti contrattuali sufficienti per sostenerlo.
Rimboccarsi le maniche
Verificata quindi sulla propria pelle l’impossibilità di ottenere giustizia e riconoscimento del danno da parte delle strutture pubbliche e dalle organizzazioni sindacali, per nulla rassegnato ad accettare l’idea che, nonostante le condizioni di lavoro così nocive, le sue ragioni potessero essere ignorate, nacque in questo gruppo di lavoratori l’idea di realizzare un’indagine, una raccolta di dati tecnici ed epidemiologici, di periodica e precisa contrapposizione con l’azienda, fino a giungere all’avvio di una causa legale per il riconoscimento del danno biologico subito dal lavoratore in questione.
Ed è stato proprio questo lavoro di analisi e raccolta di dati (ricostruzione del ciclo produttivo, rilevazione delle esposizioni, elenco delle patologie) che ha permesso di mettere in luce quanto il problema della salute fosse esteso, quanti lavoratori in realtà fossero soggetti a malattie simili, e soprattutto il fatto che non si trattava di episodi lievi e marginali ma di disturbi gravi e invalidanti, anche mortali, e che i vari casi di decessi per tumori potessero essere ricondotti al processo produttivo, alle sostanze utilizzate e prodotte e alla mancanza di misure di protezione adeguate a tutelare la salute dei lavoratori. Purtroppo la nostra iniziativa ha messo a nudo un’altra pesante realtà: l’impossibilità di utilizzare le strutture pubbliche per difendere la propria salute e i propri diritti.
Medici universitari che firmano certificati di idoneità per posti di lavoro che non hanno mai visitato (i documenti che dimostrano questa e le successive affermazioni sono agli atti: causa Gamay contro Vitrofil n.12347/93), enti pubblici che modificano i propri giudizi sulla base delle pressioni dell’azienda, specialisti che limitano le proprie analisi a prodotti standard rifiutandosi di prendere in esame quanto scaturito dall’indagine epidemiologica da noi effettuata sono, a nostro parere, esempi eclatanti di come le strutture pubbliche, invece di tutelare la salute dei cittadini, tutelino gli interessi dei padroni. Così come purtroppo è successo con le organizzazioni sindacali e di fabbrica.
Dietro richieste precise di documentazione e di approfondimento di quanto da noi sollevato il CdF si è rifiutato di fornire i risultati di indagini ambientali e altro materiale (per esempio le schede di sicurezza dei prodotti chimici usati in stabilimento ricevute dall’azienda), si è rifiutato di intervenire per imporre alla stessa di trovare al lavoratore una collocazione idonea alle sue condizioni di salute (anche dopo un’ordinanza in tal senso del Pretore del tribunale), ha acconsentito senza intervenire che l’azienda effettuasse delle modifiche all’apparato produttivo in occasione della visite dei periti nominati dal tribunale (pulizie e impianti fermi esclusivamente in quel giorno).
Non solo riconoscimento dei danni subiti
Ma la cosa non ci ha spaventati, e al di là dei risultati legali che potremo ottenere la strada è aperta e l’obiettivo iniziale di ottenere un giusto risarcimento per un lavoratore colpito nella salute si è progressivamente ampliato. Oggi ci muoviamo per dimostrare la pericolosità delle sostanze che utilizziamo e produciamo, per sanare l’ambiente di lavoro e ridurre le emissioni di qualsiasi sostanza nociva, per modificare il processo produttivo rendendolo a misura d’uomo, lottiamo per una migliore qualità della vita, nostra e di coloro che abitano intorno allo stabilimento. Siamo diventati coscienti del pericolo che a sostanze cancerogene quali l’amianto vengano sostituite altre fibre considerate innocue (come le fibre di vetro) solo perché non ne è ancora stata dimostrata la pericolosità, trasformandoci oggettivamente in cavie umane. Inoltre, vorremmo che le indagini che ci riguardano tengano conto anche della molteplicità delle sostanze a cui siamo esposti. Se nella nostra azienda respiriamo frammenti di fibre di vetro misti a frammenti di appretti essiccati, vogliamo sapere che conseguenze ha sulla nostra salute questa mistura nociva senza dover aspettare che si contino i malati.
L’onere della prova dovrebbe essere invertito: prima si dimostra l’innocuità delle sostanze e poi si immettono in circolazione. Se si fa il contrario c’è sempre qualcuno che deve pagare il prezzo dell’acquisizione delle conoscenze che non sono state raccolte prima.
Attualmente la causa per danno biologico del lavoratore che ha dato inizio alle nostre azioni in difesa della salute si è chiusa con un mancato riconoscimento del danno, mentre l’INAIL ha riconosciuto l’esistenza di un nesso causale tra l’esposizione lavorativa e la patologia che lo ha colpito. Altre due cause sono tuttora in corso e si attendono sviluppi a breve.
L’otto per mille per la prevenzione
Consideriamo estremamente positivo il modo di lavoro applicato in questa battaglia, se non altro per i frutti che sta portando sul terreno della consapevolezza e della coscienza: abbiamo imparato a nostre spese a non delegare a nessuno la tutela della nostra salute e dei nostri interessi in generale. Nuovi lavoratori si sono avvicinati portando ognuno il suo caso personale ma contemporaneamente generalizzabile. A ognuno offriamo la nostra collaborazione ma chiediamo un impegno concreto. Oggi ci troviamo ad affrontare la tematica dell’uso dei pesticidi e dei conservanti nei silos dei cereali e degli alimentari in generale, con le nefaste conseguenze sulla salute di chi ci lavora e di chi consuma quei prodotti, così come è tornato all’attenzione il problema dell’amianto e della bonifica in tutti gli impianti dove è stato utilizzato.
Riteniamo però che l’iniziativa non si esaurisca nella difesa di coloro che già sono stati colpiti ma sia necessario agire d’anticipo costruendo una mentalità meno legata al consumismo e alla produzione di beni materiali. Proponiamo pertanto che si percorra l’iter necessario a inserire nella dichiarazione dei redditi, insieme allo stato e alle religioni presenti, anche la ricerca medica e preventiva tra i fruitori dell’8 per mille da scegliere al momento del pagamento delle imposte.