Fare, comunicare, condividere
Convincersi e convincere
Nelle questioni di rischio accade la stessa cosa. Mille volte abbiamo assistito a contrapposizioni anche violente in luoghi dove sono localizzate industrie inquinanti: da una parte chi vi lavora tende a minimizzare danni e pericoli anche in presenza di robuste evidenze scientifiche, dall’altra i residenti si fanno forti di queste stesse evidenze e spesso anche di ipotesi scarsamente difendibili per presentare scenari inquietanti.
In campo pubblicitario l’utilizzo di personaggi popolari come testimonial è appunto un riconoscimento dell’importanza non solo del messaggio, ma anche di chi lo veicola. Tale tecnica è considerata lecita, dato che l’obiettivo di indurre il consumatore ad acquistare un certo prodotto è esplicito e riconoscibile. In altri campi, come quelli del rischio e della salute, le cose sono più complicate.
Accanto all’obiettivo di spiegare (praticamente assente nel caso della pubblicità), ce n’è uno a essa comune, quello di convincere. Convincere ad assumere un certo comportamento o stile di vita, ad abbandonare un’abitudine dannosa, a sottoporsi a un certo esame o cura, ad adottare delle misure precauzionali eccetera.
Nella prima uscita di questa rubrica1 ho sinteticamente riassunto gli sviluppi della comunicazione del rischio negli ultimi 40 anni, evidenziando come molti problemi rimangono irrisolti una volta dissoltasi l’illusione che affinché un messaggio venga accettato sia sufficiente costruirlo con buona tecnica e garantirne la provenienza da fonte scientifica. In particolare, il richiamo a una «informazione oggettiva» caro agli esperti è, oltre che «oggettivamente discutibile», anche inefficace da un punto di vista comunicativo, dato che in materia di ambiente e salute l’oggettività è definita per lo più – né può essere altrimenti – come risultato di ricerche giudicate attendibili e non certo come verità assoluta. Mi sembra migliore l’espressione «informazione completa», perché rimanda a un atteggiamento critico, a una valutazione mirata da parte del ricercatore o dell’operatore, i quali si assumono una responsabilità anche di tipo etico, evitando di trincerarsi dietro una mera trasmissione burocratica di un dato statistico-epidemiologico. Un’informazione completa riconosce l’esistenza dell’incertezza e non cerca di mascherarla.
Comunicazione e programmi di screening
Nel precedente numero di questa rivista, Cogo e Petrella2 hanno descritto con efficacia il percorso di alcuni programmi di screening, puntualizzandone le tappe, dal riconoscimento da parte degli operatori della propria impreparazione nel campo della comunicazione, attraverso l’acquisizione di alcune abilità e consapevolezze, fino al franco riconoscimento dei vincoli del proprio agire comu nicativo, che inevitabilmente si inserisce in un universo più ampio, dove coesistono messaggi differenti, spesso contraddittori e provenienti da molteplici fonti, che si diffondono attraverso vari canali. Se, come riconoscono, la comprensione fra operatori è a volte difficile, ancor più complicato è farsi capire da utenti e pazienti.
Ma da dove si originano queste difficoltà? O perlomeno, da che cosa vengono amplificate? Dal contenuto delle informazioni da fornire (tecniche, difficili, non assolutamente certe) o piuttosto da un atteggiamento che trascura l’altro elemento fondamentale della comunicazione, quello relazionale? Cogo e Petrella, quando trattano di scrittura di protocolli e di campagne di informazione, si concentrano maggiormente sul primo aspetto, ma toccano indirettamente anche il secondo nel momento in cui scrivono: «Nessuno ti insegna come dire a una persona che ha un cancro». Questa affermazione non equivale, mi pare, a una richiesta di un manuale di precise istruzioni, bensì indica il disagio per una carenza, un vuoto nella formazione del personale sanitario, che si ripercuote negativamente sulla sua professione, e non solo nel rapporto con il paziente/utente.
Nuovi test significano migliori medici?
Lo stesso disagio pare emergere oggi negli Stati Uniti, Paese con unamedicina altamente tecnocratica, da cui giunge la notizia3 che è in corso una sostanziale revisione delMCAT (Medical College Admission Test) in cui, a partire dal 2015, si darà spazio a quesiti su scienze umane e temi riguardanti l’etica e le disuguaglianze sociali. Come osserva l’autrice dell’articolo, il MCAT è molto più di un test, in quanto non misura semplicemente delle abilità, ma seleziona il tipo di studente destinato al successo. «Una revisione del test – scrive – altera il materiale umano grezzo che le scuole di medicina ricevono per modellarlo in quelli che saranno i futuri medici della nazione».
Molto si è discusso e si discute sui cambiamenti proposti, e ovviamente nessuno si illude che il possesso di alcune nozioni di scienze sociali, per di più misurate con un test a scelta multipla, sia garanzia sufficiente di una migliore preparazione alla professione medica. Tuttavia la svolta è indicativa, in quanto parte dalla constatazione che all’aumento delle conoscenze sugli ultimi progressi della scienza e della tecnologia medica si accompagna spesso un’insufficiente attenzione dedicata al paziente come persona. Appare dunque sempre più urgente affiancare alla competenza tecnica una capacità di ascolto e di comprensione dei bisogni del singolo.
Si avverte inoltre l’esigenza di una capacità di lettura del contesto sociale in cui questi si articolano e delle risposte che il sistema sanitario nel suo complesso può e deve fornire. È interessante notare che la svolta in corso segna un ripensamento e, in qualche modo, un ritorno. Infatti, come dichiara Darrell G. Kirch, presidente dell’Association of American Medical Colleges (AAMC), nell’articolo citato, dal 1942 al 1976 il MCAT includeva una sezione con domande di cultura generale denominata «Capire la società moderna», poi soppressa nel 1977. E aggiunge che, nel momento in cui varie indagini di opinione mostrano che la gente ha una notevole fiducia nelle conoscenze dei medici, ma ne ha molta meno nelle loro capacità di relazionarsi con i pazienti, si tratta di riconosce che, per essere un buon dottore, è necessario capire le persone, non solo la scienza.
Ricerca clinica: per chi e con chi
Nel campo della ricerca clinica, la Cochrane Collaboration si è fatta da tempo portatrice di simili esigenze. Nata nel 1993, si propone di aiutare i vari soggetti coinvolti nella sanità – decisori politici, medici, pazienti – a operare scelte e prendere decisioni informate e consapevoli a livello individuale e collettivo. Le sue revisioni sistematiche di studi clinici controllati e, in assenza di questi, di altri tipi di evidenza si basano sulla collaborazione fra un gran numero di soggetti con diversi tipi di expertise, la cui azione è riassunta nel motto «We believe in partnership». E come non ricordare ancora una volta, come già altri hanno fatto su questa rivista,4 l’impegno di Alessandro Liberati in questa iniziativa, in particolare il suo ultimo appello5 a ridefinire l’agenda della ricerca nell’interesse dei pazienti. Lucidamente egli riconosce che il mismatch che spesso esiste fra ciò che fanno i ricercatori clinici e ciò di cui i pazienti hanno bisogno non può essere corretto né dagli uni né dagli altri separatamente e che la strategia per delineare una nuova governance della ricerca richiede il coinvolgimento di tutti gli stakeholder a partire da un’analisi critica della situazione esistente.
Bibliografia
- De Marchi B. I rischi della comunicazione. Epidemiol Prev 2010;34 (5-6):87-90.
- Cogo C, Petrella M. Parole diversamente abili. Epidemiol Prev 2012;36 (2):120-5.
- Rosenthal E. Pre-Med’s New Priorities: Heart and Soul and Social Science. New York Times, 2012, April 13.
- Si vedano i seguenti articoli: Chalmers I. Alessandro Liberati: un ricordo personale. Epidemiol Prev 2012; 36(1):4-5. Davoli M. Liberati: un riferimento nazionale e internazionale per l’epidemiologia e la ricerca sanitaria. Epidemiol Prev 2012;36(1):5-6.
- Liberati A. Need to realign patient-orientated and commercial and academic research. Lancet 2011;378 (9805):1777-8.