Bilancio di missione. Aziende sanitarie responsabili si raccontano
La lunga strada dal 1995 a oggi
Nel 1995 veniva introdotto in Italia il sistema di classificazione delle dimissioni ospedaliere per gruppi collegati alla diagnosi i Diagnosis Related Groups (DRG) che, al di là dell’obiettivo dichiarato di costituire la base per il pagamento degli ospedali, hanno immediatamente rappresentato uno strumento per descrivere, valutare e confrontare l’attività di ricovero e il primo tentativo sistematico di superare la semplice contabilità del turn over della “occupazione media” e degli altri indicatori classici del funzionamento dell’ospedale come contenitore indifferenziato di corpi. La classificazione offriva una chiave per misurare le caratteristiche dell’assistenza erogata e avviava il superamento di una contrapposizione, forse artificiosa ma fino ad allora inevitabile, tra quantità e qualità: l’attività svolta da un ospedale diventava raccontabile in quanto descrivibile secondo criteri espliciti, certo approssimativi, ma condivisi.
L’interessante volume pubblicato dal Pensiero Scientifico a cura di Marco Biocca Bilancio di missione. Aziende sanitarie responsabili si raccontano nel presentare l’esperienza di rendicontazione e di autovalutazione delle aziende sanitarie della regione Emilia Romagna è una testimonianza della lunga strada che è stata percorsa dal 1995. La postfazione di Francesco Taroni ci presenta poi una lettura di quell’esperienza e un punto di vista così netto, lucido e ricco di spunti di discussione sul rapporto tra la tecnica e la politica che da solo giustifica l’acquisto del libro.
Molti motivi di interesse
Perché dunque questa raccolta di contributi, quasi tutti elaborati da operatori dell’Agenzia sanitaria e sociale dell’Emilia Romagna, mi è parsa così interessante?
In primo luogo per l'autorevolezza degli autori, provenienti in gran parte dal pensatoio di una delle regioni guida della sanità italiana, in secondo luogo per l’ambizione, dichiarata, di rappresentare un esempio e una guida per gli operatori sanitari, come possibili produttori di informazione e di valutazione, per gli amministratori pubblici, le associazioni e i dirigenti, come destinatari di queste informazioni, e, infine, per quanti siano a vario titolo impegnati nello studio e nell’insegnamento degli strumenti di politica sanitaria e degli strumenti di comunicazione istituzionale.
Sulla base di queste premesse il libro si presta dunque a una triplice lettura:
- come cronaca del percorso di discussione e di elaborazione che ha prodotto il Bilancio di missione,
- come presentazione del Bilancio di missione nel modello che la regione Emilia Romagna ha formalmente disciplinato,
- come analisi metodologica del percorso e del prodotto.
Ma davvero il processo è così fluido?
La ricostruzione storica proposta in modo dettagliato non riesce però a evitare un tono costantemente autocelebrativo e sembra descrivere un processo fluido e lineare sempre contrassegnato dalla condivisione e dal consenso:
«È stato un processo partecipato fin dall’inizio con il diretto coinvolgimento dei Direttori generali (...) l’approvazione del progetto espressa da organismi rappresentatovi delle autonomie locali, la condivisione da parte di tutte le Aziende e della Regione di un solido basamento informativo» (p.32).
«La lettura dei documenti prodotti dalle Aziende USL (...) dà conto della ricchezza e originalità delle dinamiche organizzative e gestionali delle Aziende e della diffusa capacità di innovare negli strumenti di programmazione e controllo, nei percorsi assistenziali, nel ruolo delle professioni nel governo aziendale, eccetera» (p 32).
L’assenza di qualsiasi contrasto rischia però di corrispondere alla mancanza di un punto di vista unitario e di recepire una descrizione della complessità talmente variegata da renderla difficilmente leggibile. Sembra davvero difficile che il Bilancio di missione possa essere così versatile da costituire in modo soddisfacente «uno strumento a supporto dell’azienda nel governo del suo sistema di relazioni:
- con la Regione, per rendere conto del modo in cui declina la sua funzione strumentale nel perseguimento delle finalità di universalismo e di equità del sistema;
- con gli Enti locali, per saldare relazioni di fiducia, ancor prima che per supportarne (sic!) il ruolo di indirizzo e di controllo;
- con i professionisti, stakeholder rispetto al contenuto di informazione/valutazioni/confronto delle scelte che le aziende compiono in tema di valorizzazione delle riorse umane…. O di supporto alla ricerca e innovazione, ma soprattutto attori protagonisti, co-responsabili del profilo dell’Azienda quale si delinea, nella sua unitarietà e peculiarità…
- con le Università, per il ruolo più pregnante che hanno assunto» (pp. 31-32)
Questa tendenza polisemica del Bilancio di missione, nella varietà dei destinatari/utilizzatori e dei linguaggi adottati, più che essere il risultato di un percorso partecipato di sviluppo sembra piuttosto l’esito di una scelta programmatica che dissocia indicatori e narrazione e propone un dualismo tra misura e racconto quasi a intendere che questa sia la strada per parlare ai tecnici e ai “laici” se non si vuole trascurare il fatto che l’autonomia delle aziende si esprime
«nel farsi interpreti congiuntamente delle politiche regionali e delle istanze espresse dalle comunità locali attraverso le relative rappresentanze istituzionali»
E' difficile non vedere in questa affermazione il rischio che il Bilancio di missione diventi una sorta di captatio benevolentiae uno strumento per costruire consenso più che per rendere conto. Come dice uno degli intervistati
«Inutile nascondercelo: fino a quando il Bilancio di missione non lo si userà come comparazione tra le Aziende per cominciare a misurare le performance in termini di maggiore aderenza agli obiettivi di salute, quelli che il sistema regionale si prefigge, questo documento sarà letto e utilizzato da pochi» (p. 156).
Finché, per dirla con altre parole, non si supera il dualismo tra quantità e qualità non si reintegra la narrazione nella valutazione non sarà possibile un confronto e una rendicontazione efficace.
La presentazione delle altre esperienze regionali, esposta in modo molto sintetico nel 3° capitolo, conferma le difficoltà affrontate da tutte le regioni che si sono cimentate con tentativi di valutazione dei propri sistemi di assistenza, da un lato l’opzione riduttiva di indicatori di attività, la cui moltiplicazione invece di rendere più leggibile la complessità la frammenta e la disarticola, dall’altra illustrazioni descrittive che forniscono un senso di indeterminatezza e che sacrificano alla rappresentazione della complessità la capacità di analisi e di confronto. Il Bilancio di missione della Regione Emilia Romagna finisce per essere l’una e l’altra cosa senza riuscire a operare una sintesi efficace tra due modelli e due visioni.
La precarietà metodologica di questo approccio è evidenziata anche dalla sua difficoltà a identificare un criterio verificabile di valutazione della sua efficacia sia in termini di salute sia di impatto organizzativo e la laboriosa elaborazione del Bilancio di missione sembra rivolgersi soprattutto a se stessa, non tanto rendere conto a un referente o a una molteplicità di referenti quanto piuttosto specchiarsi nella propria immagine, non tanto chiave per l’assunzione di responsabilità quanto strumento per coinvolgere i destinatari,
«visti come soggetti nei confronti dei quali l’interlocuzione non si esaurisce nel sottoporsi passivamente a una verifica del proprio operato, ma come soggetti chiamati a partecipare attivamente a quelle politiche per la salute che devono essere sviluppate congiuntamente e sinergicamente con le Aziende sanitarie e che devono trovare quindi, nei contenuti e nelle forme della rendicontazione, gli strumenti che rendano questa partecipazione possibile» (p. 14).
Per dirla con le parole della postfazione:
«L’ambiguità essenziale del progetto di sviluppo del Bilancio di missione sembra derivare principalmente dalla mancanza di una definizione esplicita della natura e della forma delle relazioni che devono intercorrere fra le Aziende sanitarie chiamate a dar conto della loro attività e i due soggetti istituzionali identificati dalla legge come i suoi (esclusivi) destinatari, costituiti dalla Regione e dalle Conferenze territoriali sociali e sanitarie» (p. 195).
Dunque un libro interessante per la ricchezza dei suoi contributi, ma anche e soprattutto per i suoi limiti e per l’evidenza con la quale li palesa. Un libro necessario non tanto come presentazione di un esempio da seguire, ma come autorevole apertura di una discussione sui temi della descrizione della valutazione e della rendicontazione delle politiche di welfare. Temi cruciali per il funzionamento dei Servizi sanitari regionali in una fase di incerto avvio del federalismo e in presenza del rischio costante di un approfondimento delle diseguaglianze che, al di là delle dichiarazioni formali, possono mettere in crisi la logica universalista di un sistema sanitario nazionale.