Lettere
28/12/2011

Ma che cosa è questa epidemiologia?

Le questioni che si presentano come ‘fuori tempo’ – e tale è quella del titolo di questa nota – possono esserlo perché malgrado le risposte siano state trovate da tempo vengono ignorate o perché veramente si tratta di questioni intemporali e perenni. Lascio ai lettori decidere, anche in riferimento alla discussione nelle pagine di E&P sollevata dal recente caso di un concorso universitario, in quale dei due casi ci troviamo e tocco schematicamente sei punti comunque pertinenti alla questione.

(1)    L’epidemiologia non coincide con la metodologia epidemiologica e non si riduce in alcun modo ad essa. La storia dell’epidemiologia sarebbe semplicemente inesistente sul piano della salute delle popolazioni – che è il terreno di indagine definitorio dell’epidemiologia – se questo fosse il caso. L’epidemiologia ha una rilevanza perché ha contribuito e continua a contribuire all’identificazione e quantizzazione di fattori di rischio (o protettivi) ed eziologici delle patologie e a valutare criticamente e quantitativamente l’effetto di misure intese a controllarli ai diversi stadi della transizione dalla piena salute alla malattia conclamata. Sicuramente la metodologia, in cui confluiscono e si articolano le une con le altre le componenti di natura medica, demografica, statistica, sociologica, è l’anima dell’epidemiologia: ma così come nessuno ha mai potuto vedere un’anima staccata dal corpo, la metodologia vive solo nel corpo, che essa ‘anima’, di problemi medici e più in generale di salute.  

(2)    L’epidemiologia è, come ho spiegato anche in un recente volumetto destinato al grande pubblico (Epidemiology. A very short introduction. Oxford: OUP, 2010), la componente diagnostica della sanità pubblica, intesa qui in senso largo, comprensivo di tutte le misure intese a mantenere e migliorare la salute della popolazione. Questa attività diagnostica su salute e malattie nella popolazione si esercita o come l’indispensabile momento diagnostico di un servizio di intervento sanitario oppure a livello di ricerca, in genere collegata all’intervento in modo indiretto e più o meno remoto. Esistono tra questi due ambiti diagnostici delle parziali sovrapposizioni: ad esempio l’indagine epidemiologica condotta in emergenza per far fronte a una patologia respiratoria acuta apparentemente nuova è divenuta senza soluzione di continuità una vera e propria ricerca che ha portato a identificare rapidamente in un virus della famiglia dei corona-virus l’agente eziologico della SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome). Come per tutte le materie scientifiche e tecniche, anche per la diagnostica epidemiologica si è ormai ampiamente attuata una declinazione per ambiti specializzati, individuati talora dalla popolazione studiata (epidemiologia riproduttiva e perinatale, epidemiologia clinica, epidemiologia occupazionale), talora dalla patologia (epidemiologia dei tumori, delle malattie cardiovascolari), talaltra ancora da una tipologia di determinanti (epidemiologia ambientale, epidemiologia sociale).

(3)    La varietà di queste declinazioni specialistiche fa sì che l’epidemiologia (cioè gli epidemiologi) sia largamente distribuita istituzionalmente, dagli istituti accademici di igiene a quelli di medicina del lavoro, dagli istituti e registri tumori ai centri di ricerca cardiologica, agli istituti nazionali e regionali di sanità pubblica, a centri di ricerca epidemiologica. È così non solo in Italia ma in ogni paese, anche se con enfasi diverse da paese a paese. Come mi faceva notare un collega straniero: «Gli epidemiologi non sono una corporazione professionale riconosciuta». Sono sicuramente una professione ma la loro ampiamente differenziata distribuzione istituzionale combinata col fatto che le istituzioni hanno ognuna un diverso ruolo di intervento (non di sola diagnosi) sulla salute impedisce in pratica che il corpo professionale degli epidemiologi pervenga allo statuto sociale di autonoma ‘corporazione’, nel senso positivo di origine medioevale. In effetti nell’ambito della salute un corpo professionale viene percepito e quindi riconosciuto come ‘corporazione’ dalla società essenzialmente in funzione della sua capacità di produrre interventi benefici sulla salute: il cardiologo non si limita a far diagnosi ma cura, o cerca di prevenire e curare, le patologie cardiocircolatorie e i cardiologi sono riconosciuti come una corporazione professionale; un epidemiologo cardiovascolare può, se continua a praticare la clinica, far parte di quella corporazione, ma non di quella degli epidemiologi perché non c’è. In modo simile un altro epidemiologo che operi nel campo specifico degli interventi di prevenzione collettiva potrà far parte della corporazione degli specialisti di sanità pubblica (in senso stretto).  

(4)    Esistono nel settore biomedico due altre professioni essenzialmente di natura solamente diagnostica come l’epidemiologia: la radiologia diagnostica, oggi diagnostica per immagini, e la medicina di laboratorio, per entrambe delle quali i professionisti costituiscono peraltro una corporazione. Ci si può domandare come mai loro sì e noi no: sono più avveduti? Credo che dipenda soprattutto dal fatto che a differenza dell’epidemiologia l’una e l’altra di queste professioni richiedono e al tempo stesso controllano un apparato tecnologico “pesante”, necessitante di forti investimenti e in continua evoluzione. In ultima analisi è quindi l’impatto diretto sulla società, in termini di salute e/o economici, che conferisce a un gruppo con un definito profilo professionale lo statuto concreto di corporazione: con il vantaggio che questo comporta nell’affermare l’indispensabilità del proprio ruolo, nel promuovere filiere di lavoro e carriere, e soprattutto nel sostenere e diffondere i contributi che produce per la salute della collettività (ovviamente questo stesso statuto può comportare derive chiamate per l’appunto ‘corporative’ a favore esclusivo del gruppo).

(5)    Se l’epidemiologia è diagnosi e non intervento, questo essendo il compito primario di altri professionisti, clinici e di sanità pubblica, una epidemiologia pro-attiva e non puramente passiva (‘mi muovo a domanda’) è come una fascio di luce che ruota in continuazione e a trecentosessanta gradi esplorando la salute della popolazione per identificare i problemi prima che qualcuno li segnali o si segnalino da soli. Niente mette meglio in evidenza, in negativo, quanto questo aspetto sia fondamentale per l’epidemiologia del rapporto “World Development Report 1993: Investing in Health“. È il primo rapporto di natura comprensiva sulla salute nel mondo, è più informativo di quanto fino ad allora disponibile e fu preparato per iniziativa e a opera della Banca Mondiale. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) mancò totalmente a questo suo ovvio compito di epidemiologia pro-attiva e a mio modo di vedere quell’evento (malgrado il recupero successivo, dal 1995 tali rapporti annuali sono redatti dall’OMS) è stato il segnale e al tempo stesso un fattore importante della riduzione di prestigio dell’OMS e della ricorrente messa in discussione del suo ruolo di leader nel campo della salute mondiale.

(6)    La funzione pro-attiva dell’epidemiologia ha profonde implicazioni per la sua pratica e pone simultaneamente agli epidemiologi una duplice sfida. Primo non limitarsi ad acquisire i risultati dell’osservazione epidemiologica pro-attiva, ma veicolarli nei processi decisionali nella sfera clinica (valutazione delle evidenze di procedure diagnostiche e terapeutiche) e nella sfera della sanità pubblica condividendo le responsabilità con gli altri partecipanti alle decisioni. Secondo mantenere un’indipendenza di giudizio critico solidamente basato su una rigorosa metodologia, rinunciando al quale si nega il contributo cruciale che l’epidemiologia è in grado e deve portare. Queste due esigenze non si conciliano mai automaticamente, risultano spesso divergenti e non raramente conflittuali, e per essere soddisfatte con coerenza richiedono:

(a) una competenza professionale e una capacità analitica radicata nell’esperienza personale della ricerca epidemiologica;

(b) una disponibilità ad ascoltare seriamente le voci di quanti, in veste di tecnici o semplicemente di cittadini, intervengono nella discussione di un problema di salute: ‘seriamente’ vuol dire senza la condiscendenza di “chi sa” ma anche senza indulgenza verso affermazioni magari ben intenzionate ma campate in aria;  

(c) una determinazione nell’affermare il proprio punto di vista fondata su una chiara e ferma visione della linea rossa che separa le modificazioni, gli adattamenti e i compromessi compatibili (e quindi possibili) da quelli incompatibili con i propri valori etici e politici nei campi della salute, della ricerca scientifica e dell’educazione professionale È in questo spirito e per questo scopo che più di tre decenni or sono abbiamo fondato l’AIE. Ora che l’AIE esamina la proposta di entrare a far parte di una potenzialmente importante “Federazione Italiana per la Salute Pubblica e l’Organizzazione Sanitaria” credo che queste considerazioni siano pertinenti come contributo alla discussione della proposta.

Rodolfo Saracci

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