Lettere
04/08/2014

Le donne più sedentarie degli uomini: pigre o discriminate?

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Riteniamo che su questo argomento sia necessario completare il percorso informativo per evitare una deriva colpevolizzante e per dare valore ai dati pubblicati in termini di possibili azioni correttive. L’ISTAT (dati 2012)1 tiene conto dell’attività sportiva e dell’attività fisica e individua un 39% di sedentari nella popolazione dai 3 anni in su. Le differenze regionali registrano un minimo di sedentarietà nella Provincia autonoma di Bolzano (14,2%) contro un massimo in Campania (57,3%). L’ISTAT fornisce il confronto tra maschi e femmine in termini di percentuale di persone che praticano attività sportiva: 37,7% dei maschi vs. 24,9% delle femmine. Inoltre, in un’indagine del 2011 condotta in collaborazione con il CONI2 rileva un miglioramento nella “femminilizzazione” dello sport (71 donne ogni 100 uomini nel 2010 vs. 61 ogni 100 uomini nel 2005).

La sorveglianza PASSI (dati 2009-2012)3 tiene conto anche dell’attività lavorativa pesante e individua un 31% di sedentari tra le persone di 18-69 anni. Le differenze regionali seguono un andamento simile a quello descritto dall’ISTAT: un minimo di sedentarietà in Provincia autonoma di Bolzano (8,8%) contro un massimo in Basilicata (53,7%). PASSI permette, infine, tramite un’analisi multivariata, di confrontare maschi e femmine in termini di sedentarietà (29% vs. 33%), differenza significativa che tiene conto di altri probabili fattori di rischio (età, istruzione, difficoltà economiche percepite) che hanno un peso più rilevante del genere.
Altri dati PASSI4 segnalano, infine, che la sedentarietà è l’unico fattore di rischio comportamentale che vede in svantaggio le femmine rispetto ai maschi.
Si tratta, quindi, di dati coerenti e importanti, che rischiano di restare inutilizzati o – peggio – letti come una carenza di attenzione del genere femminile rispetto a questo fattore di rischio. In tal caso le ipotesi interpretative provengono da campi di studio diversi dalle scienze biomediche. Si parla di stili educativi che, per quanto mutati, vedrebbero ancora un maggiore investimento sui maschi perché partecipino ad attività agonistiche; si accenna al diverso utilizzo del tempo libero dal lavoro, che vede in genere le donne più impegnate nella cura della casa e dei familiari. Altre ipotesi riguardano il possibile ruolo di pregiudizi contro l’attività fisica in gravidanza, in menopausa e nell’età avanzata. Un’analisi più dettagliata dei dati disponibili potrebbe orientare ricerche future.
Inoltre sarebbe opportuno il coinvolgimento di ricercatori afferenti ad altre discipline per indagare sia le differenze di genere sia quelle regionali, alla luce di fenomeni storico-sociali probabilmente complessi. Questo potrebbe essere d’aiuto per orientare azioni correttive non volontaristiche.
Qualunque siano, però, i fattori che ostacolano uno stile di vita più attivo, bisogna riconoscere che le donne costituiscono un gruppo a rischio di sedentarietà, al quale gli operatori sanitari e i soggetti capaci di orientare le politiche per la salute dovrebbero dedicare un’attenzione particolare.

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