Interventi
12/12/2025

La comunicazione nell’ambito dell’approccio one health

Introduzione

Questo contributo intende illustrare lo sviluppo storico del concetto di one health e le sue varie definizioni, nonché il ruolo che fin dall’inizio ha avuto la comunicazione e le potenzialità che questa riesce ad attivare. In particolare, si analizza l’apertura alla partecipazione del pubblico dei non esperti e l’importanza di costruire una governance condivisa, fornendo alcuni esempi relativi alle aree ad alto rischio ambientale in Italia. Vengono usati come esempio il progetto “Centro internazionale di studi avanzati su ambiente, ecosistema e salute umana” (CISAS-CNR) e il progetto “One Health Citizen Science” (OHCS).

Storia e definizioni di one health

L’approccio one health allarga la prospettiva sulla salute, connettendo strettamente le persone all’ecosistema e a tutti i viventi. L’idea che il benessere di un individuo sia direttamente collegato a quello della terra nella sua completezza ha una lunga tradizione nelle società indigene nelle più diverse parti del mondo e si colloca alla base di visioni del mondo diverse da quella occidentale diventata dominante.1
Nel corso degli anni Duemila, il concetto di one health è stato adottato e adattato e si presenta oggi come un concetto ombrello: accogliente e ambizioso, perché mobilita conoscenze, competenze e abilità diverse; protegge perché facilita il dialogo tra esperti di settori diversi; è proiettato verso il futuro, perché apre la strada a nuovi interrogativi e domande di ricerca inconsuete. Per questo, è opportuno ripercorrerne la storia recente e i principi fondanti.2
Il termine one health è stato utilizzato per la prima volta nel 2004 in occasione della conferenza One World, One Health: Building Interdisciplinary Bridges to Health in a Globalized World organizzata dalla Wildlife Conservation Society (WCS) a New York. In quell’occasione, WCS protesse il nome One World, One Health con copyright e, da allora, ci si limitò a usare one health: le prime istituzioni ad adottare questo approccio sono state la American Medical Association (AMA) e la American Veterinary Medical Association (AMVA) che hanno promosso la creazione della One Health Commission (OHC), divenuta effettiva nel 2009. L’OHC è tuttora attiva e mira a promuovere la salute e il benessere di esseri umani, animali e piante, nonché la resilienza ambientale attraverso un impegno globale e collaborativo. 
Parallelamente alle iniziative americane, dal 2008 circa la World Organization for Animal Health (WOHA), la Food and Agriculture Organization (FAO) e la World Health Organization (WHO) hanno adottato il termine one health per discutere dei rischi legati alle zoonosi e alle malattie ad alto impatto, mentre nel 2021 si è unito il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), quando si è deciso di condividere e approvare la definizione del nuovo approccio e lanciato nel 2022 il programma “One Health Joint Plan of Action” (2022-2026).3,4
La salute umana è correlata a quella animale e del pianeta, a livello micro e macro, a partire dagli equilibri del microbioma interno e a quello esterno, che sono collegati a uso del suolo, piante, alimentazione, tipo di coltivazione, apporto di inquinanti. A partire dall’analisi di problemi emergenti di salute, quali nuove infezioni o agenti patogeni, l’approccio one health fornisce un contesto in cui comprendere e affrontare le minacce più pressanti per le società, tra cui la resistenza antimicrobica, l’insicurezza alimentare e nutrizionale e il cambiamento climatico. La stessa comprensione delle cause e delle possibilità di intervento richiedono una prospettiva ecologica più ampia di quella usuale. 
Dopo la diffusione della SARS (severe acute respiratory syndrome) nel 2002-2004, dell’influenza suina causata dal virus H1N1 nel 2009-2010, della MERS (Middle East respiratory syndrome) nel 2012, one health si è rivelato non più solo un semplice concetto, ma un modo di guardare alla realtà e una prospettiva per affrontare i problemi che toccano diverse discipline, che potevano essere risolti solo lavorando in questa prospettiva. Ripercorrendo la storia e la letteratura su one health, è innegabile che si tratti di una sfida che ha prodotto innovazioni significative nel mondo scientifico e opportunità di trasferimento delle evidenze nelle politiche a diversi livelli di governance. La strategia one health è riconosciuta, infatti, dal Ministero della Salute italiano, dalla Commissione europea e dalle organizzazioni internazionali quale chiave operativa per i settori in cui si realizzano collaborazioni tra diverse discipline. Nel Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025 del Ministero della Salute, one health viene presentata come chiave per affrontare una varietà di problematiche, inclusi i cambiamenti climatici, la biodiversità, la produzione agricola e animale, gli sprechi alimentari.5
Ciò è particolarmente importante oggi, quando sembra possibile iniziare finalmente a prendere le distanze dalla pandemia provocata dal COVID-19 che ha lasciato segni indelebili su individui e comunità; le amministrazioni ai diversi livelli devono agire in modo strategico, consolidando le conoscenze e le lezioni apprese e proseguendo con sempre maggiore incisività nel campo della prevenzione.6

Il progetto CISAS

Un esempio positivo di studio che mette in pratica il metodo one health è quello del progetto “Centro internazionale di studi avanzati su ambiente, ecosistema e salute umana” (CISAS) realizzato in tre siti di interesse nazionale per le bonifiche (SIN) – Crotone, Priolo e Milazzo – dal 2016 al 2021. I promotori sono stati 4 istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che hanno esteso la collaborazione ad altri istituti, 6 dipartimenti universitari, agenzie per l’ambiente, l’Istituto Superiore di Sanità e Ispra, enti locali e associazioni sul territorio, finanziati dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Nel complesso, CISAS conta 65 pubblicazioni scientifiche dal 2017 al 2020 e 4 libri usciti tra il 2021 e il 2022 pubblicati dall’editore ETS di Pisa in italiano, in modo da consentire una più facile diffusione e conoscenza del lavoro anche in Italia.7,8 I ricercatori mobilitati sono stati 150, con un ampio ventaglio di competenze, che hanno permesso di lavorare alle interfacce dei sistemi ambientale, sanitario e animale. Dove non specificato con ulteriori bibliografie, i temi illustrati si trovano trattati in capitoli specifici del libro Ambiente e salute nei siti contaminati.8 
È stato studiato il contesto socioeconomico e sono state approfondite le possibilità di applicare la bioeconomia circolare mentre si bonificano i territori, nel settore agricolo, forestale e di acquacultura, assieme a un’analisi degli approcci conservativi o di ripristino per il recupero dei siti marino-costieri (i tre SIN inclusi nel progetto di ricerca). In mare, sono stati fatti prelievi di acqua per poi sperimentare l’impatto degli inquinanti presenti su ricci, Zebrafish, mitili e pesci, osservando le modifiche nello sviluppo, nella riproduzione e nella replicazione del DNA; inoltre, sono stati osservati gli effetti immunotossici con test in vitro e in vivo. 
Sono state analizzate le conseguenze dell’inquinamento sulla vita marina, in termini sia di numerosità delle popolazioni ittiche sia del contenuto di prodotti chimici tossici per i consumatori, la presenza di contaminanti in latte e carne allevati nella zona, lo stato dei sedimenti, lo stato della biodiversità e le possibili conseguenze dell’esposizione agli inquinanti.
È stata esaminata la qualità dell’aria assieme alle conoscenze meteorologiche per la costruzione di modelli di diffusione e la valutazione dell’impatto degli inquinanti atmosferici sulla salute umana, con approfondimenti, per esempio, sugli effetti degli eteri di difenile polibromurati (PBDE). 
Sono stati sperimentati modelli matematici e piattaforme informatiche a supporto della ricerca ambientale e messo a punto uno strumento innovativo per l’esplorazione del microbioma intestinale.
Dal punto di vista epidemiologico, sono stati analizzati i principali fattori di rischio, le esposizioni, le popolazioni vulnerabili, assieme ai costi economici e sociali: il biomonitaraggio umano è stato pianificato per i tre SIN, specificando gli inquinanti da analizzare sulla base delle conoscenze ambientali ed epidemiologiche, le aree da selezionare e quelle di riferimento. Le circostanze sfavorevoli provocate dalla pandemia di COVID-19 hanno impedito la realizzazione degli studi sul campo, ma la pianificazione fatta ha creato una forte base di conoscenze che possono essere applicate per i prossimi studi. Nonostante ciò, il lavoro su modelli di diffusione e di esposizione e le conoscenze epidemiologiche consentono di lavorare in modo positivo per l’identificazione e l’isolamento dei fattori di rischio, in modo diverso nelle aree con produzioni attive (Priolo e Milazzo) e Crotone, dove l’inquinamento deriva dalla mancata realizzazione delle bonifiche dopo la chiusura degli impianti chimici.
È stato, invece, possibile dar vita a ben 3 coorti di nuovi nati tramite lo studio Neonatal Environment and Health Outcomes (NEHO), che ha visto coinvolte in tre anni ben 800 coppie madre-bambino che continuano a essere seguite e costituiscono l’unica coorte del Sud Europa, coordinata alle altre attive in questo periodo. Esse costituiscono un potente strumento epidemiologico per la valutazione di impatto sulla salute. Uno degli studi effettuati sui campioni biologici raccolti aveva lo scopo di valutare i modelli di distribuzione di mercurio, esaclorobenzene e policlorobifenili nel siero di 161 donne in gravidanza reclutate e residenti sia all’interno sia all’esterno del SIN di Priolo. Sono state determinate le macrocategorie alimentari; i livelli sierici di contaminanti sono stati utilizzati per eseguire l’analisi dei cluster tramite l’algoritmo k-means, identificando il ruolo degli alimenti nel trasferimento di inquinanti dall’ambiente. Sono stati distinti due gruppi di madri con livelli alti e bassi di inquinanti misurati. Le concentrazioni nelle madri del gruppo ad alta esposizione erano almeno due volte superiori per tutti gli inquinanti valutati e comprendevano madri che vivevano sia all’interno sia all’esterno del SIN, con una predominanza di individui residenti all’interno del SIN. Il consumo di pesce era più elevato nel gruppo ad alta esposizione. Questi risultati suggeriscono un legame tra la contaminazione di matrici ambientali, come i sedimenti e l’esposizione materna, attraverso l’assunzione di alimenti locali, elemento poco indagato nel contesto dei siti contaminati.9 
Con i ricercatori, i medici e le mamme della coorte, è stato sviluppato un lavoro di comunicazione del rischio, in particolare per tenerli informati degli sviluppi e dei risultati. In questo caso, la fase pandemica ha facilitato il lavoro, che si è svolto online, mentre i contatti diretti e telefonici sono stati mantenuti da pochi ricercatori e ricercatrici sul campo. Molte mamme, infatti, non avrebbero partecipato a incontri di persona e alcune di loro hanno chiesto di non comparire né con il nome né con il proprio viso, sentendosi così più tutelate e protette.10 Il lavoro di coinvolgimento e comunicazione del rischio si è sviluppato ampiamente grazie alle istituzioni locali: le amministrazioni comunali e le autorità giudiziarie (carabinieri e marina militare), le associazioni attive nei territori e le scuole, dove si sono realizzate assemblee, campagne informative e un concorso di disegni e fotografie per le scuole elementari, medie e superiori.11 Sui temi di comunicazione del rischio, partecipazione e citizen science, è stata realizzata un’attività di formazione online, i cui contenuti sono stati raccolti nel volume Comunicare ambiente e salute. Aree inquinate e cambiamenti climatici in tempi di pandemia.12 
Infine, si è svolta un’esperienza di citizen science con il supporto di Arpa Sicilia, in cui i cittadini dell’area vasta di Priolo, che include Siracusa, sono stati mobilitati per la segnalazione di maleodoranze, fungendo da sentinelle di allarme che consentivano di rispondere tempestivamente ed effettuare indagini mirate sulla qualità dell’aria per eventuali fughe di composti chimici pericolosi per la salute.13 

Comunicazione

Il tema della comunicazione rivela numerose opportunità e alcune criticità insite nel principio one health e nelle applicazioni pratiche della teoria transdisciplinare. 
È suggestivo esaminare i fondamenti di one health, i Manhattan Principles adottati nel 2004 durante il citato convegno della Wildlife Conservation Society, per reperire un insieme comune di principi ispiratori. Si tratta di 12 raccomandazioni elaborate «per stabilire un approccio più olistico alla prevenzione delle malattie epidemiche/epizootiche e per mantenere l’integrità dell’ecosistema a beneficio degli esseri umani, dei loro animali domestici e della biodiversità di base che ci sostiene tutti», come si specifica nella presentazione.14 Il metodo invocato è quello interdisciplinare, che costituisce il tessuto costitutivo di one health.15 Quattro delle 12 raccomandazioni sottolineano l’importanza della condivisione delle informazioni e dei percorsi comunicativi, intesi nella loro accezione di scambio attivo, che produce consapevolezza, accresce l’autodeterminazione (agency) e si sviluppa nel rispetto delle diverse capacità di comprensione, considerando il divario di potere esistente tra chi possiede la conoscenza e ha avuto il tempo e l’opportunità di elaborarla e chi la utilizza per apprendere, migliorare la propria condizione e contribuire agli obiettivi di miglioramento della società. Nell’ambito degli «investimenti nell’infrastruttura globale per la salute umana e animale», si ritiene fondamentale una «tempestiva condivisione delle informazioni» e si specifica che essa «[debba tenere] conto delle barriere linguistiche», citando le diverse parti interessate che potrebbero essere coinvolte. Questo tipo di osservazioni non è affatto usuale nei documenti ufficiali e testimonia un’accurata considerazione della questione, oltre che una concezione etica della comunicazione. Il rispetto per l’uditorio e la disponibilità a farsi comprendere appieno sono, infatti, tra i requisiti fondamentali, che non vengono affermati generalmente in modo così esplicito, in quanto racchiudono in sé questioni di potere e del suo utilizzo nelle relazioni.16 
Poi troviamo un riferimento alle «reti che consentono di scambiare informazioni sulle malattie con le comunità che lavorano in salute pubblica e sulla salute degli animali». Negli ultimi anni, in particolare in occasione della pandemia di COVID-19, si è avuta esperienza dell’importanza, ai fini dell’assunzione di decisioni in materia di salute pubblica, di una serie di forum gestiti da diversi attori, esperti o meno. Le reti tematiche sono una vera e propria sfida: possono essere un’opportunità quando promuovono il dialogo e lo scambio sulla base di contenuti scientifici, mentre possono essere una fonte di distrazione, rumore di fondo o addirittura di disturbo se sono costruite a scopo di disinformare.
Un esempio di rete tematica attiva che ha generato riflessione e moltiplicato progetti viene proprio dall’ambito italiano: la Rete italiana ambiente-salute (RIAS, prima Epiambnet), che vede riunite istituzioni diverse attive sull’epidemiologia ambientale, consente di collegare ricercatori di diversi ambiti e aumentare le possibilità di collaborazione.17
L’ultima raccomandazione è «investire nell’educazione, nella sensibilizzazione della popolazione mondiale e nell’influenzare il processo politico». Al centro delle preoccupazioni, si trova di nuovo la questione dell’informazione accurata che crea consapevolezza. Anche qui, viene riconosciuta l’importanza dell’opinione dei non esperti nella fase in cui si prendono decisioni, un nodo sempre più spesso affrontato da diversi strumenti che promuovono lo scambio e la co-creazione. Ne sono un ottimo esempio le azioni prodotte nell’ambito dei progetti finanziati dal Ministero della Salute con il PNNR che riguardano i SIN, che tra i requisiti vedono la partecipazione pubblica, funzionale all’identificazione e alla mitigazione delle disuguaglianze.18 
Nel descrivere l’approccio one health, i Center for Disease Control and Prevention (CDC) statunitensi mettono al centro e sullo stesso piano la comunicazione, la collaborazione e il coordinamento come motori delle azioni. La descrizione recita: «Nessuna persona, organizzazione o settore può affrontare da sola le questioni relative all’interfaccia animale-persona-ambiente».19 Questa definizione affronta diverse questioni specifiche. Innanzitutto, il tema del lavoro, che deve essere svolto non tanto all’interno delle discipline e dei settori, ma all’interfaccia: l’attenzione deve essere rivolta alle fasi di scambio e contatto, in cui discipline diverse devono trovare strumenti e linguaggi comuni per comprendersi. Poi, afferma che non è possibile lavorare da soli, ma come concerto di comunità diverse che interagiscono: non solo comunità scientifiche con competenze diverse, ma con il coinvolgimento di amministratori e organi di controllo, produttori, lavoratori e aziende, assieme ad associazioni di cittadini con interessi diversi nell’intera filiera (salute, ambiente, protezione degli animali, consumo, diritti). Anche se non esplicitata nei testi, la dimensione spaziale emerge notando che le questioni sono localizzate, ma hanno ripercussioni che arrivano fino alla dimensione globale. Infine, la dimensione temporale è implicita nella complessità, nelle interazioni e nella necessità di prestare attenzione a proporre soluzioni a lungo termine per il miglioramento e la consapevolezza.
Se si considerano le raccomandazioni dei Manhattan Principles e la descrizione del CDC, dal punto di vista della scienza ambientale esse abbracciano pienamente i principi delle valutazioni d’impatto, in particolare gli approcci previsionali, riconoscendo che non è sufficiente effettuare monitoraggi e rilevamenti in modo costante, ma bisogna orientare il sistema per elaborare previsioni e scenari e sulla base dei quali prendere decisioni.20

Partecipazione del pubblico

La partecipazione è richiamata con sempre maggiore intensità nelle programmazioni che si sono succedute nel corso degli anni Duemila, sia a livello europeo sia internazionale. 
Ziman sostiene che la ricerca scientifica può essere descritta sul piano epistemico come un tavolo a tre gambe: il rigore del metodo scientifico, la comunicazione scientifica e il mondo degli attori sociali interagiscono in un continuum; le loro relazioni devono essere governate sul piano degli interessi, anche finanziari, che possono pesare nell’influenzare la direzione della ricerca e degli interventi.21 La cittadinanza scientifica si relaziona con la ricerca, portando competenze e richieste dettagliate, chiedendo di poter fornire elementi concreti e di avere voce in capitolo, come ci ha insegnato Pietro Greco.22
La richiesta di sviluppare esperienze di citizen science realmente inclusive offre l’opportunità di identificare problemi e criticità; per esempio, la pretesa da parte dei ricercatori di lavorare in «comunità di pari allargata», come se i cittadini, una volta chiamati in causa, fossero in grado di comprendere ogni dettaglio delle informazioni scientifiche trasmesse e prendere decisioni. Nei percorsi di coinvolgimento, il potere della conoscenza scientifica e il suo utilizzo vanno analizzati sia come risorsa sia come problema e affrontate in tutte le loro implicazioni.23 I cittadini sono, infatti, portatori di conoscenze diverse e aggiuntive, che vanno incluse e rese operative.

Governance del rischio

Gli elementi analizzati finora portano a definire meglio la disciplina necessaria per comunicare in un contesto di one health, ovvero la comunicazione del rischio, chiaramente identificata da Balduzzi e Favretto quando posizionano l’approccio one health come parte integrante della società del rischio come veniva intesa da Beck.2
La comunicazione del rischio è una disciplina dalla storia complessa e articolata, che si è evoluta nel tempo e ha subito profondi cambiamenti, in particolare nel rapporto tra istituzioni, esperti e attori sociali, procedendo costantemente in direzione di un sempre maggiore allargamento della platea dei partecipanti, con diversi ruoli e responsabilità. Quando il rischio è l’argomento principale di discussione, in particolare, è necessario considerare le diverse interpretazioni che esistono sia all’interno sia all’esterno della sfera scientifica, dove assume rilievo la consapevolezza delle possibili percezioni riguardo al rischio.23-25
Con l’evoluzione delle teorie e delle pratiche, diventa chiaro che la comunicazione del rischio non può essere un banale esercizio di pubbliche relazioni o relegata alla fase finale della gestione del rischio.26 Studiosi provenienti da diverse prospettive disciplinari (sociologia, scienze politiche, psicologia, antropologia, filosofia) sottolineano la necessità di considerare la comunicazione come un elemento costitutivo nel complesso quadro della governance del rischio, che deve accompagnare tutte le fasi con strumenti adeguati, e mettono in luce il valore della partecipazione come strumento di democrazia deliberativa per rappresentare le diverse istanze e costruire un dialogo permanente.27
Diverse proposte, anche a livello europeo, convergono sulla necessità che le istituzioni dispongano di personale specializzato, una figura di facilitatore che è stata definita come knowledge broker, in grado di “piazzare” la giusta conoscenza a chi ne ha bisogno nel modo più adeguato alle sue esigenze.28
La partecipazione pubblica che si sviluppa come strumento di governance può assumere forme diverse e dialogare con la politica.29 Una delle sfide è comprendere il divario tra la governance formale e ciò che effettivamente accade nella pratica, dove si verificano infinite complicazioni, appaiono ostacoli che sembrano imprevisti e le responsabilità sfuggono o si confondono in una spirale di ritardi.
In questo periodo, in Italia sono in corso di attuazione diversi progetti nel contesto della Next Generation EU. Tra gli altri, il Ministero della Salute sta finanziando progetti che mirano a rafforzare la capacità, l’efficacia, la resilienza e l’equità del Paese nell’affrontare efficacemente i rischi sanitari storici ed emergenti dei cambiamenti ambientali e climatici. Il quadro istituzionale è una cabina di regia che include il Sistema Nazionale di Prevenzione Sanitaria (SNPS) e il Sistema Nazionale di Protezione Ambientale (SNPA) con gli istituti zooprofilattici sperimentali (IZS).6
Tra gli altri, il progetto “One Health Citizen Science” in aree ad alta pressione ambientale (OHCS)30 si propone di definire un modello di intervento integrato per caratterizzare lo stato della qualità ambientale, valutare l’esposizione della popolazione a specifici inquinanti, indagare l’associazione tra fattori di rischio ambientale ed esiti di salute, misurare gli impatti associati alla contaminazione e gli scenari di bonifica attraverso l’attivazione di percorsi partecipativi e strategie di comunicazione del rischio.
L’esperienza pratica si svolge in cinque SIN, due aree inquinate e due Regioni con i loro piani di gestione dei rifiuti. Nel corso del progetto, vengono effettuati biomonitoraggi della popolazione residente, analisi ambientali e indagini sulla salute degli alimenti e degli animali. Gli attuatori del progetto OHCS sono funzionari di istituzioni pubbliche e ricercatori che, nel corso del loro lavoro, coinvolgono altre istituzioni e numerosi attori sociali. La proposta di progetto indica chiaramente che le procedure di sorveglianza epidemiologica coinvolgono attivamente le comunità, dalla condivisione degli obiettivi alla conduzione delle attività e all’interpretazione dei risultati. In questo contesto, le attività di comunicazione in generale e di comunicazione del rischio nello specifico vengono strutturate e verificate in modo iterativo, come indicato nel modello di governance dell’International Risk Governance Council.31,32 
Mentre si svolgono le azioni di monitoraggio ambientale e biomonitoraggio umano, si lavora sulla strategia e sugli approfondimenti locali. Oltre alle indicazioni metodologiche sulla comunicazione del rischio, si stanno sviluppando attività di coinvolgimento degli attori sociali e di epidemiologia partecipata, in particolare in aree dove il lavoro degli epidemiologi ambientali ha una lunga esperienza e relazioni locali consolidate.33,34 Per ciascuno dei siti inquinati, si raccolgono informazioni sullo stato socioeconomico, sulla governance, sulla percezione del rischio, sulla conoscenza e sulla fiducia, con appositi questionari e indagini locali.30
Le problematiche affrontate nelle aree di interesse sono quelle tipiche di ambiente e salute e si articolano in modo più ampio adottando la prospettiva one health.35 Si tratta di luoghi fortemente inquinati per l’esistenza di impianti attivi, come Porto Marghera, o dismessi, come nell’area Caffaro Tor Viscosa; ci sono comunità di dimensioni diverse con storie che hanno visto conflitti, battaglie per l’occupazione e la salute, cambiamenti della struttura produttiva, dove diventa essenziale conoscere l’impatto attuale dell’inquinamento su acqua, suoli, allevamenti, persone. Nelle aree nominate sopra, si stanno realizzando prelievi per indagare l’esposizione a inquinanti tramite biomonitoraggio umano; sarà cruciale, una volta raccolti i risultati, discuterne l’interpretazione e l’utilizzo con i diretti interessati. In questi contesti, si lavora con cura all’identificazione delle fasce di popolazione maggiormente vulnerabili, per un’informazione rispettosa dell’integrità delle persone che non crei ansia, ma che, anzi, possa potenziare le capacità di autonomia e azione. 
Il recente rapporto di Legambiente Ecogiustizia subito, nel nome del popolo inquinato raccoglie una descrizione approfondita di diversi SIN, ma soprattutto amplia l’analisi a partire da ambiente e salute per allargarsi agli aspetti sociali, alla giustizia, all’equità.36
Nelle aree fortemente inquinate del nostro Paese si manifestano in modo più acuto una serie di fenomeni che si aggregano fino a diventare “luoghi densi” in cui, per riprendere il ragionamento sviluppato da Elena Gagliasso, filosofa della scienza, si possono scorgere i segni di vecchie e nuove iniquità, dove sono in gestazione nuove forme di pensiero, modi di stare al mondo e diversi criteri di produzione e accumulazione, cioè il passaggio dalla transizione ecologica alla conversione ecologica. «Nella transizione ecologica – volenti o nolenti – ci siamo già, perché il cambiamento climatico e il mutamento dell’ecosistema avanzano verso un nuovo stato in gran parte indefinito; con “conversione”, invece, si fa riferimento a un necessario cambiamento di episteme, a una sorta di trasformazione antropologica indispensabile perché la stessa transizione sia sostenibile e abbia un esito positivo».37

Conclusioni

La definizione di “zone di sacrificio” da parte del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, che nel suo rapporto del 2022 include l’area di Taranto, è di «aree estremamente contaminate dove i gruppi vulnerabili ed emarginati sopportano un peso sproporzionato delle conseguenze sulla salute, e l’intossicazione cronica impatta sui diritti umani»: questa chiave di interpretazione consente di ampliare lo sguardo sulle implicazioni a lungo termine e sulle responsabilità della società nel suo insieme.38 
Nel progetto OHCS, le comunità sono coinvolte nella definizione delle priorità di intervento per strutture sanitarie, agenzie ambientali, di controllo della sanità animale e degli alimenti. Vengono valorizzate le attività e le proposte che vanno nella stessa direzione e alimentano la citizen science, come il monitoraggio della qualità dell’aria, l’inclusione della disabilità, la formazione e la disseminazione di conoscenze con metodi vari, tipo interviste, concerti, concorsi per disegnatori, registi o musicisti. Si coinvolgono gli amministratori locali per identificare le innovazioni istituzionali che possono dare continuità alle azioni di miglioramento della salute e si prova a individuare metodologie integrate tra salute e monitoraggio ambientale che garantiscano una protezione più attenta e accurata nelle aree inquinate. Quello che finora si è potuto constatare – per esempio nelle esperienze maturate nel Sulcis Iglesiente, con il coordinamento dell’Università di Cagliari – è che, quando si coinvolgono e si lavora assieme ad associazioni locali e cittadini interessati, si riesce a fare un salto di qualità e l’impatto del lavoro si moltiplica, assieme alla reciproca formazione, alla consapevolezza e alla diffusione dei risultati. Sembra possibile aumentare la fiducia e la possibilità di programmare azioni di prevenzione secondaria e controllo ambientale nelle are fortemente inquinate. La sfida resta quella di incidere sulle azioni in materia di bonifica per un miglioramento a lungo termine delle condizioni dei territori e delle comunità. 

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.

Bibliografia

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