Editoriali
26/11/2012

Valutazione degli eventi avversi: uno strumento per migliorare le condizioni di ricovero negli ospedali italiani

Con l’articolo di Riccardo Tartaglia e dei suoi collaboratori, pubblicato su questo numero di Epidemiologia& Prevenzione,1 la valutazione degli eventi avversi durante i ricoveri ospedalieri esce definitivamente dalla fase prolungata delle approssimazioni impressionistiche e della discussione, spesso generica, sul rischio clinico per acquisire, come era già avvenuto in altri sistemi sanitari maturi, una dimensione scientificamente rigorosa. Lo studio di Tartaglia, infatti, proprio in ragione della cura e della serietà con cui è stato condotto, non solo fornisce informazioni puntuali sugli eventi avversi attribuibili alla gestione sanitaria in 5 grandi ospedali italiani, ma chiarisce i limiti della sua validità interna ed esterna, ne dichiara i margini d’incertezza, apre la strada a ulteriori approfondimenti e suggerisce l’esigenza di percorsi alternativi di analisi.

Confronto con altri studi

Credo che valga la pena di soffermarsi anzitutto sui risultati per constatare che, almeno negli ospedali presi in esame, l’occorrenza di eventi avversi è simile o addirittura inferiore a quella registrata da studi analoghi effettuati in altri Paesi. È certo necessario essere prudenti nell’operare confronti: la qualità della documentazione presente nelle cartelle cliniche può variare in misura sensibile tra Paesi diversi e la segnalazione di complicanze può essere incentivata da sistemi di finanziamento che ne tengano conto; la scelta di aziende ospedaliere, per la quasi totalità universitarie, non ha inoltre individuato un campione rappresentativo della realtà degli ospedali italiani, la cui qualità media può essere sensibilmente diversa da quella delle strutture esaminate. Al di là di queste riserve, però, l’utilizzazione rigorosa di strumenti di valutazione validati e sperimentati sembra suggerire per gli ospedali italiani analizzati condizioni di rischio emargini di miglioramento non dissimili dalle realtà ospedaliere di altri Paesi, a dispetto di qualche clamore dei mezzi di informazione su singoli episodi che finiscono spesso per assumere un indebito valore esemplare.

Riflessioni

Accanto a questi elementi positivi di metodo e di risultato, altri elementi dello studio meritano di essere segnalati non tanto per la loro presenza o per la loro assenza, ma per le implicazioni che ne scaturiscono. In particolare, nello studio originale inglese2 da cui Tartaglia mutua gli strumenti di valutazione, il test iniziale di screening (Review Form 1 – RF1) era affidato agli infermieri e identificava come possibili eventi avversi un numero di casi 5 volte superiore a quello dei casi confermati con il test secondario (Review Form 2 – RF2) affidato ai medici. Nello studio di Tartaglia il test iniziale, affidato a un gruppo di esperti appositamente addestrato, identifica invece meno del doppio dei casi confermati con il test secondario (675 rispetto a 386) e avvicina perciò in misura rilevante la specificità delle due valutazioni. Lo studio italiano, inoltre, non collega al giudizio di prevenibilità degli eventi avversi alcuna descrizione degli errori e delle tipologie di errore osservate. Questi aspetti sollevano interessanti interrogativi sulle modalità di accertamento degli eventi e degli errori che provo a porre in forma problematica come spunti per una riflessione:

Risposte degli autori a cura di Riccardo Tartaglia, Centro gestione rischio clinico e sicurezza del paziente, Regione Toscana

  1. Qual è il vantaggio di una valutazione in due stadi delle cartelle cliniche? Se il primo test di analisi strutturata delle informazioni cliniche (RF1) ha una specificità e una modalità di esecuzione così simili a quello del test di conferma (RF2), non converrebbe somministrare i due test in un’unica soluzione?
    La risposta degli autori. Per la prima volta abbiamo applicato alla realtà italiana un metodo riconosciuto e validato a livello internazionale per l’analisi delle cartelle cliniche. Solo ora, con il «senno del poi», possiamo conoscerne vantaggi e svantaggi. Va però sottolineato che la prima valutazione nel nostro studio è stata effettuata prevalentemente da medici: ciò ha determinato presumibilmente un livello di specificità maggiore nella prima fase di analisi rispetto alle altre ricerche, dove la selezione delle cartelle è stata svolta essenzialmente da infermieri.
  2. Vale la pena di utilizzare l’analisi diretta delle cartelle cliniche per l’effettuazione di un test di screening (RF1) che si serve di criteri in gran parte (8/14) ricavabili, con maggiore economia, direttamente dalla scheda di dimissione (SDO)?
    La risposta degli autori. È un’ipotesi da considerare; il livello di accuratezza delle SDO presenta, però, una variabilità non trascurabile e controllabile che può essere più facilmente gestita analizzando direttamente la cartella clinica. Con la SDO, inoltre, a causa della carenza di documentazione è forse più difficile intercettare tutti quegli eventi correlati a diagnosi secondarie o a informazioni di dettaglio.
  3. Non sarebbe interessante verificare con strumenti informatici la sensibilità e la specificità di un test di screening iniziale basato sull’analisi delle informazioni indice presenti sulla SDO?
    La risposta degli autori. Sarebbe molto interessante a tal fine completare la nostra analisi con una revisione delle schede di dimissione di tutte le cartelle cliniche analizzate. L’unico limite è presumibilmente rappresentato dalla valutazione dell’evitabilità dell’evento avverso, che ha bisogno di una documentazione più completa per essere preso in esame. L’impiego delle cartelle cliniche informatizzate potrebbe permettere di integrare la rilevazione dei criteri della prima selezione con RF1, offrendo ai clinici degli alert per approfondire l’eventuale avverso e gestirlo in tempo reale, dal punto di vista della ricerca offrirebbe dati molto più affidabili di quelli desumibili dalle SDO. l’Institute of Medicine suggeriva di intraprendere questa strada già dal 2004, con il volume Patient Safety.
  4. Se la fattibilità e la validità di un test di screening sugli archivi informatizzati delle SDO fossero confermate, non converrebbe, anche nella prospettiva di un’estensione e di una standardizzazione delle procedure di valutazione, sviluppare algoritmi per il riconoscimento degli eventi avversi e utilizzare l’analisi delle cartelle cliniche solo per confermare gli eventi e condurre l’analisi degli esiti e degli errori?
    La risposta degli autori. È un’ipotesi da considerare. La revisione retrospettiva delle cartelle dovrebbe entrare a pieno titolo a fare parte dei sistemi di gestione del rischio clinico, impiegando questo metodo standard in disegni di studio longitudinali per valutare nel tempo l’andamento degli eventi avversi. È questa la strada intrapresa da Aranaz e colleghi in Spagna, così come in America Latina con l’egida dell’OMS. Allo stato dell’arte, si tratta dell’unico modo per capire se le azioni per la sicurezza del paziente hanno o meno un impatto sugli esiti per i pazienti in termini di evento avverso.

In uno studio del 2003, Eric J Thomas e Laura A Petersen3 identificavano 8 diversi metodi per misurare gli errori e gli eventi avversi: conferenze sulla mortalità e la morbilità; contenzioso legale; sistemi di registrazione degli errori; esame delle cartelle cliniche; cartelle elettroniche; dati amministrativi; presenza di osservatori esterni; sorveglianza clinica. Nessuno di questi metodi veniva considerato del tutto soddisfacente e veniva quindi suggerita una scelta di metodi diversi e una diversa integrazione tra metodi per riconoscere: l’errore latente l’errore attivo l’evento avverso. Gli specifici suggerimenti offerti da quello studio possono essere discussi, ma qualche forma d’integrazione tra metodi diversi di analisi continua ad apparire come una strada obbligata per passare dal riconoscimento dell’evento all’errore, al miglioramento della qualità assistenziale.

Punti di forza dello studio

La finalità esclusivamente descrittiva dell’articolo di Tartaglia è però evidente e rivendicata. Il suo obiettivo, dichiarato e certamente raggiunto, è la stima dell’incidenza di eventi avversi secondo la definizione chiara ed esplicita di evento avverso che viene proposta. Non sono dunque possibili confronti tra le diverse strutture ospedaliere né congetture sulla relazione tra tipologia dell’errore, tipologia dell’esito e gravità dell’esito. Il lettore, informato sulla prevenibilità degli eventi, rimane con la curiosità insoddisfatta di sapere quali tipi di errore siano stati riscontrati, quale sia la loro distribuzione e quali siano le possibili associazioni tra errori ed esiti. Lo strumento di analisi adottato da Tartaglia, cioè l’analisi strutturata della documentazione clinica, avrebbe proprio su questo terreno una netta superiorità rispetto ad altri metodi d’indagine e potrebbe essere vantaggiosamente utilizzato per produrre e valutare misure di associazione piuttosto che misure di occorrenza. Lo studio, anche per i suoi limiti di potenza, sceglie di misurare l’incidenza, ma ci sollecita ad andare avanti consegnandoci un metodo e degli strumenti ormai validati.

I risultati e gli stimoli che lo studio di Tartaglia consegna alla riflessione sono dunque molteplici, consentono alla ricerca sul rischio clinico di individuare il suo spazio specifico all’interno della ricerca epidemiologica e ampliano le prospettive dell’epidemiologia e dei suoi rapporti con l’analisi organizzativa e la sanità pubblica. Questo studio stabilisce, inoltre, uno standard di qualità per la ricerca sul rischio clinico e deve diventare un punto di partenza e un termine di riferimento per tutti gli studi futuri, facendo loro superare qualsiasi antica tentazione di aneddotica compilativa.

Con la pubblicazione di questo studio, Epidemiologia& Prevenzione conferma la sua apertura a tutte le espressioni della ricerca epidemiologica che garantiscano interesse nei contenuti e rigore nei metodi. Mi auguro che questa apertura venga raccolta dai molti operatori di sanità pubblica impegnati nell’organizzazione e nella valutazione dei servizi sanitari.

Leggi nel pdf la scheda a cura Tommaso Bellandi (AUSL Latina).

Conflitti di interesse: nessuno

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