Editoriali
26/11/2015

Tubercolosi e immigrazione: le risposte che l’epidemiologia può dare (e che la società attende)

In quanto patologia riemergente, la tubercolosi solleva oggi interrogativi pressanti che, da una parte, agitano l’opinione pubblica generando talvolta paure e allarmismi ingiustificati, dall’altra impegnano gli operatori della salute nel difficile esercizio della parresia, ossia del comunicare senza infingimenti la verità dell’arte (provvisoria, transeunte, ma pur sempre verità). Siamo dinanzi a un’epidemia montante? La minaccia arriva dagli immigrati? Su quali strategie possiamo contare per arginare il pericolo?

Partiamo dalla prima domanda. Che la tubercolosi non sia scomparsa, è un dato di realtà. Secondo le stime dell’OMS,1 nel 2013 vi sono stati nel mondo 9 milioni di casi incidenti di tubercolosi, di cui più della metà nel Sud-Est asiatico e nella Regione OMS del Pacifico occidentale, e un quarto nella Regione africana. Anche l’Europa non ne è indenne, pur se l’incidenza negli ultimi 10 anni è costantemente diminuita (con una decrescita annua del 4,5%), assestandosi nel 2013 su un valore di 39 casi per 100.000 abitanti.2

E in Italia?

I dati del Ministero della salute3 indicano che negli ultimi 15 anni il numero di casi di tubercolosi è rimasto pressoché costante (circa 4.500 segnalazioni l’anno), a fronte di una lenta e progressiva diminuzione dell’incidenza nella popolazione generale: da 9,5 casi/100.000 abitanti nel 1995 a 7 casi/100.000 nel 2012. Se, però, si analizzano separatamente i dati relativi agli stranieri, emerge chiaramente un aumento del numero assoluto di notifiche, da 1.652 nel 2003 a 2.310 nel 2012, e ancor più della percentuale di stranieri tra i casi, passata nello stesso periodo dal 37% al 56%.

Questi dati indicano una particolare vulnerabilità degli immigrati alla tubercolosi. E, tuttavia, quando l’aumento dei casi viene posto in relazione con l’aumento della popolazione straniera in Italia (più che raddoppiata negli ultimi 10 anni), si nota che l’occorrenza diminuisce anche tra gli immigrati, con valori quasi dimezzati nell’arco di un decennio: da 99,5 per 100.000 nel 2003 a 55,3 per 100.000 nel 2012. In altri termini, il numero crescente di casi è interamente spiegato dall’incremento demografico, mentre il rischio è addirittura in calo. Nessuna epidemia montante, dunque.

Eppure resiste nell’immaginario collettivo il mito del “migrante untore”, vettore più o meno inconsapevole di temibili pestilenze: un cliché che non trova conferma nei dati epidemiologici, ma che rischia di dirottare le politiche e le risorse verso strategie sanitarie difensivistiche (controlli alle frontiere? screening di massa? iper-specializzazioni cliniche per fronteggiare morbi inconsueti?).

In questi anni, sono state ben descritte le dinamiche in grado di condizionare lo stato di salute della popolazione immigrata. Un primo elemento determinante è rappresentato dal cosiddetto effetto “migrante sano”, una sorta di selezione naturale all’origine, per cui decide di emigrare solo chi è in buone condizioni di salute. Peraltro, tale selezione non si applica solo alla tipologia del migrante economico, il cui progetto di vita, in quanto orientato alla ricerca di un lavoro nel Paese ospite, implica in partenza condizioni di piena integrità fisica e psichica. Vi sono diverse evidenze che l’effetto “migrante sano” si eserciti anche su altre tipologie di migranti quali, per esempio, i profughi che sbarcano sulle coste italiane. I dati della sorveglianza sindromica effettuata tra maggio 2011 e giugno 2013 dall’Istituto superiore di sanità su circa 5.000 persone ospiti di centri di accoglienza hanno messo in luce solo 20 allerte statistiche: di queste, 8 infestazioni, 5 sindromi respiratorie febbrili, 6 gastroenteriti e 1 caso di sospetta tubercolosi polmonare.4

Un’altra rilevazione epidemiologica condotta nel 2014 a Roma, nell’ambito di un piano di assistenza sanitaria messo in atto dall’INMP e dalla ASL Roma B, in collaborazione con diverse organizzazioni del privato sociale, su profughi in transito verso Paesi del Nord Europa conferma i dati della sorveglianza sindromica dell’ISS. Nei 5 mesi di attività (da giugno a novembre 2014), le équipe sanitarie hanno assistito circa 3.800 persone, in gran parte eritrei e somali. Sono state riscontrate prevalentemente patologie dermatologiche (soprattutto scabbia) e malattie del sistema respiratorio (infezioni delle prime vie aeree e sindromi influenzali). I pochi casi sospetti di tubercolosi sono stati immediatamente sottoposti ad accertamenti adeguati, con esiti negativi.5

Dunque, i dati rivelano l’inconsistenza di certi allarmismi che hanno fin qui fatto da contrappunto agli sbarchi: il viaggio risulta essere troppo lungo perché si concretizzi la minaccia di Ebola (la malattia si manifesta e si estingue in poche settimane, spesso assai prima che il percorso migratorio si concluda); ma spesso troppo breve perché si sviluppi la tubercolosi, nonostante le condizioni di grave deprivazione che accompagnano i migranti in fuga.

Vero è che il patrimonio di salute, quale che sia al momento dell’arrivo in Italia, si depaupera più o meno rapidamente a seguito della continua esposizione ai fattori di rischio della povertà: è il cosiddetto effetto “migrante esausto”, che si determina quando i processi di integrazione e le misure di tutela tardano a concretizzarsi nel Paese ospite. Si creano, così, le condizioni in cui diventa più facile contrarre l’infezione e/o sviluppare la malattia. In questo senso, la tubercolosi è una patologia infettiva solo a metà, in quanto il contesto sociale gioca un ruolo determinante nella sua eziopatogenesi (si veda in proposito l’articolo di Morandi et al. pubblicato su questo fascicolo).6 Non a caso, l’incidenza di tubercolosi tra i migranti si mantiene 7 volte più elevata rispetto a quella degli italiani.3

Quali strategie sono più adeguate per il controllo della matattia?

Ciclicamente si riaccende il dibattito mediatico sull’opportunità di introdurre screening sanitari alle frontiere, con l’obiettivo di individuare i casi di malattia in fase attiva per l’isolamento immediato e il successivo trattamento.

Al riguardo, le raccomandazioni del Ministero della salute sottolineano la scarsa costo-efficacia di una strategia simile.7 Sottoporre a screening l’intera popolazione dei migranti in arrivo nel nostro Paese, per esempio con l’intradermoreazione di Mantoux, risulterebbe francamente non applicabile, per tutta una serie di motivi. La Mantoux è soggetta a numerosi falsi positivi per pregressa vaccinazione con BCG, effetto booster associato a test ripetuti o presenza di micobatteriosi non tubercolare; inoltre, è soggetta a falsi negativi in presenza di stati di immunodepressione (inclusi la malnutrizione, il trattamento con farmaci steroidei e l’infezione da HIV). Vi è poi una limitata riproducibilità del test, poiché sia la somministrazione che la lettura sono dipendenti dall’operatore, soprattutto il controllo sarebbe rivolto principalmente alla diagnosi di infezione tubercolare latente (molto comune in migranti provenienti da Paesi a endemia elevata) più che alle forme diffusive.

Per contro, appaiono ragionevoli i richiami all’importanza di giungere a una diagnosi precoce attraverso strategie di case-finding che sfruttino tutte le occasioni di contatto degli immigrati con il Servizio sanitario o con centri di volontariato. Si segnalano, inoltre, diverse esperienze maturate in Italia sull’utilizzo di strumenti (tipo questionari) basati su un approccio sindromico8,9 volti all’individuazione precoce dei soggetti che presentano segni o sintomi suggestivi di tubercolosi, da inviare tempestivamente alle strutture sanitarie per approfondimenti diagnostici, e applicabili in contesti specifici, quali i centri di accoglienza, i centri di identificazione ed espulsione e altri luoghi di vita comunitaria.

Un’ultima notazione riguarda il tema cruciale dell’accessibilità dei servizi, che in alcuni casi implica una capacità di mobilitazione attiva, soprattutto nei confronti di gruppi a rischio difficili da raggiungere, e più in generale una competenza culturale e relazionale in grado di assicurare l’effettiva presa in carico dei pazienti. Non si dimentichi che il trattamento della tubercolosi dura molti mesi e il rischio di perdite al follow-up nelle nostre strutture sanitarie continua a rimanere elevato.

In questo senso la tubercolosi può diventare un banco di prova per il servizio sanitario, che va oltre gli immigrati e restituisce la cifra della sua efficacia per la tutela della salute di tutti.

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.

Bibliografia

  1. World Health Organization. Global tuberculosis Report 2014. Geneva, WHO, 2014. Disponibile all’indirizzo: www.who.int/tb/publications/global_report/gtbr14_main_text.pdf
  2. European Centre for Disease Prevention and Control,WHO Regional Office for Europe. Tuberculosis surveillance andmonitoring in Europe 2015. Stockholm, EDCD, 2015. Disponibile all’indirizzo: ecdc.europa.eu/en/publications/Publications/tuberculosis-surveillance-monitoring- Europe-2015.pdf
  3. Rizzuto E, Cenci C, Iannazzo S, PompaMG. Tubercolosi negli stranieri. Rapporto Osservasalute 2014. Stato di salute e qualità dell’assistenza nelle regioni italiane. Milano, Prex, 2014; 300-2.
  4. Bella A, Napoli C, Riccardo F et al. Immigrazione ed emergenze sanitarie: utilizzo della sorveglianza sindromica nei Centri per Immigrati in Italia negli anni 2011-2013. Rapporto Osservasalute 2014. Stato di salute e qualità dell’assistenza nelle regioni italiane. Milano, Prex, 2014; pp. 319-20.
  5. Rapporto INMP, ASL Roma B. Salute e prevenzione tra i migranti invisibili. Roma 2015. Disponibile all’indirizzo: http://www.inmp.it/index.php/ita/Eventi-e-Formazione/Eventi-INMP/Eventi-Nazionali/Convegno-INMP-Salute-e-prevenzione-tra-i-migranti-invisibili
  6. Morandi M, Di Girolamo C, Caranci N et al. La tubercolosi nei bambini e nei giovani adulti in Emilia-Romagna: sistema di sorveglianza e integrazione con dati socioeconomici. Epidemiol Prev 2015:39(2):115-20.
  7. Ministero della Salute. Aggiornamento delle raccomandazioni per le attività di controllo della tubercolosi. Politiche efficaci a contrastare la tubercolosi nella popolazione immigrata. Anno 2010. Disponibile all’indirizzo: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1261_allegato.pdf
  8. Sañé Schepisi M, Gualano G, Fellus C et al. Tuberculosis case finding based on symptom screening among immigrants, refugees and asylum seekers in Rome. BMC Public Health 2013;13:872.
  9. Regione Lombardia. DGR 4489/2012. Interventi strategici per la prevenzione dell’infezione, la sorveglianza ed il controllo della malattia tubercolare in Regione Lombardia. In: Sorveglianza delle malattie infettive in Lombardia. Report. Luglio 2015. pp. 15-55. Disponibile all’indirizzo: http://www.epicentro.iss.it/temi/infettive/pdf/REPORT_MALATTIE_INFETTIVE_Luglio_2014.pdf
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