Sistema Sanitario Nazionale addio? Vogliamo un nuovo SSN
La riforma più coraggiosa, e forse anche più rischiosa, dal dopoguerra è sicuramente stata, alla fine degli anni Settanta, l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, normato dalla legge 833/78. L’idea, già nata all’interno della Commissione Costituzionale, ma che allora fu solo espressa nello spirito dell’articolo 32, era in fondo semplice: tutti devono poter ugualmente soddisfare i propri bisogni sanitari e i costi devono essere sostenuti da tutti, sani e malati, in proporzione alle loro disponibilità.
Solo il Partito Liberale votò contro l’approvazione della legge 833, mentre tutto il Paese fu investito da un entusiasmo pieno di speranze anche grazie alla fine delle “odiate” mutue sanitarie. Lo slogan che infuriò per molti lustri fu: «Pubblico è meglio»; in effetti, allora tutte le eccellenze si svilupparono perlopiù solo nei servizi pubblici o in quelli convenzionati con il pubblico. I servizi privati erano quasi una nicchia per persone snob e si limitavano a cliniche di lusso dove operavano comunque i medici luminari degli ospedali pubblici.
Chi oggi ha meno di sessant’anni non ha il ricordo di quanto fu importante la riforma e di quanta sicurezza ne ottennero tutti. Oggi, invece, la sanità viene vissuta come un diritto innato, da sempre garantito e imperituro – ma così non è.
Due componenti della 833 erano fondamentali: innanzitutto, a differenza del centralismo delle mutue, fu data molta autonomia alle realtà locali con l’istituzione delle USL, pensate mediamente di 40.000 abitanti, e dei distretti di poche migliaia di persone; poi stimolando la partecipazione delle comunità nel governo della sanità con i Comitati di gestione nominati dai Consigli comunali.
Probabilmente, la società non era ancora pronta a sostenere questo assetto di partecipazione democratica al governo della sanità e le USL furono trasformate in Aziende controllate centralmente dalle Regioni. Queste ASL divennero sempre più ampie, sino a coincidere persino con l’intero territorio regionale; questa spinta al ritrovato concentramento si originò per due motivi: un maggior controllo gestionale e una riduzione sperata dei costi.
Alla fine del secolo scorso, si continuavano a denunciare due aspetti critici: la galoppante crescita della spesa sanitaria e la cosiddetta pletora medica, che ha portato all’introduzione del numero chiuso in facoltà e conseguentemente all’attuale carenza di medici. La spesa medica, invece, è aumentata, innanzitutto perché c’è stato uno sviluppo notevole nelle prestazioni mediche, poi perché la popolazione è invecchiata e quindi anche i bisogni sono aumentati. Ma, se vediamo il rapporto della spesa con la ricchezza disponibile (il PIL), l’aumento non è mai stato elevato; anzi, ultimamente la tendenza è a diminuire. Le figure 1 e 2 riguardano la spesa sanitaria e sono grafici pubblicati dall’osservatorio CPI della Università Cattolica, in cui il picco del 2020 ovviamente è dovuto al COVID-19 (https://osservatoriocpi.unicatt.it/ocpi-pubblicazioni-l-evoluzione-della-spesa-sanitaria-italiana).
Sono quindici anni che, rispetto al PIL, escludendo le spese per far fronte alla pandemia di COVID-19, le risorse assegnate alla sanità non aumentano, semmai decrescono, nonostante aumentino i bisogni dovuti all’invecchiamento della popolazione e i costi delle prestazioni per il continuo relativo sviluppo, peraltro ovviamente benefico, della medicina. E le notizie che vengono a proposito della legge di bilancio 2024 non sono per nulla confortanti, nonostante le dichiarazioni enfatiche del governo! A proposito, Giancarlo Giorgetti, l’attuale Ministro dell’Economia, in un’intervista televisiva ha affermato che l’aumento del fondo sanitario è una misura a favore dei meno abbienti, perché sono loro che non possono pagarsi le prestazioni. E questo fa intravvedere qual è la visione politica crescente: un sistema sanitario prevalentemente garantito solo per chi non può pagarsi un’assicurazione sanitaria privata! In parte è già così, come risulta dai dati della Indagine Multiscopo Istat del 2022 (figure 3 e 4).
La conseguenza è ovviamente una maggior rinuncia alle cure da parte dei meno benestanti. Allora, c’è anche da chiedersi se un sistema come il nostro servizio sanitario potrà reggersi in futuro se i costi della sanità dovessero aumentare ancora in misura importante. Qual è la quota del PIL per la sanità che un Paese come il nostro può permettersi? E in futuro, se questa quota fosse superata, potrà usufruire di una buona e completa sanità solo chi potrà pagarsela oppure la crescita attuale delle assicurazioni sanitarie private non sarebbe inevitabile, ma dipenderebbe solo da interessi crescenti del mercato assicurativo favoriti dalle criticità del SSN? E anche l’impatto che potrà avere l’attuale legge sull’autonomia differenziata potrebbe portare, almeno come tendenza futura, alla creazione di sistemi sanitari con diversi livelli di garanzia in funzione delle capacità economiche regionali: le più ricche con una sanità migliore delle altre.
Gli attuali politici dell’opposizione fanno della sanità un argomento di battaglia, ma non sembra che queste loro giuste rivendicazioni siano vissute come tali da tutta la popolazione e c’è da chiedersi il perché. Certamente l’argomento sanità non coinvolge più di tanto i giovani, che non intravvedono necessità immediate relative alla loro salute, ma forse c’è dell›altro, anche per gli anziani abituati ad avere accesso ai servizi sanitari e spesso portati a cogliere le criticità solo come una loro situazione particolare e non come una vera emergenza sistemica.
Vi è poi una crescente sfiducia nella sanità, con più del 20% degli intervistati nella Indagine Multiscopo Istat che dichiara di avere poca fiducia nei sanitari. E il giudizio è tanto più negativo quanto meno si è soddisfatti della propria salute; nelle Regioni meridionali c’è ancor maggior sfiducia, forse a causa di una sanità ancora meno garantita (figure 5 e 6).
Ma allora che fare? accettare questa deriva in cui rischia di finire il SSN? Ovvero cercare di reagire, e come? Credo che gli epidemiologi abbiano un ruolo determinante nella difesa del servizio sanitario nazionale.
Cosa può e deve fare l’epidemiologo per difendere il SSN?
Deve innanzitutto diffondere e commentare i dati pubblici riguardanti lo stato di salute e l’uso di servizi sanitari da parte della popolazione. Troppo frequentemente i dati rimangono confinati in database poco consultati anche da parte dei decisori dei servizi sanitari.
Con questi dati è essenziale far emergere l’elemento collettivo della salute e, di conseguenza, la necessità di predisporre misure di sanità pubblica. La sanità privata, individuale, non si occupa di prevenzione collettiva e si limita necessariamente a trattare i problemi del singolo, spesso anche prescindendo dal contesto sociale.
L’obiettivo della 833 era proprio quello di realizzare un SSN che affrontasse globalmente le dimensioni della salute integrando gli elementi individuali con quelli collettivi e, per poter raggiungere questo obiettivo, il lavoro degli epidemiologi è sicuramente determinante.
Le prestazioni private a pagamento sono perlopiù episodi isolati in presenza di sintomatologie, ma la salute si promuove e si protegge veramente solo con un approccio globale, sia individuale sia collettivo, e solo un servizio pubblico, se ben governato, può garantirlo. La prevenzione si basa su un quadro epidemiologico che solo un sistema pubblico può fornire. Dal punto di vista economico, i produttori privati di prestazioni sanitarie non hanno forte interesse a che diminuisca la domanda, un sistema pubblico invece sì, perché corrisponde non solo a una crescita del benessere, ma anche a un risparmio di risorse. Gli epidemiologi devono però dare una mano al SSN anche per evitare le inappropriatezze e per valutare l’efficacia delle azioni; la carenza di risorse dipende in parte anche dalle inefficienze e dagli sprechi.
Credo che parte della crisi del SSN sia dovuta all’assenza di epidemiologi nel governo del SSN, ed è come se in un’azienda metalmeccanica ci fossero solo operai e ingegneri addetti alla produzione, ma mancasse chi si occupa di analisi della domanda e di soddisfazione dei clienti. Insomma, il SSN non può esaurirsi in un “prestazionificio” e gli epidemiologi devono contribuire a farlo essere un progetto di tutela collettiva e individuale della salute. Gli epidemiologi devono, quindi, portare evidenze sul ruolo positivo che ha avuto e che dovrà avere un servizio sanitario universale ed equo e basato sulla contribuzione proporzionale di tutti. Gli epidemiologi oggi devono andare oltre ai loro studi e devono parlare a tutti con argomenti convincenti.
Infine, è essenziale ripensare anche all’impianto di tutto il sistema sanitario, innanzitutto alla funzione del medico di base che sembra abbia perso il suo ruolo centrale assumendo, invece, compiti prevalentemente burocratici. Un disegno di una possibile – e peraltro indispensabile e urgente – ristrutturazione del SSN deve vedere la partecipazione attiva degli epidemiologi sia nella fase di analisi che in quella di progettazione e di valutazione. E quindi auspico che sia l’Associazione Italiana di Epidemiologia sia la nostra rivista Epidemiologia&Prevenzione diventino attori di un dibattito propositivo su come salvare e riprogettare un efficace Servizio Sanitario Nazionale, come già fecero negli anni Settanta anche grazie all’intelligente e lucido pensiero di Giulio Alfredo Maccacaro e di altri illustri sanitari di allora, come Alessandro Seppilli e Augusto Giovanardi, che ritennero indispensabile occuparsi non solo di ricerca, ma anche di politica sanitaria.
E ancor oggi lo si può e lo si deve fare! Vogliamo un NSSN, cioè un Nuovo Servizio Sanitario Nazionale, che sappia realizzare tutti gli obiettivi fondativi dell’attuale SSN, ma sapendone evitare le criticità via via accumulatesi.