Quali realtà nel sogno di prevenire le demenze?
Nel 2017 su Annals of Internal Medicine1 e su The Lancet2 sono apparsi articoli accompagnati da editoriali sulle possibilità e opportunità di prevenzione delle demenze. L’occasione è stata la pubblicazione di due autorevoli revisioni di letteratura, una americana promossa dalla Agency for Healthcare Research and Quality e dal National Institute on Aging, l’altra frutto del lavoro della Lancet Commission on Dementia Prevention, Intervention, and Care.
Evidenze e incertezze
La premessa comune di entrambe le revisioni è che la prevalenza delle demenze è in continuo aumento, in parallelo con l’invecchiamento delle popolazioni, ma anche che vi sono incoraggianti evidenze che l’incidenza di queste malattie si sta riducendo. Le conclusioni delle revisioni sono sottilmente differenti. Lancet Commission riporta come punto fondamentale: «Be ambitious about prevention». L’editoriale di accompagnamento della revisione della Agency for Healthcare Research and Quality e del National Institute on Aging ha come titolo: «Prevention of late-life dementia: no magic bullet».
La difficoltà principale nel giungere a una conclusione comune su questo tema risiede principalmente in due evidenze contrastanti. Da un lato, per le demenze si conoscono numerosi fattori di rischio modificabili richiamati nelle conclusioni della Lancet Commission (ipertensione, scarso esercizio fisico, scarsa partecipazione sociale, fumo di sigaretta, deficit sensoriali, depressione, diabete e obesità), la cui rimozione potrebbe prevenire oltre il 30% dei casi di demenza nella popolazione. Dall’altro, mancano evidenze robuste circa l’esistenza di una relazione di causa-effetto tra la rimozione di questi fattori di rischio e la riduzione di occorrenza delle demenze, dato che studi randomizzati e controllati (RCT) sono, in questo campo, difficili da realizzare per motivi sia organizzativi sia etici. Il processo patologico che è probabile causa delle demenze inizia decenni prima dell’insorgenza della malattia e non sarebbe etico, nell’ottica di un’assegnazione casuale dell’intervento, non trattare per esempio persone ipertese, diabetiche od obese. A ciò si deve aggiungere che quando sono stati effettivamente condotti RCT, come nel caso di trattamenti farmacologici potenzialmente preventivi, i risultati sono stati generalmente negativi.3
Per questi motivi, un approccio metodologicamente rigoroso che si basi esclusivamente sui risultati di RCT non può che concludere che le evidenze sono insufficienti a sostenere l’efficacia di interventi di prevenzione delle demenze. Se ci riferiamo alla prevenzione delle demenze, ci si deve, però, chiedere se l’evidenza debba essere necessariamente derivata, come per i trattamenti farmacologici, da studi sperimentali (RCT) replicati in modo tale da consentire anche metanalisi. In altre parole, per la prevenzione di malattie complesse, come le demenze, che si realizzano nel contesto dell’invecchiamento e della senescenza, vale sempre la ricerca di relazioni di causa-effetto così come siamo naturalmente portati a pensarle, cioè una causa che partecipa a un processo patologico che a sua volta genera la malattia. Una visione di questo tipo pecca forse di eccessivo meccanicismo e di eccessiva semplificazione di situazioni che sono invece complesse, laddove la complessità è termine che riassume da solo tutta la nostra scarsa o insufficiente conoscenza.
Le cause delle demenze
Le demenze insorgono prevalentemente in persone anziane, nelle quali i processi legati a invecchiamento e senescenza sono già in atto da tempi più o meno lunghi. È ragionevole, quindi, pensare alle demenze dell’anziano come al risultato dell’interazione fra i processi patologici che causano neurodegenerazione e i processi, forse in qualche modo fisiologici, legati all’invecchiamento. A questo proposito, è noto che la forma più frequente di demenza è la malattia di Alzheimer (AD), sostenuta da un processo patologico caratterizzato da deposito di amiloide a livello cerebrale e da neurodegenerazione (neurofibrillary tangles). Numerosi studi hanno, però, messo in evidenza che una grande percentuale di anziani cognitivamente normali presenta il processo patologico della AD e che, anzi, la presenza di amiloide a livello cerebrale è più frequente in ultrasettantenni sani rispetto a quelli con ridotte capacità cognitive.4 Questa osservazione suggerisce che l’anziano possa opporre una qualche resistenza (resilienza) al processo patologico e che i fattori di resilienza siano esterni, almeno nel caso della AD, al processo patologico specifico. Un altro concetto non necessariamente indipendente da quello di resilienza è la cosiddetta riserva cerebrale o riserva cognitiva, che nasce dalla consolidata osservazione epidemiologica che le persone con basso livello di scolarità sono a maggior rischio di demenza. Gli anni di scuola coincidono con periodi della vita in cui il cervello mostra grande plasticità e alti livelli di apprendimento che costruirebbero la nostra riserva cerebrale/cognitiva. Per questo sarebbe maggiore l’effetto dei processi patologici che causano demenza in persone con bassi livelli di riserva cognitiva/cerebrale, in accordo con quanto osservato nelle persone con bassa scolarità. Resilienza e riserva cerebrale/cognitiva sono, quindi, fattori esterni al processo patologico delle demenze che ne modulano gli effetti e su cui sembra ragionevole agire nell’ottica di prevenire o ritardare l’insorgenza della malattia nell’anziano. Più difficile è, invece, pensare a interventi di prevenzione mirati direttamente al processo patologico, in primo luogo perché i processi patologici sinora noti non sembrano essere condizioni né necessarie né sufficienti a causare la demenza, in secondo luogo perché è difficile collocare temporalmente un intervento per il controllo di un processo patologico che inizia vari decenni prima che la malattia si manifesti.
Buone notizie
D’altra parte, sembra che i dati epidemiologici incoraggino un atteggiamento positivo nei confronti della prevenzione. Si sta, infatti, osservando una spontanea riduzione dei trend temporali di incidenza della demenza pur in assenza di strategie specifiche di sanità pubblica rivolte alla prevenzione.5-7 Il fenomeno viene interpretato come il “non intenzionale” effetto dell’aumentata scolarità, del migliore controllo dei fattori di rischio vascolare e dell’adozione di migliori stili di vita da parte delle coorti generazionali più giovani. Se questo è vero, cioè se la riduzione di occorrenza delle demenze è conseguenza di modificazioni di fattori esterni al processo patologico, è anche sostenibile che sia in atto un processo spontaneo di rafforzamento della resilienza e della riserva cerebrale/cognitiva efficace nel ridurre il rischio di demenza o perlomeno nel ritardarne la comparsa.
Un altro suggerimento derivato dall’interpretazione di questi dati epidemiologici è la molteplicità dei fattori che potrebbero migliorare resilienza e riserva cerebrale/cognitiva, prefigurando strategie multifattoriali combinate di prevenzione. In quest’ottica, disponiamo di almeno un’evidenza robusta circa il fatto che esistono strategie preventive efficaci, come dimostrato dallo studio FINGER.8 Si tratta di uno studio randomizzato controllato finlandese di popolazione che ha valutato l’effetto combinato di interventi su dieta, esercizio fisico, training cognitivo e monitoraggio dei fattori di rischio vascolare sulle capacità cognitive di anziani a rischio di demenza. Lo studio riporta che gli oltre 600 anziani assegnati a questo intervento multisettoriale mostravano un ridotto decadimento cognitivo nel tempo rispetto a quelli assegnati a ricevere solo gli abituali consigli medici individuali. Si tratta di uno studio singolo non replicato, ma, data la sua struttura formale come RCT, l’evidenza in termini di causa-effetto è decisamente forte.
In conclusione, penso che per quanto riguarda le possibilità di prevenzione delle demenze nella popolazione anziana possiamo tacitare il pessimismo della ragione: Be ambitious about prevention!
Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.
Bibliografia
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