Editoriali
26/11/2018

Nuove e vecchie sfide per la prevenzione delle malattie respiratorie occupazionali

,

Che le malattie respiratorie rappresentino tuttora la più importante causa di malattie occupazionali nel mondo non stupisce: nei cosiddetti dirty jobs la prima via di esposizione ad agenti nocivi per la salute, e quindi i primi a pagarne gli effetti nel tempo, sono i polmoni. Dal primo caso di asma del panificatore descritto da Bernardino Ramazzini nel XVIII secolo, passando per l’alveolite allergica estrinseca dell’agricoltore, l’antracosi del minatore, fino alla silicosi del ceramista, la lista è assai lunga e purtroppo include anche tumori del polmone causati da cancerogeni occupazionali, quali amianto e silice cristallina, per citare gli esempi più importanti. Ciò che invece stupisce, o almeno dovrebbe, è il fatto che ancora oggi non solo questa lista non accenni ad accorciarsi, ma addirittura si estenda di anno in anno.
Esempi recenti sono la scoperta della cosiddetta popcorn lung, una bronchiolite obliterante potenzialmente fatale da esposizione occupazionale a diacetile (additivo chimico usato nell’industria alimentare per conferire aroma al burro) e l’identificazione di un’interstiziopatia polmonare da esposizione a ossido di indio-stagno usato nella produzione di schermi al plasma. È proprio sulla base di questi ultimi dati epidemiologici che l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) ha classificato l’ossido di indio-stagno come possibile cancerogeno (gruppo 2B). Come è sempre tragicamente accaduto nella storia dell’epidemiologia occupazionale, solo dopo che il danno è stato causato nei lavoratori, esposti a mo’ di cavie da esperimento, si è ottenuta una valutazione scientifica rigorosa della pericolosità per la salute delle sostanze utilizzate. Basti pensare che dei 120 agenti classificati finora dalla IARC come noti cancerogeni (gruppo 1), circa la metà è di origine occupazionale e la maggior parte ha come bersaglio le vie respiratorie. Purtroppo, contrariamente all’atteso, non solo spesso questi agenti sono stati rimossi dai posti di lavoro con lunghi e inaccettabili ritardi, causando nel frattempo milioni di vittime totalmente evitabili tra i lavoratori esposti, ma in alcuni casi non sono stati rimossi affatto. Emblematico è l’esempio dell’amianto, bandito nei Paesi occidentali con ritardi decennali e tuttora utilizzato (il crisotilo) in Paesi come Russia, Cina e India, causando, grazie alla lunga latenza tra inizio dell’esposizione ed effetti (principalmente tumori del polmone e mesoteliomi), un pesante debito di vittime che ha attraversato e attraverserà molte generazioni di ieri, oggi e domani.
In aggiunta, alcuni noti, vecchi rischi occupazionali che si pensavano ormai controllati con successo ultimamente sono riemersi in nuovi e inattesi scenari lavorativi, generando ritardi nel riconoscimento e nella prevenzione dei danni causati ai lavoratori esposti. Si pensi ai recenti casi di silicosi, pneumoconiosi da inalazione di silice cristallina, storicamente associata al lavoro in miniera, tra i lavoratori tessili in Cina, Bangladesh o Turchia, costretti a usare la tecnica della sabbiatura (getti di sabbia contenente silice ad alta pressione) per sbiancare i jeans. Similmente, in Spagna e Israele hanno destato sorpresa i casi di silicosi tra gli addetti alla costruzione di piani di cucina in pietre cosiddette artificiali, perché contenenti resine polimeriche, il cui contenuto di silice cristallina si è poi scoperto arrivare fino all’80%. Purtroppo, nella moderna economia, dove lo sviluppo tecnologico e industriale è rapido e incalzante e il libero mercato si è globalizzato, diventando quindi meno controllato e controllabile, è difficile ipotizzare che le cose possano migliorare, anzi.
Nuove sostanze potenzialmente nocive sono costantemente introdotte sui posti di lavoro e si può presupporre che, nella lista delle priorità di chi le produce, considerazioni in merito a performance, costi e persino impatto ambientale abbiano la meglio rispetto a quelle sulla pericolosità per la salute dei lavoratori esposti. Eppure, il legislatore – si pensi per esempio al Regolamento dell’Unione europea REACH (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals) – ha pensato bene di delegare la responsabilità di testare la tossicità dei nuovi agenti introdotti nel mercato proprio ai produttori stessi, generando seri dubbi sulla validità e accuratezza scientifica dei dossier così prodotti. Aspettarsi, perciò, che le schede di sicurezza dei materiali utilizzati sul posto di lavoro possano costituire una guida esauriente e sicura per proteggere la salute respiratoria dei lavoratori è alquanto ottimista, se non naif. Certo, «sola dosis facit venenum», come diceva Paracelso: quindi, la mera presenza di un agente potenzialmente dannoso non significa automaticamente rischio per la salute, se durata e intensità di esposizione del lavoratore non sono state sufficienti a causarlo. Ecco perché esistono limiti di esposizione occupazionali, sanciti dalla legge al fine di proteggere la maggior parte (si noti bene, non tutti) i lavoratori esposti.
Purtroppo, se si considerano i limiti attualmente in vigore, lo scenario non è più ottimista. Nella maggior parte dei casi, i dati epidemiologici e scientifici non sono sufficienti per identificare relazioni dosi-effetto, dunque soglie di rischio, da cui derivare i limiti di esposizione per i lavoratori. E anche laddove studi scientifici riescano a identificare tali soglie, l’applicazione a livello normativo si scontra con le potenti ragioni di carattere economico che in molti casi estendono questi limiti ben oltre l’evidenza scientifica. Un esempio emblematico è il limite occupazionale di esposizione vigente nell’Unione europea per la silice cristallina. Nonostante l’evidenza suggerisca da anni un limite di 0,025 mg/m3, a tutt’oggi il limite rimane a 1 mg/m3. Ciò è ancora più aberrante se si considera che la silice è anche un noto cancerogeno polmonare (gruppo 1 della IARC), quindi capace di aumentare il rischio di tumore polmonare in modo stocastico, cioè senza una dose soglia. Dunque, in teoria l’esposizione non solo dovrebbe essere ridotta al minimo possibile, ma addirittura evitata. Infine, a complicare questo scenario già di per sé non roseo, la popolazione lavorativa è diventata più vulnerabile: nei dirty jobs non sono più impiegati solo giovani sani, ma anche anziani, donne, soggetti con pluripatologie croniche su cui è molto probabile che i limiti di esposizione vigenti (derivati da storici studi di coorte occupazionali) non siano sufficientemente protettivi. In aggiunta, la globalizzazione del mercato lavorativo ha aumentato la presenza di lavoratori migranti che richiedono particolari tutele: non solo provengono da Paesi dove le norme in materia di protezione del lavoratore sono spesso meno stringenti (quindi sono potenzialmente già danneggiati da anni di alte esposizioni), ma possono anche essere più esposti a rischi nel lavoro attuale, perché adibiti alle mansioni più pericolose e limitati da barriere linguistiche nell’accesso a informazione e formazione in materia di salute e sicurezza sul posto di lavoro.
In questo complesso scenario, diventa necessario un approccio integrato su diversi livelli.
Rimane vitale, come strumento per il riconoscimento precoce e la prevenzione delle malattie respiratorie occupazionali, la sorveglianza sanitaria continua dei lavoratori. In Paesi come la Gran Bretagna, dove la sorveglianza sanitaria effettuata da servizi specialistici di medicina del lavoro è accessibile solo a una piccola minoranza di lavoratori, tutte le professioni sanitarie, a partire dai medici di medicina generale, sono chiamati a partecipare per assicurare almeno una diagnosi precoce, quindi una migliore prognosi della malattia ormai insorta.
Il legislatore deve assicurare che le norme vigenti in materia di salute e sicurezza siano applicate, stanziando più risorse sul territorio per l’ispezione dei posti di lavoro, e idealmente cercare di colmare le lacune vigenti in termini di limiti di esposizione, soprattutto per cancerogeni occupazionali.
Infine, sia i datori di lavoro sia i lavoratori dovrebbero essere educati, ma essere anche parti attive nella prevenzione delle malattie occupazionali, in quanto entrambi ne beneficiano: meno soggetti si ammalano, meno costi ci sono per l’individuo (perdita del lavoro e malattia) e per la società (costi delle cure mediche e compensazioni).

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.

Bibliografia

1. De Matteis S, Heederik D, Burdorf A et al. European Respiratory Society Environment and Health Committee. Current and new challenges in occupational lung diseases. Eur Respir Rev 2017;26:170080 doi: 10.1183/16000617.0080-2017. Print 2017 Dec 31. Review. PubMed PMID: 29141963.

Approfondisci su epiprev.it Vai all'articolo su epiprev.it Versione Google AMP