Editoriali
09/03/2021

Mascherine e COVID-19: un dibattito metodologico sull’evidenza scientifica per la decisione in sanità pubblica

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A un anno dall’esordio della pandemia da SARS-CoV-2, le mascherine sono entrate forzatamente nella nostra vita quotidiana.
Aprire un dibattito scientifico sulla qualità delle prove d’efficacia dell’uso di questi dispositivi quando l’obbligo di indossarli è terreno di scontro politico e ideologico (come è stato nell’America di Trump, nel Brasile di Bolsonaro o nel Regno Unito di Johnson) espone a un facile rischio di strumentalizzazione. Riteniamo, tuttavia, che la discussione scientifica debba sempre avere luogo e che il dibattito pubblico possa favorire la comprensione delle conoscenze che stanno alla base delle misure adottate in difesa della salute pubblica.
L’occasione di dibattito è fornita da un intervento di Alberto Donzelli sull’uso delle mascherine come misura di protezione individuale dal contagio che pubblichiamo su questo numero di E&P (p. 410).1 Il lavoro non mette in discussione l’uso delle mascherine in luoghi pubblici chiusi né mette in discussione l’uso delle mascherine all’aperto in assembramenti statici o tra chi si intrattenga a parlare da vicino, ma attira l’attenzione su quella che, a detta dell’autore, è l’insufficienza delle prove alla base dell’obbligo di indossarle all’aperto in condizioni diverse da quanto sopra richiamato.

Uso obbligatorio a livello globale

Prima di entrare nel merito delle argomentazioni di Donzelli, ribadiamo che oggi è universalmente condiviso che l’uso delle mascherine sia tra le principali misure di prevenzione per contenere la trasmissione del virus e quindi anche per ridurre il carico di sofferenze che la pandemia ha portato, incluso il rischio di perdita di vite umane; indossarle, infatti, fa parte di un insieme di interventi raccomandati di prevenzione sociale che comprendono il distanziamento fisico, l’evitare ambienti affollati, l’adeguata ventilazione degli ambienti, la frequente pulizia delle mani e la copertura del viso in presenza di starnuti o colpi di tosse. La raccomandazione è stata emessa dall’Organizzazione mondiale della sanità in una nota datata 1 dicembre 20202 che ha anche riconosciuto (finalmente!) il rischio di trasmissione del virus via aerosol in circostanze specifiche, in particolare in ambienti chiusi, affollati e con spazi non sufficientemente ventilati. Uno studio osservazionale pubblicato di recente su Lancet documenta come l’uso diffuso delle mascherine, associato al distanziamento sociale, aumenti in modo importante le probabilità di controllo della trasmissione di SARS-CoV-2.3

Sono indispensabili gli studi controllati randomizzati?

Donzelli prende in esame le evidenze di efficacia delle mascherine, richiamando l’attenzione sui possibili effetti collaterali per chi ne fa uso (specie se improprio) e conclude ribadendo che l’adozione di misure di sanità pubblica andrebbe preceduta da studi randomizzati controllati (RCT) pragmatici o studi con disegni assimilabili, indipendenti. La direzione scientifica di E&P ritiene questa affermazione non condivisibile. 
Per molti anni, in ambito medico-scientifico l’approccio di gran lunga prevalente per valutare il rischio di esposizione e per raggiungere una decisione in ambito di politiche preventive – cioè per valutare se uno specifico fattore (o una specifica misura) possa  essere in grado di causare una particolare malattia oppure se (e in che misura) se ne possa prevenire l’insorgenza – è stato quello di considerare tutta l’evidenza scientifica resa disponibile da una costellazione di prove:

  • diversi tipi di studi epidemiologici (anche di qualità diversa);
  • studi clinici (anche studi randomizzati controllati);
  • studi su cavie;
  • studi di laboratorio;
  • talora valutazioni di tipo socioeconomico. 

Questo approccio assume che la nuova conoscenza scientifica sia prodotta dall’insieme dei risultati, e dalla loro abile “triangolazione” (la ricerca di coerenza dei risultati attraverso l’esame di approcci diversi), raggiunta attraverso un’ampia procedura di consenso.
Negli ultimi tempi, questo approccio è tuttavia spesso messo in discussione dall’enfatizzazione del ruolo degli RCT come fonte primaria o unica della prova per la decisione. La sfida scientifica viene da coloro che affermano che solo lo studio RCT sia il gold standard e che senza esiti positivi da validi RCT (e indipendenti, per alcuni) «non vi sia evidenza». Quest’altro approccio, che potremmo definire dogmatico, e che la nostra rivista contesta, propone quindi di escludere molte prove che nell’esperienza comune, in più campi, risultano molto utili per raggiungere una “evidenza” adeguata ad assumere una decisione. 

Il dibattito metodologico è più ampio

A prescindere dalla posizione di Donzelli, la discussione sull’uso delle mascherine durante l’epidemia di COVID-19 riflette dunque un dibattito metodologico più ampio. Spesso l’epidemiologia, che nel peso delle prove per valutare un fattore di rischio o il ruolo di una misura preventiva ha una delle sue principali ragion d’essere, non ha una particolare urgenza quando si tratta di patologie a insorgenza cronica. La pandemia da SARS-CoV-2, come accade spesso per le patologie trasmissibili, ci ha invece obbligato a constatare che in queste circostanze le decisioni devono essere prese rapidamente, essendo in gioco la sanità pubblica, e che per decidere e agire non si possa aspettare lo studio perfetto a sostegno delle decisioni intraprese – come può essere ipoteticamente considerato perfetto un RCT. Ritorna, quindi, la necessità dell’acquisizione di una costellazione di prove, confermando la scelta di un approccio non dogmatico, che favorisca una decisione anche quando gli RTC non siano ancora disponibili, oppure difficilmente realizzabili, e in alcuni casi nemmeno necessari.

Indossare la mascherina per proteggere se stessi e gli altri 

Nel dibattito scientifico e politico relativamente all’uso della mascherina, una questione controversa è la distinzione tra ruolo “passivo” e “attivo” di tale misura, cioè l’efficacia nel proteggere chi la indossa dal contagio oppure l’efficacia nel proteggere i soggetti che si avvicinano a chi la indossa, e gli studi necessari nel primo e nel secondo caso.  
All’inizio della pandemia, la raccomandazione di indossare la mascherina era indirizzata ai soli casi sintomatici con l’obiettivo di ridurre il rischio di contagio – nella sua logica, un’indicazione associata alle misure di quarantena che è tra le misure culturalmente forse più accettate, essendo parte del bagaglio di conoscenza di molti. È diventato chiaro, ma solo successivamente, che anche le persone contagiate che non mostravano sintomi, o che avevano sintomi lievi, potevano essere fonte di diffusione del virus. È stato, quindi, raccomandato l’uso universale della mascherina per prevenire la trasmissione – il cosiddetto controllo della fonte.5 In effetti, l’uso della mascherina è universalmente riconosciuto fin dal 1897 come misura di protezione del paziente dal potenziale contagio del chirurgo. L’indicazione generalizzata di favorire l’uso della mascherina nasce, quindi, come obbligo sociale per evitare il rischio di contagio, e il suo ruolo complementare di protezione dal rischio di infezione per il portatore, qualora fosse presente e non comportasse rischi additivi, sarebbe acquisito come possibile vantaggio secondario. 
Purtroppo, gli studi randomizzati controllati possono ragionevolmente essere disegnati per valutare la protezione dell’infezione del portatore (si randomizzano i soggetti a portare e a non portare le mascherine e si registrano i tassi di infezione nei due gruppi a confronto, portatori e non portatori), mentre è difficile pensare a uno studio randomizzato per valutare quanto efficacemente le mascherine impediscano che il contagio si diffonda ad altri, cioè proprio quel ruolo primario per il quale la misura è proposta.6 
Quali prove abbiamo allora per sostenere l’uso della mascherina non disponendo di studi randomizzati? Abbiamo prove importanti da studi di laboratorio, ovvero sappiamo che droplet e aerosol che possono veicolare il virus vengono emessi quando le persone parlano, cantano, urlano e anche solo respirano; è dunque semplice ipotizzare un beneficio nel porre una barriera che impedisca il diffondersi del virus da persona a persona. Le mascherine, infatti, riducono la possibilità che droplet e aerosol vengano emessi nell’aria intorno a noi, dove potrebbero infettare altri soggetti. Pensiamo che questo sia sufficiente per emanare misure di sanità pubblica in tale direzione. Certo, meglio se l’efficacia di queste misure venisse corroborata da studi osservazionali, anche ecologici (che paragonino comunità diverse) o di tipo cross-sectional, come il recente studio sul Lancet prima citato (tutti studi considerati di “bassa qualità” nelle gerarchie del GRADE, l’approccio da molti ritenuto appropriato per valutare il diverso peso delle prove).

Prevenzione senza dogmatismi

Ma torniamo all’articolo che E&P pubblica.1 Per la rivista, la valutazione scientifica è il risultato di un contradditorio processo nel quale hanno peso vari elementi, alcuni di mero interesse scientifico e altri relativi a interessi sociali, economici e di tipo ideologico. Questi elementi vanno dichiarati, così che il processo della conoscenza si possa arricchire di elementi di contorno alla specificità del problema. Il tema che qui affrontiamo è per noi rilevante: E&P, infatti, ha nelle scelte per la prevenzione una delle ragioni della sua stessa esistenza,7 in una visione che consideri anche il contesto storico e sociale e gli interessi degli strati più deboli (e meno raggiunti dall’informazione) della società. Ribadiamo, quindi, il monito di Simonetta Pagliani su Scienza in Rete (sito del Gruppo 2003 per la ricerca scientifica): «Per favore, mettete la mascherina!».8 In questo momento ogni cittadino è, in forza della Costituzione,9 chiamato a rivendicare il diritto individuale alla salute e anche alla difesa della salute della collettività. L’uso della mascherina è una misura preventiva socialmente “altruista” a difesa della collettività.

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.

Bibliografia e note

  1. Donzelli A. Mascherine “chirurgiche” all’aperto: avviare un dibattito per ridiscutere le disposizioni attuali. Epidemiol Prev 2020;44(5-6):410-16.
  2. WHO. Mask use in the context of COVID-19. Interim guidance, 01.12.2020.
  3. Rader B, WhiteLF, Burns MR et al. Mask-wearing and control of SARS-CoV-2 transmission in the USA: a cross-sectional study. Lancet Digit Health 2021;3:e148-57.
  4. Forastiere F, Ancona C. Rischi ambientali: la sintesi dell’evidenza scientifica e la qualità delle prove tra triangolazione e punteggi. Epidemiol Prev 2019;43(4):215-17.
  5. Forastiere F, Bonifazi F. Mascherine per tutti? Scienza in rete 06.04.2020.
  6. Tufekci Z. On Masks and Clinical Trials, Rand Paul’s Tweeting Is Just Plain Wrong. New York Times, 06.12.2020.
  7. GA Maccacaro e la medicina. Dal sito di Epidemiologia & Prevenzione: Giulio A. Maccacaro - La scienza.
  8. Pagliani S. Per favore, mettete la mascherina! Scienza in rete, 12.12.2020. Disponibile all’indirizzo: https://www.scienzainrete.it/articolo/favore-mettete-mascherina/simonetta-pagliani/2020-12-15
  9. L’articolo 32 della Costituzione italiana recita al primo comma: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività [...]». In quei «tutela la salute» e «interesse della collettività» risiedono principi che richiamano l’originale ispirazione di E&P. Nella seduta del 24 aprile 1947 (presidente, Umberto Terracini: discussione sul titolo II, Rapporti etico-sociali), il dibattito del progetto di Costituzione della Repubblica italiana affronta l’articolo 26 (diventato poi 32) attraverso il testo proposto dalla commissione redigente e il cui primo comma recitava «La Repubblica tutela la salute, promuove l’igiene[...]». L’onorevole Caronia, pediatra siciliano, e altri proposero un emendamento drasticamente innovativo di quel primo comma e che diventerà riferimento per il testo finale dell’articolo 32, dichiarando: «tutela della salute implica la prevenzione delle malattie» e, in sintesi, affermando; «noi del Gruppo medico parlamentare composto di rappresentanti di tutti i partiti che vanno dall’estrema destra alla estrema sinistra, abbiamo presentato un emendamento che sostituisce il primo comma dell’articolo 26», e richiamandolo lo presentò: «La Repubblica si propone la tutela della salute come un fondamentale diritto dell’individuo e come un generale interesse della collettività». Quel diritto fondamentale individuale è anche interesse dell’intera collettività, dice quel nuovo comma; cioè, a dire che ogni cittadino che appartiene a quella collettività (una specifica collettività o per esteso la collettività dei cittadini della Repubblica italiana) è chiamato anche a considerare quel diritto individuale. Si tratta di una condizione professionalmente frequente, tale per cui, con l’obiettivo sociale di tutelare la salute di altri, una definita collettività assume comportamenti che aumentino un proprio rischio: si pensi, per estremo, ai pompieri, agli agenti di polizia, ai contingenti militari in azione di peacekeeping, ma poi anche a medici, a infermieri, agli operatori sociosanitari e al personale sanitario tutto (drammatico e a volte eroico il loro esempio in questi mesi di pandemia!) o anche agli operai delle fonderie e, infine, a moltissime professioni, ognuna delle quali al meglio protette con misure preventive, a volte esse stesse causa di rischi, ma comunque prone ad assumere un proprio specifico rischio a favore del contenimento del rischio di altri. Nell’evenienza della pandemia, che ora coinvolge la nostra società, ogni cittadino è, in forza della Costituzione, chiamato a essere collettività per la difesa di quel diritto individuale alla salute di cui ha interesse, ed è chiamato all’assunzione di un certo limitato rischio, se è il caso. Tra le definizioni di libertà, ve ne è una che include l’idea sociale della libertà: essa sostiene che un cittadino non potrà mai sentirsi libero sino a quando anche ogni altro cittadino del mondo sarà anch’esso libero («mi sento anche cittadino del mondo, sicché, quando un uomo in un angolo della terra lotta per la sua libertà, [...] io sono al suo fianco con tutta la mia solidarietà di cittadino del mondo» (Sandro Pertini, Messaggio di fine anno agli italiani, 1978); parafrasando, quel comma dell’articolo 32 della Costituzione italiana ci dice che ogni cittadino non sarà mai libero da rischi per la propria salute se non avrà anche contenuto i rischi degli altri.
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