Editoriali
26/11/2014

Indicatori e qualità dell’assistenza: epidemiologia e clinica a confronto

Gli indicatori sanitari e l’epidemiologia hanno una lunga consuetudine, che periodicamente vive ritorni di fiamma legati a nuove esperienze. È quello che sta capitando negli ultimi anni in Italia con i principali programmi di valutazione del sistema sanitario e del governo clinico e con gli sviluppi dei sistemi informativi sanitari.

Sul versante della valutazione comparativa di sistema, qualche anno fa le ambizioni del Ministero della salute e delle Regioni di valutare la performance dei servizi sanitari regionali e locali hanno acceso un grande interesse per nuovi strumenti di valutazione comparativa, come il Sistema di valutazione del network delle Regioni.1

Sul piano istituzionale il monitoraggio dei livelli essenziali di assistenza (LEA) nell’SSN ha conferito un importante valore certificativo agli indicatori sanitari inclusi nella lista di garanzia dei LEA e ricavati dal nuovo sistema informativo sanitario (NSIS), ma in questo caso, trattandosi del risultato di una negoziazione tra soggetto valutatore e soggetto valutato, l’epidemiologia è stata coinvolta in modo marginale nella scelta degli indicatori. L’AIE ha dedicato il suo Convegno di primavera del 2010 proprio a questo tema e la rivista Epidemiologia&Prevenzione ha ospitato nella sua rubrica «Occhio ai granchi» alcune interessanti dimostrazioni dei problemi metodologici che uno sviluppo troppo disinvolto di tali indicatori di valutazione comparativa di performance può creare sul piano della rilevanza, della validità e della comunicazione. In particolare, un problema oggi sempre più evidente è quello della sintesi delle molteplici serie di indicatori sanitari oggi a disposizione, da cui si vogliono ricavare graduatorie e classifiche. Questa operazione di sintesi è molto delicata; se si vogliono creare sintesi valoriali da una molteplicità di informazioni sono necessari due passaggi: il primo è la trasformazione della misura descrittiva dell’indicatore nella misura del suo valore a fini valutativi, il secondo è la ponderazione delle diverse informazioni ai fini dell’ottenimento di una loro sintesi.
La proposta metodologica detta SCIARE, elaborata da AgeNaS e in corso di sperimentazione in diversi contesti valutativi, offre queste alternative, in quanto si tratta di un sistema flessibile in cui l’utilizzatore-valutatore può introdurre sia i propri valori sia i propri pesi, rispettando l’elemento di soggettività dei processi valutativi.
Se ci si sposta sul versante della valutazione dei processi e dei risultati dei percorsi assistenziali per il governo clinico, in questi stessi anni il Programma nazionale esiti è uscito dall’esperienza prototipale del progetto Mattoni e del progetto PReValE della Regione Lazio2 ed è stato dotato delle facoltà di accesso ai dati necessari per diventare un sistema nazionale di monitoraggio dei risultati nell’SSN affidato ad AgeNaS;3 in questo caso il programma ha saputo utilizzare i metodi dell’epidemiologia analitica per le applicazioni più evolute che sono possibili sui dati correnti del NSIS. Il programma affida poi i risultati alla capacità dei singoli SSR ed erogatori di spiegare gli eccessi osservati negli esiti sfavorevoli, innescando così azioni di correzione. Quest’ultimo risultato è però più spesso presente nelle esperienze di alcune Regioni che hanno sviluppato programmi di valutazione dei percorsi assistenziali fondati su indicatori rilevati ad hoc o tramite i dati del NSIS, e che erano stati concordati fin dall’inizio con il mondo clinico per assicurare la massima condivisione possibile nell’analisi, ma soprattutto nelle decisioni di correzione degli scostamenti indesiderati.4

L’articolo di Antonio Russo e colleghi pubblicato su questo numero della rivista5 e il rapporto allegato6 presentano un’evoluzione lombarda di questo genere di esperienze regionali: il progetto ha monitorato la variabilità di performance nel percorso diagnostico-terapeutico del tumore della mammella in sei ASL lombarde. Il suo valore risiede sia nell’utilizzare indicatori di processo ricavati dalle Linee guida concordandoli con i clinici del settore, sia nel costruirli interamente attraverso i dati disponibili dei sistemi informativi sanitari del NSIS, validati tramite i dati dei registri tumori. In questo modo diventa possibile, senza nessun investimento nella rilevazione di dati, effettuare screening delle situazioni che si discostano dagli standard delle linee guida e consegnarle a meccanismi di audit clinico e organizzativo affinché vengano corretti.

I risultati presentati sono incoraggianti. Dal punto di vista del modello è evidente che un uso integrato dei dati sui ricoveri e sull’assistenza ambulatoriale e farmaceutica permette di arruolare coorti di pazienti e di seguire il percorso diagnostico-terapeutico con livelli di accuratezza accettabili (se confrontati con il gold standard più oneroso del registro tumori) e comunque appropriati per l’uso che se ne intende fare, cioè di ricerca di scostamenti dagli obiettivi raccomandati dalle Linee guida. Dunque vale la pena di riprodurre il modello per tutti i percorsi diagnostico-terapeutici che si prestano al caso. Dal punto di vista dei risultati ottenuti dall’applicazione sul percorso del tumore della mammella, gli scostamenti dagli standard messi in evidenza riguardano in modesta parte le fasi diagnostiche e del trattamento e in misura maggiore la fase del follow-up.

Sul versante dell’inappropriatezza si tratta soprattutto di eccessiva e ingiustificata frequenza e intensività dei controlli post-intervento, abbastanza generalizzata in tutte le categorie di pazienti e di erogatori, compresi i centri di riferimento che trattano il maggior numero dei casi. L’inappropriatezza per difetto di offerta riguarda soprattutto i pazienti più anziani e quelli trattati dai centri minori non di riferimento. Quest’ultimo riscontro suggerisce l’esistenza di potenziali sorgenti di disuguaglianze nel processo e negli esiti che merita esplorare, per poter innescare iniziative di equity audit del percorso.7

Tutte queste esperienze mostrano che l’indicatore sanitario rappresenta il modo più evoluto con cui l’epidemiologia da un lato accompagna la programmazione sanitaria e il governo clinico a riconoscere i bisogni conoscitivi e le soglie di variazione dei fenomeni sanitari che possono influenzare le decisioni, dall’altro l’epidemiologia dà il meglio di sé nel formalizzare in un obiettivo conoscitivo ben disegnato (l’indicatore vero e proprio) la risposta più valida a tali bisogni conoscitivi. In questo modo l’epidemiologia detta le regole sui dati che dovrebbero essere rilevati per alimentare l’indicatore. Senza trascurare il fatto che la chiusura del cerchio, cioè la valorizzazione del risultato per soddisfare il bisogno conoscitivo e quindi influenzare la decisione, è anche merito del modo con cui viene rappresentato il risultato sulla base delle regole decisionali stabilite a priori. Nel giocare questo importante ruolo di snodo tra bisogno conoscitivo e sistemi informativi per la decisione, da sempre l’epidemiologia deve trovare un equilibrio tra l’esigenza di definire indicatori capaci di rappresentare in modo pertinente e valido il bisogno conoscitivo e quella di riuscire a farlo in modo sostenibile, quindi con i dati disponibili.

In questa storia i principali punti di sfida per l’epidemiologia emergono non tanto dal terreno degli indicatori dove l’epidemiologia si trova a suo agio nel definire le misure di occorrenza e le covariate che più soddisfano il requisito di validità. Piuttosto è la definizione del bisogno conoscitivo a richiedere un paziente esercizio di esegesi dei propositi dei decisori per assicurarsi che l’informazione prodotta sia capace di intercettare le soglie da loro utilizzate per la scelta e per prenderli a bordo fin dall’inizio del percorso di valutazione in modo che essi lo sentano proprio e vi partecipino. Il problema è che questa condizione iniziale spesso è fuori della portata dell’epidemiologia, o perché la rilevanza del suo ruolo non è sufficientemente riconosciuta in quell’occasione, o perché l’epidemiologia preferisce sottrarsi a questo non sempre appagante compito supplementare.

Infine, rimane molto critica la questione dei dati. Nonostante il grande sviluppo di nuovi sistemi informativi sanitari anche per i livelli di assistenza finora trascurati (emergenza e territorio), completezza e qualità dei dati non seguono sempre i requisiti dettati dagli indicatori e i tentativi di adeguamento più recenti, per esempio nel caso delle SDO, trovano resistenze non sempre giustificate dai problemi di fattibilità. Inoltre, anche l’esperienza lombarda messa in luce in questo numero della rivista dimostra la centralità dell’accesso del dato per l’integrazione a livello individuale dei dati di diverse fonti informative sullo stesso percorso assistenziale; operazione che è legittima a livello aziendale, mentre rimane di grande difficoltà a livello nazionale, dove aspetta la regolamentazione della facoltà attribuita ad AgeNaS per la valutazione di esito, e a livello regionale, dove aspetta la disciplina del decreto sui registri.

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