Immigrati, salute e assistenza sanitaria: l’epidemiologia che manca
L’estate scorsa le vicende dei migranti, dei soccorsi e dei morti nel Mediterraneo si sono proposte di nuovo in modo drammatico all’opinione pubblica; abbiamo visto crescere intolleranza e pregiudizi verso i popoli in migrazione. Poi sono stati siglati gli accordi con la Libia per evitare gli sbarchi, quando è apparso chiaro a tutti che meno arrivi sulle coste italiane significava (e significa) più sofferenza nei lager libici. In un clima cupo e lontano dall’idea di solidarietà e accoglienza che volevamo caratterizzasse il nostro Paese, il Sestante di Rodolfo Saracci (E&P 2017;41(3-4):158) ha richiamato la responsabilità dell’epidemiologia nell’indagare le persone che migrano: diffondere e interpretare i dati sulle statistiche vitali, sullo stato di salute, sulla qualità dell’assistenza per valutarne i rischi e indicare misure per la prevenzione e il miglioramento delle cure. Temi a cui E&P ha dedicato il recente supplemento Lo stato di salute della popolazione immigrata in Italia (E&P 2017;3-4).
Il fenomeno delle migrazioni è sicuramente complesso e le stesse caratteristiche dei migranti non hanno ancora una chiara fisionomia. Profughi per ragioni politiche o economiche, richiedenti asilo con o senza permesso di soggiorno, vittime di tortura e violenza, e poi adulti, minori non accompagnati, persone di etnia, nazionalità, religione, cultura diversificate: soggetti diversi che spesso consideriamo un solo popolo, ma appartengono a denominatori confusi e non ben censiti. A tali denominatori sono associati morti in mare non riconoscibili e non attribuibili nemmeno per nazionalità. Dal 2014 sono stati registrati a livello mondiale più di 22.500 migranti morti o dispersi in viaggio, di cui almeno 15.000 nel Mediterraneo centrale (IOM. Fatal Journeys. Volume 3, Part I. Improving data on Missing Migrants. 2017). E i numeri veri sono plausibilmente più alti perché molti eventi non sono registrati, in una drammatica vicenda di decessi senza storia. Decessi che probabilmente con politiche volte a garantire modi legali e più sicuri di muoversi da un Paese all’altro potrebbero in gran parte essere evitati.
Preso atto del fenomeno, abbiamo bisogno di sviluppare una epidemiologia delle migrazioni più strutturata, di migliorare le modalità di raccolta, analisi e comunicazione delle statistiche vitali dei migranti anche dopo la fase di emergenza.
Una volta superate le difficoltà del viaggio, il destino di molti migranti è variabile e non ben definito. Spesso si trovano situazioni di precarietà, incertezza, discriminazione e salute compromessa. Per anni si è ritenuto che l’“effetto migrante sano” fosse sufficiente a raccontare il fenomeno dal punto di vista sanitario. All’inizio del periodo di permanenza nel Paese, i migranti esprimono comprensibilmente bisogni assistenziali limitati, ma poi, in relazione al tempo di permanenza, all’età, alle condizioni di vita e di lavoro che incontrano, si manifestano eventi sanitari che li portano a un rischio accresciuto. Nel tempo si manifestano patologie cardiovascolari, ipertensione e disagio psichiatrico, in gran parte dovuto all’incertezza, alle condizioni di vita precarie, allo sradicamento dalla propria cultura. Per i bambini e gli adolescenti che in gran numero giungono sulle nostre coste anche non accompagnati, la vicenda sanitaria è ancora in gran parte ignota.
Le condizioni di salute dei migranti sono demandate all’assistenza dell’SSN che dovrebbe garantire loro l’identica attenzione rivolta ai cittadini italiani, ma è a volte inadeguata e non omogeneamente offerta sul territorio nazionale, lacuna colmata spesso dall’azione assistenziale di tante organizzazioni umanitarie che suppliscono ai ritardi dell’intervento pubblico.
In Italia, c'è spazio anche per un’epidemiologia della discriminazione, della disparità di trattamento che agisce ogni giorno sulla possibilità di trovare un lavoro, di affittare una stanza o una casa, vedere un medico per le cure necessarie, e che nel tempo può portare a malattie indotte dallo stress, oltre a perdite economiche importanti che influenzano in modo negativo lo sviluppo complessivo della società.
In sintesi, l’epidemiologia italiana ha bisogno di allargare la propria visione. Abbiamo bisogno di una disciplina più attenta ai fenomeni nuovi della società, che caratterizzi le popolazioni, studi l’occorrenza delle patologie anche in funzione dei fenomeni sociali, culturali e di discriminazione, ne valuti i percorsi assistenziali e aiuti alla decisione e all’azione. E sia anche uno strumento di advocacy. In Italia, vi è un gruppo solido di operatori riunito nella Società italiana di medicina della migrazioni (SIMM), che rappresenta un network scientifico unico, specificamente volto alla tutela della salute degli immigrati e impegnato a sostenere le buone pratiche nell’assistenza sia a livello nazionale sia locale. È anche con loro che E&P chiama l’epidemiologia italiana a operare per costruire studi e progetti di epidemiologia della migrazione.
Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.