Il riordino dell’assistenza ospedaliera in Italia al tempo del Piano nazionale di ripresa e resilienza
Introduzione
Nell’ultimo anno c’è stato un grande dibattito sul riordino dei servizi territoriali legato all’approvazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Contemporaneamente, è stato avviato e da pochi giorni completato un percorso di definizione di un atto sui “Modelli e standard per lo sviluppo della assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale”,1 gergalmente definito DM 71, espressione mutuata dal Decreto ministeriale (DM) 70 del 20152 che definiva modelli e standard per l’assistenza ospedaliera. Ed è da questo Decreto che partirò per parlare del riordino dell’altra metà del mondo della sanità: l’ospedale.
DM 70/2015: dalla sua approvazione fino alla fase precedente la pandemia
Il DM 70 venne approvato nel 2015 ed essendo nato ai tempi della Legge 135/2012 (la cosiddetta spending review) è stato spesso considerato espressione di una politica di soli tagli (i famigerati tagli lineari), cattiva fama cui ha dato un contributo il fatto che la applicazione del DM 70 abbia accompagnato la riduzione delle strutture complesse e semplici avviata negli stessi anni. Diamo uno scenario alla nascita del DM 70: mancavano standard strutturali e organizzativi che regolamentassero la assistenza ospedaliera, vi era una ipertrofia degli ospedali in numero sia di posti letto che di strutture cui corrispondeva una forte sofferenza dei servizi territoriali distrettuali, vi erano forti squilibri territoriali sia all’interno delle varie Regioni che tra Regioni, con volumi molto elevati di mobilità interregionale, e non erano chiari ruoli della sanità ospedaliera pubblica e di quella privata contrattualizzata.
Per cogliere appieno il senso del Decreto suggerisco di considerarlo come fossero le istruzioni di montaggio delle reti ospedaliere regionali, istruzioni che le Regioni dovevano adattare alla propria specificità. Queste che seguono sono le principali istruzioni di montaggio fornite:
- per ridurre il peso complessivo della assistenza ospedaliera viene fissato un numero massimo di posti letto in rapporto alla popolazione separatamente per l’assistenza ospedaliera in acuzie (3 posti letto ogni 1.000 abitanti) e quella in post-acuzie (0,7posti letto ogni 1.000 abitanti);
- per garantire una riduzione nel numero degli ospedali viene fissato un bacino di utenza minimo e massimo per le diverse discipline;
- per consentire a ogni ospedale di avere il giusto livello di complessità organizzativa in funzione del suo ruolo nella rete ogni struttura ospedaliera va attribuita ad una specifica tipologia di ospedale (ospedali di base, ospedali di primo e secondo livello, ospedali di area disagiata, ospedali con compiti complementari e di integrazione e infine ospedali monospecialistici);
- per garantire un adeguato rapporto volume di attività/esiti si sono previsti i volumi minimi di attività per alcune procedure/interventi;
- per migliorare la efficienza e l’equità di accesso si è previsto un modello a rete per diverse tipologie di attività definito nel dettaglio solo per le reti dipendenti dal tempo (quelle del trauma, dell’ictus e dell’infarto);
- per migliorare l’integrazione delle strutture private contrattualizzate si è previsto che raggiungessero un numero minimo di posti letto;
- per dare equità, efficienza e efficacia al sistema dell’emergenza/urgenza lo stesso viene ridisegnato sia a livello ospedaliero che territoriale;
- per compensare la riduzione dell’offerta ospedaliera si prevede una riorganizzazione della assistenza territoriale e si forniscono indicazioni per l’attivazione degli Ospedali di Comunità (quelli del PNRR per intenderci).
Cosa è successo nella pratica attuazione del DM a livello delle Regioni? Anche qui, e me ne scuso, conviene procedere per punti:
- la riduzione dei posti letto e degli ospedali c’è effettivamente stata, ma il percorso di revisione della rete ospedaliera con la classificazione di tutte le strutture è stato completato in pochissime Regioni;
- è mancata in quasi tutte le Regioni una valutazione di impatto delle misure adottate;
- la parte che ha trovato maggiore applicazione è quella relativa alla chiusura dei piccoli ospedali che in assenza di un potenziamento contestuale dei servizi territoriali ha dato la sensazione dell’abbandono a molte aree interne;
- la parte relativa al riordino della assistenza territoriale in assenza di standard (quelli forniti di recente dal DM 71) non ha trovato applicazione se non in rari casi così che la pressione sugli ospedali e soprattutto sui Servizi di Pronto Soccorso se possibile è pure aumentata;
- si sono ottenuti la maggiore concentrazione di alcune delle casistiche con un documentato rapporto volume/esiti e un miglioramento di alcuni indicatori di esito grazie al supporto del Programma nazionale esiti;3
- le reti cliniche dipendenti dal tempo e quelle neonatologica e dei punti nascita sono state avviate in quasi tutte le Regioni come documentato nell’ultimo rapporto dell’Agenzia per i servizi sanitari regionali;4
- la mobilità sanitaria interregionale non si è ridotta;
- la migliore integrazione tra rete ospedaliera pubblica e privata non c’è stata ed è aumentata la fuga degli specialisti pubblici nelle strutture private dove il peso delle urgenze è praticamente assente e dove la attività programmata specie di area chirurgica è salvaguardata a differenza di quello che avviene nelle strutture pubbliche.
E poi venne la pandemia
La pandemia ha accentuato la dicotomia tra le due opposte fazioni dei difensori (pochi e tra questi mi schiero io) e dei detrattori (molto più numerosi) del DM 70. Mano a mano che la pandemia avanzava si è parlato sempre meno del ruolo del territorio ed è soprattutto sull’ospedale che si sono concentrate le attenzioni e gli investimenti. Gli effetti negativi importanti della pandemia sugli ospedali pubblici sono stati tanti e tutti conseguenti alla carenza di spazi, tecnologie e risorse in grado di far fronte a una domanda altissima di prestazioni ad alto assorbimento di risorse e ad elevato rischio infettivo. Questa carenza ha riguardato soprattutto, ma non solo, due aree: quella del pronto soccorso e medicina d’urgenza e quella critica per l’assistenza a pazienti che avevano bisogno di assistenza intensiva o semintensiva. In quest’ultima area, specie all’inizio, mancava tutto, dai posti letto alle tecnologie e al personale specializzato, carenze cui si è cercato di far fronte sottraendo spazi e risorse ad altre aree di attività dell’ospedale. I principali risultati di questa situazione negli ospedali pubblici sono stati tra gli altri: la riduzione degli accessi al pronto soccorso anche per urgenze importanti come quelle cardiologiche; la riduzione della attività chirurgiche programmate con conseguente allungamento delle liste di attesa; la riduzione della offerta di prestazioni e di percorsi di presa in carico a livello ambulatoriale. In termini di salute, questi fenomeno hanno contribuito all’eccesso di mortalità registrato in Italia negli anni 2020 e 2021 (fonte: dati Istat).5 In estrema sintesi, gli ospedali pubblici con la pandemia sono entrati in crisi non solo per un mancato filtro da parte dei servizi territoriali, ma per una propria intrinseca debolezza rispetto ad una domanda cui non erano preparati. Un discorso a parte va fatto per le strutture private, molto meno coinvolte nella gestione della pandemia e quindi in grado di contenere la riduzione dei propri livelli storici di attività programmata specie in area chirurgica. Questa difformità ha verosimilmente influito sull’ulteriore aumento della “fuga” dei professionisti pubblici verso le strutture private.
La pandemia ha fornito l’occasione di ripensare il ruolo e l’organizzazione dell’ospedale. In particolare, sono emerse due esigenze “nuove”. Va innanzitutto prevista una “ridondanza” della rete ospedaliera in modo da avere la possibilità di avere una riserva di risorse (spazi, tecnologie e personale) da destinare ai picchi di attività che la pandemia determina. Il problema è che se spazi e tecnologie in più si possono costruire e acquisire, molto più difficile e anzi impossibile è avere riserve di personale da destinare allo scopo. E questo ci porta alla seconda esigenza nuova: la flessibilità della risposta ospedaliera alle emergenze pandemiche. Una definizione empirica di flessibilità potrebbe essere: la capacità del sistema sanitario e ospedaliero di modificare la propria organizzazione in modo da far fronte in tempi rapidi e per periodi limitati a bisogni emergenti qualitativamente diversi e quantitativamente aumentati. Questa flessibilità risponde soprattutto a due obiettivi: garantire un aumento della capacità di ricoverare pazienti con problematiche di tipo infettivologico, pneumologico e di area critica e la capacità di mantenere la più alta produzione possibile di attività ambulatoriali e chirurgiche programmate. Queste esigenze richiedono diverse tipologie di flessibilità da declinare non solo a livello di singola struttura, ma di rete ospedaliera complessiva e quindi comprensiva sia delle strutture pubbliche che private:
- una flessibilità strutturale: riguarda la disponibilità di spazi e tecnologie da poter mettere a disposizione i picchi emergenti di attività;
- una flessibilità organizzativa: riguarda la possibilità di “trasformare” la operatività di una parte della organizzazione in un altro tipo di operatività (ad esempio il personale del blocco operatorio chiamato a operare in area critica oppure l’attività chirurgica programmata trasferita nelle strutture private accreditate);
- una flessibilità culturale: questa è il prerequisito per una flessibilità organizzativa di qualità perché deve garantire la disponibilità di personale formato in modo da poter passare da una funzione ad un’altra;
- una flessibilità amministrativa: se c’è la pandemia cambia tutto compreso gli obiettivi di budget, i sistemi di reclutamento del personale, i sistemi premianti, la gestione di ferie e orari, i contratti di fornitura con le strutture private eccetera.
Il nuovo DM 70
La bozza del nuovo DM 706 che è circolata qualche mese fa in forma di brogliaccio (così l’ha chiamata il Ministro Speranza) può essere così sintetizzata:
- mantiene fermi i principi cardine del vecchio DM e quindi mantiene sostanzialmente fermi i limiti in termini di posti letto complessivi e conferma la classificazione per complessità degli ospedali e il riferimento ad un bacino minimo e massimo per la programmazione delle diverse discipline;
- prevede un aumento della disponibilità di posti letto intensivi e semintensivi (aggiungo io: da gestirsi almeno in parte con risorse da recuperarsi con i meccanismi citati della flessibilità);
- definisce meglio le reti cliniche in termini di meccanismi di funzionamento e di tipologia;
- assume un potenziamento del territorio sulla base delle scelte del PNRR e di quanto oggi previsto nel DM 71.
Ritengo giusta la rotta tracciata dal vecchio e “nuovo” DM 70 per il quale rimangono aperte però alcune criticità anche alla luce dei problemi complessivi del SSN nella attuale fase. Mi limito a citarne quattro:
- il sottofinanziamento del SSN e i tetti di spesa del personale rischiano di bloccare la sanità nel suo modello “ospedalocentrico” (espressione abusata, ma efficace e vera) attuale;
- in assenza di un monitoraggio centrale cogente il territorio verrà sempre penalizzato nelle Regioni a favore dell’ospedale, che entro certi limiti serve meno, ma fa prendere più voti;
- se non si riequilibrerà il rapporto pubblico/privato la fuga dei professionisti dal primo al secondo settore aumenterà;
- va recuperato il rapporto tra governo politico, management aziendale e professionisti, una triangolazione che oggi non funziona.
Nel monitoraggio dell’evoluzione dell’assistenza ospedaliera a livello regionale, il ruolo assegnato alla epidemiologia è stato quasi ovunque poco rilevante, in linea con il sottoutilizzo degli strumenti e delle competenze che la disciplina potrebbe mettere a disposizione del governo dei processi di cambiamento nel SSN. Purtroppo attualmente l’incrocio tra i percorsi della politica sanitaria e i percorsi della epidemiologia è poco frequentato all’interno del SSN. Invece dovrebbe diventare così affollato da meritare una rotatoria, il che in termini organizzativi vorrebbe dire costruire la rete strutturata su cui l’Associazione Italiana di Epidemiologia ha di recente formulato una sua proposta.7
Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.
Bibliografia
- DM 71: Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza Territoriale nel Servizio Sanitario Nazionale. Disponibile all’indirizzo: https://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato1650560930.pdf
- Decreto Ministeriale n.70, 02.04.2015. Regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera. Gazzetta Ufficiale n.127 del 04.06.2015.
- Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali. Programma Nazionale Esiti – edizione 2021. Disponibile all’indirizzo: https://pne.agenas.it/
- Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali. II Indagine Nazionale sullo stato di attuazione delle reti tempo-dipendenti. Rapporto 2021. Disponibile all’indirizzo: https://www.agenas.gov.it/images/agenas/In%20primo%20piano/2021/reti/Report_Reti_Tempo_dipendenti.pdf
- Nuvolone D. Mortalità generale in Italia e in Toscana nel biennino 2021-21. Disponibile all’indirizzo: https://bit.ly/3yk8QR3
- Proposta di aggiornamento “Decreto Ministeriale 2 aprile 2015 n. 70 – regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera”. Disponibile all’indirizzo: https://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato939105.pdf
- Bisceglia L, Ancona C, Brescianini S et al. Le funzioni di epidemiologia nella riorganizzazione del SSN. Una proposta dell’Associazione Italiana di Epidemiologia. Epidemio Prev 2022;46(1-2):8-10.