I cambiamenti del mondo del lavoro e i rischi per la salute
I profondi mutamenti socioeconomici intervenuti in Italia negli ultimi decenni hanno modificato in modo sostanziale le condizioni di lavoro e i relativi fattori di rischio: si possono riassumere nel seguente elenco.
- Progressivo spostamento dell’occupazione dai settori primario e secondario verso il terziario. All’inizio del 1900 in Italia più del 70% dei lavoratori era occupato in agricoltura, i restanti erano equamente suddivisi tra industria e servizi. Dopo la Seconda guerra mondiale, il boom industriale ha visto aumentare l’occupazione nel settore secondario (fino al 45% del totale) con spostamento di molta manodopera da quello agricolo. Alla fine del secolo si è invece andato progressivamente consolidando il trend verso l’occupazione nel terziario a scapito degli altri due settori. Secondo i dati ISTAT del 20111 essa ora risulta pari al 67,8% nei servizi, al 28,5% nell’industria (edilizia inclusa) e al 3,7% in agricoltura.
- Progressiva riduzione dei tradizionali fattori di rischio occupazionale di tipo biologico e chimico-fisico, contro un crescente aumento dei fattori di rischio di carattere psicosociale, condizionati dalle mutate forme di organizzazione del lavoro. Ciò determina una sempre maggiore rilevanza del carico mentale del lavoro e delle modalità di rapporto e relazione interpersonale. La letteratura documenta che lo stress è implicato, mediante diversi meccanismi fisiopatologici e psico-relazionali, nella patogenesi di numerosissime disfunzioni e patologie, acute e croniche, a carico dei vari sistemi e apparati, quali cardiovascolare, gastrointestinale, neuropsichico, cutaneo, endocrino, metabolico e immunologico, nonché di degenerazione neoplastica; ha inoltre conseguenze negative sulle relazioni familiari e sociali. In base alle ultime due indagini della Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di Dublino, tra i lavoratori dell’Unione europea il problema «stress» risulta al primo posto, assieme ai disturbimuscolo-scheletrici,2 mentre il costo globale delle patologie stress-correlate è stimato in più di 20 miliardi di euro all’anno, comprendendo costi lavorativi, sanitari e sociali.3
- Avvento delle nuove tecnologie (elettronica, automazione, informatica, nanotecnologie) che, oltre a modificare i metodi e i sistemi di produzione, ha rivoluzionato le modalità di interscambio e commercializzazione di merci e l’erogazione/fruizione di beni e servizi. Il loro impatto sulla vita e sulla salute delle persone non è ancora adeguatamente compreso e valutato, a fronte dell‘importanza economica e sociale di cui godono, testimoniata dal fatto che i progetti di ricerca sulle nuove tecnologie di informazione e comunicazione (ICT) assorbono la proporzione maggiore dei finanziamenti del VII programma quadro (2006-2013) dell’Unione europea.4
- Globalizzazione e flessibilità dei mercati, sia a livello internazionale sia locale, che si traduce in modificazioni di forma e durata dei contratti di lavoro (a tempo determinato, lavoro somministrato, a chiamata, a progetto), nella delocalizzazione delle attività aziendali in diverse aree geografiche del pianeta, nell’esternalizzazione di molteplici attività complementari o di supporto, nella scissione tra gestione produttiva e finanziaria delle imprese, nella diversificazione dei modelli organizzativi. Negli ultimi anni i lavoratori parasubordinati sono in costante crescita: nel periodo 1996-2004 essi erano aumentati del 108% con un incremento medio annuo del 9,6%; nel 2010, i lavoratori cosiddetti «atipici» (part-time, a termine, di stage, interinali, parasubordinati) risultavano tra 2,5 e 4 milioni, ossia dall’11,3% al 17,2% del totale della forza-lavoro, secondo le stime di ISTAT e CGIA (Associazione artigiani e piccole imprese) di Mestre rispettivamente, la maggior parte dei quali nelle regioni del Centro-Sud. Dal 1977 al 2009 i lavoratori autonomi sono passati dal 13,9% al 20,9% nel settore industriale e dal 18,8% al 37,6% nel settore delle costruzioni, mentre sono calati dal 62,3% al 52,5% in agricoltura e dal 28,9%al 25,2%nel settore dei servizi.1 I lavori atipici sono caratterizzati da un’elevata discontinuità d'impiego, in ambienti di lavoro diversi e contesti organizzativi mutevoli, orari molto variabili e diversificati, esposizione a fattori di rischio multipli e frammentati, compiti più gravosi e “sporchi”, ruoli marginali nell’impresa, minori livelli di informazione e formazione specifica, quindi maggiore vulnerabilità infortunistica e difficoltà di tracciabilità del rischio occupazionale, nonché di appropriato controllo delle condizioni di salute per possibili effetti cumulativi a lungo termine.
- Rapida espansione della cosiddetta «società delle 24 ore», che comporta una sempre maggiore interconnessione spazio-temporale su scala planetaria, con la conseguente necessità di interagire in tempo reale, sia a fini lavorativi sia sociali, tra persone di aree geografiche e fusi orari differenti. Gli orari di lavoro si vanno quindi sempre più estendendo alle ore serali e notturne e ai giorni festivi, assumendo una variabilità sempre più accentuata, comprendendo il lavoro a turni, il part-time, il lavoro nel weekend, la settimana compressa, gli orari variabili di inizio e fine lavoro, il lavoro straordinario, il lavoro su chiamata, il telelavoro. La III indagine europea (2000) sulle condizioni di lavoro ha evidenziato che solo il 24% dei lavoratori (27% dei dipendenti e 8% degli autonomi) lavora nel normale orario giornaliero (tra le 7-8 del mattino e le 17-18 del pomeriggio, dal lunedì al venerdì).5 Secondo la IV indagine europea del 20056 l’orario medio settimanale di lavoro varia da 34 ore in Olanda a 55 ore in Turchia (minimo 8,massimo 90 ore), e il lavoro con turni notturni interessa il 21% dei lavoratori. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) l’orario annuale di lavoro supera le 1.800 ore in 27 Paesi su 52 monitorati dal 1996 al 2006.7 Nel 2005, in Europa il 16,9% dei lavoratori dei 27 stati membri lavorava 48 o più ore settimanali (dall’11,1% in Lussemburgo al 32,1% in Turchia).
- Progressivo invecchiamento della popolazione generale, quindi anche di quella lavorativa. L’Italia è attualmente il Paese più vecchio del mondo assieme al Giappone: la speranza di vita media oggi è di 79,1 anni per gli uomini e 84,3 per le donne, mentre l’età media della popolazione generale è attualmente di 43,5 anni; era invece di 38,9 anni nel 1991 e di 33,5 nel 1961.1 Il rapporto di dipendenza in relazione all’età (rapporto tra le persone con più di 65 anni e quelle di età compresa tra 20 e 65 anni) è attualmente pari al 29% e si stima che supererà il 60% nel 2050, raggiungendo il 58% entro il 2025.8 A fronte di ciò, il tasso di occupazione italiano delle persone di età superiore a 55 anni è attualmente tra i più bassi in Europa (32% contro 50% in Portogallo, 60% in Danimarca, 70% in Svezia),9 ma aumenterà significativamente nei prossimi anni, anche in relazione a fattori di sostenibilità economica, in particolare all’innalzamento dell’età pensionabile. Vi sarà pertanto un sempre maggior numero di persone anziane attive che avranno necessità o che richiederanno di lavorare; contemporaneamente vi sarà un sempre maggior numero di soggetti anziani con diversi gradi di disabilità ai quali occorreranno forme migliori di assistenza sanitaria e di sostegno lavorativo. Tali aspetti contrastanti pongono il problema di come mantenere in buone condizioni di salute le persone che invecchiano promuovendone la qualità di vita, l’autonomia e l’integrazione lavorativa e sociale mediante soddisfacenti condizioni di lavoro (ambientali e relazionali) e corretti stili di vita, con conseguenti minori costi sanitari e sociali per l’individuo e per la collettività.10
- Aumento del tasso di occupazione femminile, che seppure ancora inferiore a quello maschile, ha visto un incremento 7 volte superiore negli ultimi 15 anni. Secondo i più recenti dati ISTAT,1 su 23 milioni di persone occupate in Italia nel 2009 il 59,9% erano uomini e il 40,1% donne. Nel 1977 risultavano «attive» (occupate o in cerca di lavoro) solo il 35% delle donne tra 25 e 64 anni, mentre nel 2009 esse erano il 56%. Tale dato è tuttavia ancora molto lontano dalla media europea dei 27 Paesi membri della UE, pari al 69,4%, con punte oltre l’80% nei Paesi scandinavi. Oltre alle ben note differenze di carattere biologico, che possono comportare un maggior rischio per la salute fisica e la fertilità in caso di esposizione a sostanze tossiche e o peculiari condizioni di lavoro (per esempio lavoro notturno), in questi ultimi anni si sono fatti sempre più numerosi gli studi concernenti il conflitto casa-lavoro, soprattutto in termini di pressione del tempo e di conciliazioni di ruoli e doveri familiari e professionali, che si traduce in maggiori costi lavorativi (investimento e soddisfazione, possibilità di carriera, turnover, precarietà) e personali (assenteismo, disturbi e patologie psicosomatiche, rapporti familiari e sociali).
- Crescita della domanda di inserimento e reinserimento lavorativo per persone con diversi gradi di disabilità, sia su base eredo-familiare sia conseguente a traumi e/o patologie cronico-degenerative (cardiovascolari, respiratorie, muscolo-scheletriche, neuropsichiche e neoplastiche). Attualmente risultano occupate meno del 18% delle persone con disabilità in età lavorativa11 e solamente il 3% ha come fonte principale un reddito da lavoro. Dei disabili occupati tra i 15 ai 44 anni, il 15,5% sono donne e il 29,4% uomini, mentre tra i 45 e i 64 anni le donne occupate sono solo il 6,6% contro il 20,8% degli uomini. In Italia, la spesa sociale per invalidità e disabilità è passata da 12 miliardi di euro nel 1990 a 20,5 nel 2003,12 fino a 47 miliardi nel 2009.13
- Crescente immigrazione e occupazione di persone provenienti dall’Est Europa, dall’America latina, dall’Asia e dall’Africa che impone di valutare attentamente differenti condizioni di vulnerabilità ai fattori di rischio lavorativi, anche in riferimento a fattori genetici e socioculturali. Nel 1961 erano 62.780 gli stranieri ufficialmente residenti in Italia, al 1° Gennaio 2010 essi sono divenuti 4.235.059, di cui 2.000.000 circa occupati. Secondo il Rapporto 2011 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali14 la crescita dei lavoratori stranieri avviene soprattutto per gli impieghi meno qualificati e a bassa specializzazione, in particolare quelli riguardanti i servizi sociali e alla persona e i settori edile e agricolo; nei prossimi 9 anni l’Italia avrà bisogno di 1.800.000 nuovi lavoratori stranieri, ossia circa 200.000 persone all’anno.
- Aumento dei bisogni e delle aspettative professionali delle giovani generazioni, in relazione ai maggiori livelli di istruzione e di formazione professionale acquisiti. Il tasso di analfabetismo è attualmente dell’1,5%, mentre era il 5% nel 1971 e il 27,4% nel 1921. Nel 1951 solo il 3,3% degli italiani era diplomato e l’1%laureato, mentre ora il 25% è diplomato e il 7,1% è laureato. Nel 1970 gli iscritti all’università erano il 12%, mentre nel 2009 erano il 41,5% dei giovani fra i 19 e i 25 anni. In Italia, nel 1950 le donne costituivano il 31% dei laureati, invece ora sono il 56,7%.1 Tutto ciò porta a riconsiderare le finalità e gli obiettivi prioritari della medicina del lavoro e della sanità pubblica più in generale, al fine di rispondere adeguatamente a una realtà occupazionale che cambia molto rapidamente. Nei prossimi decenni l’impegno della medicina del lavoro dovrà essere sempre più orientato verso obiettivi di prevenzione primaria e di promozione della salute nell’ambiente di lavoro, nonché di prevenzione terziaria in termini di riabilitazione e (re)inserimento lavorativo. La prima dovrà basarsi su indagini epidemiologiche sempre più accurate volte a definire l’eventuale associazione tra condizioni di lavoro e disturbi e patologie lavoro-correlati, tenendo conto dell’interazione tra molteplici fattori di rischio occupazionali e non, così come su di una costante attività di informazione e formazione a tutti i livelli, rivolta sia a chi svolge compiti progettuali e dirigenziali, sia a chi svolge compiti prevalentemente esecutivi. La seconda dovrà orientarsi su interventi di supporto mirati all’inserimento lavorativo di persone con diversi gradi di abilità/capacità di lavoro, al fine di trovare il giusto rapporto tra le richieste del compito e le capacità funzionali della persona.
Bibliografia
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