Editoriali
26/11/2009

Comunicazione ed emergenze di sanità pubblica

L’esistenza e la gravità di un rischio spesso non hanno legami logici con le reazioni della popolazione, ma queste in gran parte sono indotte dalle forme comunicative con cui i rischi o le emergenze vengono presentati. Alcuni episodi verificatisi in Italia nel corso dei primi allarmi sull’influenza aviaria sono molto eloquenti rispetto al ruolo che la comunicazione in sanità pubblica può giocare in situazioni simili: il consumo delle carni di pollo si è ridotto del 70%, un trasportatore di carni rimasto in difficoltà economica ha sterminato la famiglia e si è suicidato, un meccanico siciliano che ha raccolto un cigno morto ha visto svuotarsi la sua officina di clienti. A nulla sono valsi gli inviti e le rassicurazioni delle autorità circa l’assenza di pericolo nel consumare carni cotte: la riduzione del consumo è rimasta, inducendo il Ministro dell’agricoltura a intercedere presso la Comunità europea per poter intervenire in aiuto degli allevatori in crisi. Forti di queste esperienze, quando si è presentata la pandemia da H1N1 ci si è affrettati a chiamarla con un nome neutro e non suina, né messicana, temendo contraccolpi economici simili a quelli verificatisi con l’aviaria. Tuttavia le esperienze pregresse ci hanno insegnato poco e, dopo essere incorsi in altrettanti errori e distorsioni dell’informazione nel corso dell’attuale epidemia, dobbiamo riconoscere di essere ancora lontani da livelli qualitativi accettabili di gestione della comunicazione. Abbiamo perso molto tempo a darci la colpa gli uni con gli altri. I giornalisti «illuminati» accusano i politici e la comunità scientifica di diffondere messaggi contraddittori, poco chiari, a volte carenti di dati di supporto; i tecnici accusano i giornalisti di rincorrere sempre il sensazionalismo e i politici di rivolgersi sempre agli elettori più che ai cittadini. Ciò ha dato origine solo a sterili polemiche, o peggio, a proposte insensate di soluzione (per esempio, corsi di corretta comunicazione fatti a giornalisti da parte di medici) senza riflettere che in gran parte questo è un dato ineliminabile: è noto infatti che scienziati e giornalisti hanno obiettivi diversi, e ciò crea filtri diversi e di difficile conciliazione nella produzione di informazione.1 Quando ci si è resi conto che prima di tutto occorreva lavorare sul proprio modo di diffondere informazioni si è fatto qualche passo avanti. Si è realizzato che la mancanza di strategie e tecniche di informazione causa disorientamento nella popolazione, può compromettere la sua necessaria collaborazione in azioni di sanità pubblica e può generare protezione disuguale nei vari livelli sociali.2 Ottime operazioni di razionalizzazione nella comunicazione dei tecnici sono state messe a punto dal Center for diseases control (CDC) e dall’OMS con la pubblicazione di linee guida molto articolate con analisi puntuali sulle migliori tecniche comunicative su specifici argomenti e verso specifici target di popolazione.3,4 I giornalisti scientifici «illuminati», dal canto loro, hanno enormemente migliorato la capacità di raccogliere informazioni scientifiche valide, hanno raffinato i criteri di selezione degli interlocutori scientifici, consultano PubMed, stigmatizzano il giornalismo di inchiesta con alle basi verità precostituite, propongono codici di comportamento etico, perché non prevalga sempre e comunque l’obiettivo sensazionalista. Purtroppo, questi lodevoli sforzi non hanno ancora prodotto risultati tangibili. Sappiamo tutti, infatti, che non basta predisporre linee guida perché gli addetti ai lavori cambino comportamento; il risultato atteso poi è ancora minore se chi si interessa a quelle linee guida è una piccola proporzione dei tecnici che comunicano con i media e diventa pressoché nullo se anche chi ha letto le linee guida e ha ispirato il proprio comportamento alle regole della comunicazione efficace non raggiunge gli obiettivi attesi. Di questa categoria temo di essere la prova vivente: durante l’epidemia di influenza H1N1 ho più volte constatato la costante deviazione del mio messaggio, verificatasi non per dolo, ma per il semplice passaggio attraverso il filtro professionale dei giornalisti. Altrettanto trascurabile è l’impatto degli sforzi dei giornalisti “illuminati”. Quando si è in presenza di un fenomeno di dimensioni mondiali, come le pandemie, infatti, le informazioni escono inesorabilmente dalle mani dei professionisti più consapevoli e viaggiano, rimbalzano, si gonfiano e si sgonfiano dominate da leggi imperscrutabili e ingovernabili. Un servizio del TG3 della Campania in occasione del primo morto di H1N1 a Napoli è un esempio molto eloquente di queste problematiche. Le immagini del funerale con la chiesa completamente vuota e gli addetti delle pompe funebri che trasportavano la bara con le mascherine chirurgiche hanno causato un impatto drammaticamente distorto sulla percezione del rischio dei telespettatori, ma erano di grande tensione e di una forza straordinaria in termini di richiamo. Che cosa doveva fare il giornalista? Evitare il servizio? Omettere quelle immagini? Avrebbe fatto male il suo mestiere. Questa mi sembra la prova che alcune contraddizioni sono ineliminabili. Come inevitabile è il disorientamento del pubblico quando esiste incertezza scientifica. Nonostante questi vincoli, tentare di cogliere qualche punto aggredibile non è inutile. Per farlo abbozzo un’analisi un po’ schematica utilizzando come modello non già le teorie sulla comunicazione più moderne e sofisticate (che non saprei padroneggiare) ma gli schemi interpretativi della comunicazione usati da Aristotele circa 2.300 anni fa, a mio giudizio ancora universalmente validi. Una comunicazione per essere efficace deve possedere tre caratteristiche fondamentali: il logos (il messaggio, il suo confezionamento, le sue caratteristiche di linguaggio, di chiarezza etc.) il pathos (ovvero la misura in cui il messaggio genera partecipazione emotiva o entra in una situazione emotiva favorevole) e l’ethos (ovvero la statura etica di chi “firma” il messaggio stesso).5 Nei messaggi sulla pandemia tutte e tre queste caratteristiche sono state problematiche. I media e i politici in queste situazioni parlano per primi. Essi però hanno obiettivi centrali diversi rispetto alla mera tutela della salute pubblica. La vendita di notizie domina l’azione dei media e i migliori arnesi sono le iperboli e le polarizzazioni. I politici hanno come impulso primario quello di apparire in grado di dominare una situazione grave, per tutelare la cittadinanza minacciata. Primo risultato: generazione di allarme ingiustificato o esagerato. Secondo risultato: fallimento delle rassicurazioni, in quanto la frequente inefficacia delle misure immediate e visibili disposte dai politici riduce la fiducia della gente nei loro confronti. Risultato finale: duplice spauracchio: minaccia grave e impotenza umana. Il confezionamento del messaggio (il logos), dunque, è profondamente distorto dagli obiettivi comunicativi dei soggetti che per primi e più diffusamente si pronunciano sull’argomento. Del resto, il logos è debole anche nella comunicazione effettuata dagli esperti. Clinici, scienziati e professionisti di sanità pubblica non dispongono in media di un’expertise sufficiente nella comunicazione e hanno anche loro obiettivi collaterali con potenziale produzione di interferenze nel messaggio. Aumentare l’attenzione sulla ricerca e sul prestigio della categoria, pensare al giudizio dei colleghi più che agli effetti sul pubblico ne sono alcuni esempi. Per quanto riguarda il pathos, non si è assolutamente in grado di gestire la facilità delle reazioni emotive delle popolazioni. Cittadini bloccati negli alberghi, scuole chiuse, navi sequestrate, turisti rincorsi sono potentissimi generatori di pathos, che nessuna argomentazione razionale riesce a frenare.6 Quando ci sono tentativi di gestire il pathos, inoltre, si verifica un alternarsi di input preoccupanti per suscitare vigilanza e di input tranquillizzanti per arginare gli allarmi generati. Ciò ha come effetto ulteriore confusione e perdita di fiducia. E quando la fiducia è persa, manca anche l’ultimo elemento, l’ethos, ossia la statura etica, oggi potremmo definirla la reliability di chi formula i messaggi. A seguito di questa interpretazione, ancorché molto schematica, si può concludere che non sappiamo usare una delle fondamentali armi di difesa nei confronti di un evento grave e diffuso come una pandemia, ovvero la comunicazione efficace di informazioni corrette e generatrici di comportamenti protettivi; anzi, siamo sulla buona strada per comprometterla definitivamente. Le raccomandazioni per il futuro sicuramente riguardano la costruzione di un appropriato curriculum di sperimentazioni e validazioni per la comunicazione in sanità pubblica, la cui povertà scientifica è stridente rispetto alla sua importanza. L’impegno di studi e risorse in questo campo non è più rinviabile. Infatti, nonostante la grande importanza attualmente data alla comunicazione e alla scienza della comunicazione (forse troppo impegnata a sviluppare modelli di supporto al marketing) non sono stati ancora prodotti modelli affidabili per la sanità pubblica. Nel breve periodo, un miglioramento della qualità dell’informazione in situazioni di emergenza si potrebbe ottenere disponendo di un’Authority per la comunicazione a cui fosse affidato il compito di fornire i messaggi ufficiali alla stampa e alla popolazione. Un organismo di riferimento, comprendente tutte le professionalità coinvolte nella situazione di emergenza specifica, indipendente da gruppi economici, politici o professionali potrebbe raggiungere sia risultati comunicativi ottimali, sia quella autorevolezza (l’ethos) necessaria perché l’arma della comunicazione sia diretta a proteggere la popolazione dagli eventi nocivi e dagli effetti collaterali degli allarmi, anziché aggiungere danni a danni, come si verifica attualmente. Quest’ultima proposta può non essere gradita ai politici, e non solo, ma allora è urgente che se ne producano di alternative, perché riproporre la situazione attuale, per i motivi esposti, non è ulteriormente sostenibile.

Bibliografia

  1.  Schuchman M. Medical scientists and health news reporting: a case of miscommunication. Ann Int Med 1997; 126: 976-82.
  2. Vaughan E, Tinker T. Effective health risk communication about pandemic influenza for vulnerable populations. Am J Public Health 2009; 99 (Suppl 2): S 324-32.
  3. CDC. Crisis and emergency risk communication. CDC course September 2002. http://www.bt.cdc.gov/cerc/pdf/CERC-SEPT02.pdf
  4. WHO. Effective media communication during public health emergencies. A WHO Handbook. WHO July 2005.
  5. Aristotele. Retorica
  6. Progetto Watchdog. Nuova influenza. Come difendersi. Quello che non ci dicono. Ed. Terre di Mezzo 2009.
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