Come la ricerca delle nuove terapie per la SARS-CoV-2 ha colpito la letteratura scientifica. È tempo per pensare a nuovi approcci?
Tra i tanti stravolgimenti che la pandemia da Sars CoV-2 si porta dietro possiamo enumerare anche l’effetto devastante che ha avuto sull’editoria scientifica. Nell’immaginario collettivo le risposte terapeutiche e i progressi di cura per questa nuova pandemia sarebbero dovuti apparire prima in autorevoli riviste scientifiche per poi essere divulgate al pubblico. Invece, soprattutto nelle fasi iniziali, sono stati i comunicati stampa, le opinioni dei singoli esperti senza vaglio tra pari e gli studi non ancora pubblicati a dettare la linea. Il fenomeno ha convinto alcuni autori a coniare un nuovo termine: paperdemic.1 A marzo 2020 i risultati di un piccolo studio non randomizzato (26 pazienti trattati verso 16 controlli) è diventato il punto di riferimento mondiale per la scelta dell’idrossiclorochina come terapia standard per la cura del COVID-19, anche nelle fasi precoci e moderate dell’infezione virale, spesso in associazione con un antibiotico, l’azitromicina.2 Sulla base dei molti elementi critici e delle poche informazioni disponibili circa la qualità dei dati raccolti, lo studio sarebbe passato inosservato se un enorme battage mediatico e la ricerca spasmodica di una pronta soluzione di cura non avesse acceso l’interesse mondiale su questi dati del tutto preliminari. Le Agenzie regolatorie a questo punto sono state costrette a correre ai ripari per controllare l’imponente utilizzo off-label di questi e altri farmaci3 con cui in tutto il mondo si cercava di porre un freno all’epidemia.
Per capire al meglio il fenomeno è utile tener presente che le redazioni delle riviste scientifiche sono state sommerse da proposte di studi, revisioni, lettere, commenti e opinioni con numeri mai visti neanche nelle precedenti epidemie ed emergenze.4 La frenesia aumenta immancabilmente i rischi relativi alla qualità del dato. Infatti, due corazzate dell’editoria medica, The Lancet e New England Journal of Medicine, sono state costrette a ritirare due studi appena pubblicati.5 Nel primo caso si trattava un’analisi svolta su un registro che raccoglie dati di oltre 96 mila pazienti ricoverati in 671 ospedali di sei continenti con diagnosi di COVID-19 e che misura efficacia e sicurezza proprio dell’idrossiclorochina. Nel secondo, gli autori facendo riferimento a registri di prescrizioni e cure della stessa società, analizzavano l’impatto della Sars-CoV-2 sulla mortalità in pazienti con patologie e farmacoterapie cardiovascolari. In questo contesto non è tanto importante raccontare il fatto in sé – tutto ciò meriterebbe una trattazione più ampia di un editoriale – tanto quanto rilevare che, come molte pratiche mediche, anche il processo di pubblicazione e di verifica della qualità dei dati originali è stato travolto dall’epidemia, mettendo in discussione molti dei suoi punti di riferimento. La pubblicazione e la repentina ritrattazione di questi dati ha per una volta eliminato la distinzione tra le informazioni che si succedevano contradditorie sui media generali e le fonti scientifiche ufficialmente riconosciute.
L’importanza della sperimentazione clinica controllata
Una recente analisi basata sul database pubblico clinicaltrial.gov ha rilevato che, a partire da gennaio 2020, sono stati varati circa 1.200 studi clinici per testare vecchi e nuovi trattamenti per il COVID-19.6 Sembrerebbe il segnale di uno sforzo positivo nella ricerca frenetica di una risposta all’emergenza. Tuttavia. un’analisi più attenta mostra che spesso gli studi in questione sono troppo piccoli per rispondere alle domande di ricerca, mancano di veri gruppi di controllo e viene posta troppa enfasi su alcuni potenziali trattamenti con scarso o nullo razionale scientifico. In fin dei conti, è proprio quanto è successo con l’idrossiclorochina; non è la prima volta infatti che viene inclusa nella lista dei medicinali efficaci nel contrastare virus di diverso tipo.7 Senza aspettare particolari conferme sperimentali, abbiamo trattato con questo e altri farmaci moltissimi pazienti prima di convincerci dell’indispensabilità del disegno randomizzato, abbastanza grande (eventualmente a più braccia), pragmatico e con un controllo adeguato per ottenere delle risposte affidabili all’impellente quesito di salute pubblica. Ancora una volta la letteratura scientifica ha avuto una voce troppo debole rispetto alla pressione suscitata dalle certezze, per esempio, di un presidente degli Stati Uniti ormai convinto dell’efficacia del farmaco sulla base di non precisate fonti di informazione.8 Tutto ciò ha aumentato la confusione con il Presidente, questa volta della Russia, che ha annunciato la disponibilità di un nuovo vaccino in assenza di dati pubblicati su riviste scientifiche.
La perdita di distinzione tra pubblicistica dei media e letteratura scientifica
Un ulteriore elemento che potrebbe aver minato la credibilità delle riviste scientifiche potrebbe essere legato alla sproporzione che esiste per il COVID-19 tra il numero di opinioni e commenti pubblicati rispetto ai dati originali.9 Su 4.493 articoli dedicati alla pandemia solo 23% riporta dati originali, prevalentemente di tipo osservazionale e in minima parte da studi clinici randomizzati (0,07%). Si potrebbe azzardare che molte di questi articoli sono stati alimentati più dalla volontà degli editori di aprire nuovi spazi di confronto tra ricercatori. Purtroppo, però, molte di queste rubriche estranee al processo di peer review (Blog, Opinion sections, preprint ecc.) sono diventate delle vetrine per anticipare teorie o anche terapie senza un reale vaglio critico. È chiaro che in situazioni di grande incertezza occorre avere degli spazi di discussione che alimentino in modo costruttivo il dibattito e la costruzione delle diverse teorie. Il problema è il riflesso che tutto ciò ha poi sui media e sull’opinione pubblica. Se a quest’ultima è stata presentata fino a ieri una narrativa della medicina come una scienza che pubblica solo dati certificati, sarà molto difficile oggi raccontare invece che negli stessi giornali è possibile invece trovare dati dubbi, e privi di valutazione critica.
Una possibile via di fuga
Fin da subito è quindi emerso il bisogno di orientarsi all’interno di un tale mare magnum di dati e allo stesso tempo l’importanza di trovare un approccio metodologico valido per ordinare in modo celere tutte queste informazioni. Tra le possibili strade da percorrere, piuttosto che incentivare la pubblicazione sempre più precoce dei dati o l’annullamento completo del processo di peer review, è emersa la possibilità di rendere più efficiente la revisione continua e prospettica dei dati man mano che questi si rendono disponibili. Si tratta in pratica di applicare al metodo delle revisioni sistematiche un approccio prospettico e di aggiornamento continuo. A partire dal gruppo editoriale del British Medical Journal, alcuni gruppi editoriali hanno messo in piedi delle piattaforme accessibili pubblicamente dove i dati degli studi vengono sintetizzati con grafici che si aggiornano di continuo dando la possibilità di seguire e correggere le raccomandazioni circa le terapie più efficaci e sicure.10
In tale contesto, anche il centro GRADE italiano, presso il Dipartimento di epidemiologia del SSR della Regione Lazio, sta lavorando a una revisione sistematica sull’efficacia dei trattamenti farmacologici per il trattamento delle persone affette da COVID-19 (https://www.deplazio.net/farmacicovid/index.html). La revisione viene aggiornata settimanalmente monitorando la letteratura scientifica pubblicata sulle principali banche elettroniche biomediche e raccogliendo i dati di tutti gli studi randomizzati controllati, e degli gli studi in corso pubblicati nel Registro del gruppo Cochrane e nel Registro AIFA. I dati sono presentati usando il metodo GRADE che prevede lo sviluppo di tabelle sintetiche in cui, per ciascun esito, sono riassunti i risultati disponibili e valutato il grado di confidenza delle prove esaminate. I risultati vengono anche sintetizzati in una network metanalisi, una analisi statistica che permette di combinare i risultati ottenuti da studi che rispondono allo stesso quesito clinico.11 I risultati fino ad ora mostrano che la maggior parte delle prove prodotte da questi studi sono di qualità bassa o molto bassa e alta è l’incertezza circa l’efficacia per la maggioranza degli interventi ad oggi valutati.
In generale, l’emergenza dovrebbe aver rafforzato la convinzione che le sperimentazioni devono essere rigorose anche in situazioni di emergenza come questa e che, in assenza di prove certe la scelta più etica è inserire pazienti nei trial in corso invece di somministrare farmaci di cui non conosciamo il profilo di beneficio/rischio. Quando i politici e gli enti regolatori formulano raccomandazioni che non considerano in modo sufficientemente accurato le prove disponibili, rischiano di causare danni ai malati e conseguenze sociali ancora maggiori, tradendo in definitiva la fiducia dei cittadini di cui sono responsabili.
In conclusione, la pandemia ha messo in evidenza le molte ombre della letteratura scientifica soprattutto in situazioni di emergenza. Avendo da tempo abdicato al ruolo di punto di raccolta critica del dibattito scientifico, spesso a favore di annunci e pubblicazione prematura di dati incompleti, in queste fasi di emergenza si sente molto il bisogno di una rifondazione critica dell’intero sistema di comunicazione scientifica.12 In tutto ciò il recupero di un metodo rigoroso trasparente quale quello dettato dalle revisioni sistematiche potrebbe essere di aiuto nel fornire indicazioni in modo continuo e aggiornato. Naturalmente non dobbiamo dimenticare che in assenza di studi clinici metodologicamente validi sarà impossibile comunque fornire risposte affidabili e anche un rigoroso esercizio di sintesi risulterà vano.
Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.
Bibliografia
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