Collaborare per la salute: i cittadini e le mascherine
Fin dall’inizio della crisi dovuta a COVID-19, e sempre più con il passare dei mesi, le mascherine sono diventate metonimiche della pandemia stessa: la parte per il tutto. Le ragioni del fenomeno sono molteplici. Inizialmente, le ambigue dichiarazioni scientifiche relative alla loro “non efficacia” nel proteggere le persone sane dall’infezione ne hanno fatto un paradigma di mancanza di trasparenza e fiducia verso i cittadini da parte delle autorità, quando il problema era in primo luogo la scarsità dei dispositivi di protezione individuale (DPI).1 In seguito, il loro uso e la loro discussa obbligatorietà in luoghi chiusi e/o aperti sono diventati tout court il vessillo di concezioni differenti delle società liberaldemocratiche, del governo della pandemia e dei diritti dei cittadini.
L’assenza, nelle nostre istituzioni, di una cultura di science policy che spieghi il fondamentale collegamento tra scienza e decisioni normative attraverso la chiarificazione pubblica delle ragioni da soppesare ha fatto sì che le mascherine siano state strumentalmente utilizzate in un opaco gioco di legittimazione reciproca tra scienza e politica: la rivendicazione di libertà individuali compresse ha fatto anche leva sulla presunta inutilità delle mascherine; l’asserita inutilità o addirittura potenziale pericolosità delle medesime ha talora evocato anche la dubbia costituzionalità dell’obbligo di indossarle. Ma l’ipertrofia simbolica delle mascherine come “bandiera politica” – negli Stati Uniti forse più che in ogni altra parte del mondo2 – non solo ha reso equivoca la discussione sul tema, ma rischia di rendere anche più complicato l’aggiornamento delle pratiche – come il suggerimento di molti esperti statunitensi che, a fronte delle varianti, consigliano l’uso della doppia mascherina.3-5
L’articolo di Alberto Donzelli6 merita, però, un discorso diverso, almeno nella prospettiva teorica di un’«educazione civica all’uso della scienza» per i cittadini – chiamati a gestire responsabilmente molte conoscenze science-based nella pandemia.7 In tal senso, la preoccupazione per la tutela della salute individuale che Donzelli esprime appare non tanto “critica”, ma piuttosto “vigile” rispetto a pratiche che esigono precisione e attenzione; come tale, essa è volta ad affinare la capacità individuale di distinguere le situazioni in cui sia necessario, o precauzionalmente opportuno, fare uso di mascherine, minimizzando eventuali usi impropri. Già in passato, l’autore, peraltro, ha sollevato l’importanza di un’adeguata e corretta informazione sui gesti igienico-sanitari ai fini della loro efficacia; per esempio, il lavaggio delle mani.8 Le precisazioni di Donzelli, quindi, sembrano proporre una “cultura dell’attenzione” nel lungo periodo: «le mascherine vanno portate sempre, ma indossate quando si è in prossimità di altri, ciò in una prospettiva di lungo periodo in condizioni pandemiche onde evitare possibili effetti avversi».6
Tuttavia, pur riconoscendo l’intento “costruttivo” di Donzelli, è opportuno rammentare il contesto – fatti e valori – che deve informare la consapevolezza generale che accompagna i nostri atti di tutela della salute.
La non conclusività dei dati non autorizza l’inazione
Come argomentato da più parti, l’incertezza scientifica non giustifica né l’arbitrio9,10 né la paralisi delle scelte normative:11 i decisori politici devono poter intervenire a protezione della salute anche in assenza di risultati scientifici definitivi.12 Dal punto di vita normativo, il principio di precauzione, che appartiene alla legislazione e alla giurisprudenza europee e italiane, prefigura, a fronte di possibili gravi effetti per la salute, di trattare rischi non totalmente dimostrati o ancora ipotetici come reali, pur guardando agli effetti di lungo termine e applicando misure proporzionate.13 Ciò significa che, se ancora i dati conclusivi sull’efficacia protettiva delle mascherine non sono esaustivi, anche se abbondano le “evidenze meccaniche”,14,15 il “dovere universale”12 di indossarle resta fondato nella responsabilità di prevenire rischi seri con danni potenzialmente gravi. Oltre a rappresentare un principio fondamentale del diritto europeo, che parla all’unisono della salute umana, animale e delle piante, la legittimità dell’approccio precauzionale è ulteriormente rafforzata negli ordinamenti che configurano la salute come un diritto individuale e condiviso – ciò che è tipico dei sistemi giuridici europei.
La salute come diritto collaborativo
Ma la messa a fuoco sulla salute unicamente come condizione e valore individuale non è adeguata nel contesto del COVID-19.
Il significato della salute come “condivisione” emerso con la pandemia presenta aspetti di novità nel pensare il “diritto alla salute” che non appartengono alla tradizionale tematizzazione dell’Articolo 32 della Costituzione come «fondamentale diritto dell›individuo e interesse della collettività». C’è davvero qualcosa di inedito nel collegamento tra individuo e collettività che gli sforzi di contenimento della pandemia hanno messo in evidenza. Il legame che unisce gli individui gli uni agli altri nell’indossare la mascherina non consiste
- né nella mera sommatoria dei diritti individuali (come accade, per esempio, con l’accesso individuale ai servizi sanitari)
- né nel puro rispetto della libertà altrui nella gestione della salute (il consenso informato agli atti medici)
- né, infine, nell’attesa passiva di misure di protezione messe in atto dalle autorità (l’attesa del proprio turno nella campagna vaccinale).
L’idea nuova di “condivisione” implica più propriamente una visione “collaborativa” della salute e del diritto a essa: una condizione relazionale in cui ognuno si adopera proattivamente per la salute propria e di altri.16 L’uso delle mascherine corrisponde a questa situazione di reciprocità essenziale in cui il corretto operare di ognuno genera la sicurezza di tutti.
La visione collaborativa del diritto, peraltro, sta cominciando a conquistare ambiti sempre più estesi di regolazione giuridica, ovunque richiedendo il passaggio da un atteggiamento di contrapposizione individualistica a una prospettiva di partecipazione che orienti le scelte verso un obiettivo comune (in particolare, nelle forme di risoluzione alternativa dei conflitti).17
Ma l’acquisita consapevolezza della non frammentabilità di una salute unica e unitaria rende raccomandabile un’educazione scientifica e normativa a vivere responsabilmente condizioni di incertezza “post-normale” – fatti incerti, valori dibattuti, poste in gioco alte, decisioni urgenti18 – in cui l’assunzione della propria parte di rischio (o di sacrificio)19 come una responsabilità contribuisce alla vicendevole riduzione del rischio complessivo (ciò che accade, tra l’altro, anche con i vaccini).
La competenza dei cittadini
Un argomento ripetutamente sollevato a proposito delle mascherine, ma anche dell’uso dei guanti, consiste nel possibile allentamento dell’attenzione e nel falso senso di sicurezza che esse conferirebbero a chi le indossa. Questi timori, a metà tra benevolo paternalismo e preoccupazione sanitaria, derivano in realtà da una profonda e persistente sfiducia nei confronti dei cittadini, considerati incompetenti a gestire e applicare conoscenze tecnico-scientifiche.
A dispetto della crescita di forme anche molto sofisticate di citizen science20 e a fronte dell’ubiqua e imprescindibile necessità di condivisione di conoscenze e responsabilità tra scienziati, istituzioni e cittadini emersa con la pandemia, tali posizioni rappresentano ancora la variante di una mai sopita tendenza tecnocratica. È auspicabile che, insieme al virus, anche la tecnocrazia, con tutte le sue varianti, possa essere debellata.
Come conclude il terzo Progress report di Nature, ciò che il primo anno di pandemia ci ha insegnato è l’importanza di «mantenere una conversazione continua e trasparente tra i ricercatori, i decisori politici e il pubblico».21
Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.
Bibliografia e note
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