Editoriali
26/11/2010

Assistenza alla fine della vita: monitoraggio e clinical pathways. Prospettive in Italia e in Europa

Stando al recente rapporto dell’Economist, si direbbe che l’offerta di cure di fine vita in Italia sia modesta, inferiore per qualità a quella dei Paesi Nord europei e Nordamericani e anche di alcuni Paesi dell’Est europeo, come l’Ungheria e la Polonia, mentre i BRIC countries (Brasile, Russia, India, Cina) sarebbero ancora in grande ritardo nell’adattare i propri sistemi di cura alle situazioni di fine vita.1 Se la mediocre performance attribuita al sistema Italia può essere veritiera, è noto però che sussistono situazioni locali di buon sviluppo e che più in generale sono il marcato gradiente geografico dell’offerta e l’inequità di accesso a rendere poco virtuoso il nostro sistema di cure di fine vita.2

La dizione «cure di fine vita», anche se va imponendosi nella letteratura scientifica, possiede un significato ambiguo, perché àncora il termine all’evento morte senza specificare l’intervallo di interesse: l’Associazione europea per le cure palliative propone di limitarne l’utilizzo agli ultimi giorni di vita, mantenendo il termine «cure palliative» per quel sistema di cure che, fin dalla loro diagnosi e in setting di volta in volta domiciliari, residenziali e ospedalieri, affronta i problemi specifici delle malattie che riducono l’aspettativa di vita e comportano un declino delle capacità vitali. A fronte di un utilizzo ancora quasi esclusivo per i malati oncologici (oltre il 95%), si stima che in presenza di adeguate risorse il 40% dei malati arriverà alle cure palliative provenendo da malattie non oncologiche (patologie neurologiche, AIDS, insufficienze cardiache, polmonari, renali).3

L’epidemiologia del fine vita può contribuire allo sviluppo armonico delle cure palliative, a renderle leggibili e valutabili. Di rilievo è soprattutto il contributo al monitoraggio dei processi di cura e degli esiti e allo sviluppo di percorsi per la pratica clinica.

Le statistiche di mortalità sono insufficienti a questo scopo, per la loro intenzione eziologica e demografica.4 Nonostante ciò, l’analisi dei determinanti del luogo di decesso permette interessanti comparazioni tra Paesi. Per esempio, si è osservato che in Italia, in controtendenza rispetto al resto dell’Europa, proporzioni analoghe di anziani e di meno anziani sono deceduti per causa oncologica al proprio domicilio, e che in Italia, come nel resto d’Europa, la probabilità di morire al proprio domicilio appare associata al livello di urbanizzazione e di istruzione più che con la disponibilità di posti letto in istituti di cura o residenze assistite.5

La disponibilità di ulteriori informazioni individuali, quali l’aver ricevuto cure palliative di un qualche livello, le preferenze espresse per le cure di fine vita, la presenza in ospedale entro 48 ore dal decesso, o a livello ecologico, la disponibilità nell’area di servizi specialistici di cure palliative, permetterebbe una lettura più fine, utile anche a livello regionale e aziendale. Questa lettura è più spesso realizzata attraverso i core dataset per l’assistenza in cure palliative. In Italia, il Ministero della salute sta perfezionando il flusso informativo dell’assistenza domiciliare e delle cure palliative in hospice e ha recentemente indicato presso lo stesso Ministero il luogo di lettura epidemiologica di questi flussi.6 A livello aziendale, l’informatizzazione delle cartelle di ricovero è un’occasione ulteriore per sperimentare modalità di raccolta delle informazioni cliniche che abbiano contemporaneamente finalità cliniche, epidemiologiche e amministrative.

Accanto alla valorizzazione di dati amministrativi e alla sperimentazione di core dataset di cure palliative è stata aperta da alcuni anni la via dei sistemi sentinella, che valorizzano il ruolo epidemiologico del medico di medicina generale nel monitoraggio delle cure di fine vita.

Intorno alla prima esperienza, nata in Belgio nel 2004, si va costituendo una rete di Paesi europei alla quale partecipa anche l’Italia con un progetto pilota per gli anni 2009 e 2010. Il periodo preso in esame è limitato agli ultimi tre mesi di vita, l’osservazione è retrospettiva. Sebbene sui processi di cura attuati nei periodi di assistenza in ospedale le informazioni del medico generale siano necessariamente di valore limitato, si presume che la rilevazione di certi aspetti della qualità dell’assistenza, quali gli obiettivi di cura, la continuità di cura e il rispetto delle preferenze dell’assistito, possano essere raccolti a livello di popolazione in maniera preferenziale proprio attraverso il medico di medicina generale. La continuità di cura, per esempio, può essere raccolta attraverso le sentinelle in termini di transizioni tra diversi setting di cura negli ultimi tre mesi di vita. In Belgio, nel 2005 solo il 38% della popolazione non ha avuto alcun trasferimento in un luogo di cura diverso negli ultimi tre mesi di vita e il 26% ha avuto due o più trasferimenti.7

Le osservazioni prospettiche (studi di coorte) sui processi di cura di fine vita sono limitate a pochi studi per gli ampi margini di errore cui va soggetta la prognosi di sopravvivenza, eccetto quella a breve.

La modalità di osservazione retrospettiva a partire dalla data del decesso (case series), oltre agli usuali problemi di qualità del dato, è stata indicata come motivo di distorsione nella lettura dei processi di cura del fine vita, a causa della selezione dei soggetti e dell’intervallo considerato che possono differire, o sovrapporsi troppo poco, a quanto sarebbe osservato con studi di coorte, che identifichino cioè una popolazione di morenti.8 È stato peraltro dimostrato che i disegni retrospettivi hanno uguale capacità discriminatoria di quelli di tipo prospettico rispetto alla individuazione di situazioni outlier tramite indicatori di qualità delle cure di fine vita.9

Studi di coorte sono peraltro indispensabili permodellare traiettorie di fine vita, informazione che può arricchire molto la lettura del case-mix in cure palliative. Un recente studio di coorte ha permesso di identificare, limitatamente al progredire della disabilità nelle attività quotidiane nell’ultimo anno di vita, cinque traiettorie (da nessuna disabilità a progressione catastrofica verso la disabilità) diversamente rappresentate a seconda della condizione che ha portato a morte e mai univocamente associate a una sola di esse.10

In Italia la strada degli indicatori per le cure palliative è stata aperta dalMinistero della salute già da alcuni anni.11 Tutte le iniziative di monitoraggio fin qui ricordate tendono a confluire in questa prospettiva. Ma a livello internazionale il dibattito è ancora aperto quanto a completezza delle aree considerate e a validazione degli indicatori proposti.12 Inoltre, si è acceso un duro confronto sull’accettabilità, in assenza di informazioni sulle preferenze del paziente, di indicatori che si riferiscano non all’applicazione di interventi palliativi ma all’utilizzo di trattamenti aggressivi, quali per esempio l’inizio di una chemioterapia nelle ultime due settimane di vita.13

La strada più innovativa è peraltro quella della implementazione dei percorsi integrati di cura, controllata in termini di efficacia. L’inerzia del sistema è tale che solo un organico intervento di formazione e trasmissione di competenze può radicalmente modificare le condizioni di contesto, quella public awareness sui problemi di fine vita citata dall’Economist come uno dei punti deboli del nostro sistema.

Tra le numerose proposte ha preso particolare rilevo quella delle Liverpool Care Pathways, sviluppata specificamente per gli ultimissimi giorni di vita in setting di cura non specialistici.14 Non si tratta di una linea guida, bensì di uno strumento di formazione e di quality assurance, raccomandato dalla Associazione europea per le cure palliative.3

La valutazione dell’efficacia di questo strumento sarà affrontata per la prima volta proprio in Italia, attraverso un cluster trial coordinato dall’IST di Genova (M. Costantini). Si tratta di un’esperienza che raccoglie il frutto del lavoro fatto in Italia negli ultimi anni da palliativisti e da epidemiologi, in particolare il follow back survey ISDOC,2 e che, aprendosi alla valutazione di interventi complessi,15 introduce l’epidemiologia di fine vita nel vivo dei problemi clinici di questa area.

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