Editoriali
26/11/2011

Cure e decisioni di fine vita: cosa ne pensano i medici italiani

L’articolo di Miccinesi, Puliti e Paci, pubblicato a pagina 178-187 di Epidemiologia e Prevenzione, illustra e commenta l’inchiesta condotta nel 2007 dall’Unità operativa di epidemiologia dell’Istituto per lo studio e la prevenzione oncologia di Firenze (ISPO) con la collaborazione dell’Ordine dei medici di Firenze, per incarico della Federazione nazionale degli ordini dei medici, che erogò i necessari finanziamenti. L’iniziativa nacque nel clima sempre più esagitato e politicizzato della discussione sul caso Englaro. La Federazione, prima di esprimersi, volle tentare di acquisire indicazioni dagli stessi medici. I risultati, in complesso confortanti e in linea con quelli di altri studi internazionali, confermarono le norme del Codice deontologico, approvato nel dicembre 2006,1 e dettero un importante sostegno alla adozione di successivi documenti (fondamentalmente quello approvato a Terni nel 2009) che, predisposti in collaborazione con le maggiori società scientifiche e sentite le associazioni dei malati, costituiscono tuttora un punto fermo nella riflessione della classe medica.

Cosa dice il Codice deontologico

Il Codice deontologico vieta ogni forma di eutanasia e di accanimento terapeutico. Nello stesso tempo si impone al medico di «non intraprendere attività diagnostica o terapeutica senza l’acquisizione del consenso del paziente» mentre «in presenza di documentato rifiuto di persona capace deve desistere dai conseguenti atti diagnostici o terapeutici». Il medico quindi «deve attenersi alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, libertà e autonomia della stessa»; infine «se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà deve tener conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato». Il medico, di fronte a malattie a prognosi sicuramente infausta o giunte alla fase terminale deve agire per «risparmiare inutili sofferenze psicofisiche e fornire al malato i trattamenti appropriati a tutela della qualità della vita e della dignità della persona».

I risultati di un sondaggio recentissimo

Un sondaggio del gennaio 2011, svolto a cura del Collegio italiano dei chirurghi, cui hanno partecipato ben 764 colleghi di tutta Italia, ha pienamente confermato le scelte del Codice. Infatti le domande poste ai medici erano tratte dallo stesso Codice. La contrarietà «all’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita» è stata unanime (97% delle risposte). Il 92% dei rispondenti ha concordato sulla norma per cui «quando il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà il medico deve tener conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato». Il 73% dei colleghi, in accordo con la posizione assunta dalla FNOMCeO sostiene che la nutrizione artificiale è a tutti gli effetti un trattamento medico e quindi debba essere oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento. Ugualmente è importante che il 70% dei rispondenti ritenga che le dichiarazioni anticipate di trattamento debbano avere valore vincolante e oltre il 50% che questa volontà debba essere rispettata anche se espressa molto tempo prima. Infine il 65%dei chirurghi ritiene che la decisione di non iniziare o interrompere le terapie in caso di paziente incapace spetti al paziente stesso qualora abbia precedentemente espresso la propria volontà.

L’81% dei medici è favorevole a una legge sul testamento biologico sostenendo, come abbiamo già detto, che la nutrizione artificiale debba essere ricompresa tra le scelte anticipate del cittadino e, considerazione importante, dichiarando, nel 50% delle risposte, che non avrebbero accettato di somministrare obbligatoriamente la nutrizione artificiale a pazienti che avessero lasciato in precedenza disposizioni contrarie.

Prima di tutto il rispetto

Il pensiero dei medici, almeno della maggioranza, è inequivocabile. Il medico vuole e deve rispettare nel paziente il cittadino, capace di autonoma decisione sulla propria vita. Chiunque ha diritto di scegliere per sé e non è accettabile alcuna imposizione esterna. L’alleanza terapeutica si esprime nel confronto di due libertà. Che senso ha, a proposito del celebre disegno di legge Calabrò, che si possa rifiutare la ventilazione artificiale e non la nutrizione? Altresì, al di là di posizioni estremistiche, ormai è consolidato il diritto del cittadino capace a non iniziare o a desistere dalle cure che non considera più tollerabili per la propria dignità e libertà; così come è accettata la tesi che consente la sedazione terminale nel quadro concettuale della cosiddetta teoria del doppio effetto. È ovvio che i medici che sono convinti della liceità dell’uso di oppioidi nel periodo della fine vita sono maggiormente sensibili a seguire le dichiarazioni anticipate del cittadino, opponendosi alla radicalizzazione del dovere assoluto di tutelare la vita al di là di ogni considerazione di appropriatezza clinica.

Il documento di Terni

È senz’altro utile riprendere alcuni passaggi del documento di Terni del 2009, perché da un lato si collegano dall’altro discendono dallo studio ITAELD. La Federazione degli ordini dei medici scrive: «In accordo con una vasta e autorevole letteratura scientifica, la nutrizione artificiale è trattamento assicurato da competenze mediche e sanitarie, in grado di modificare la storia naturale della malattia, calibrato su specifici problemi clinici mediante la prescrizione di nutrienti, farmacologicamente preparati e somministrati attraverso procedure artificiali, sottoposti a rigoroso controllo sanitario e infine richiedente il consenso informato del paziente in ragione dei rischi connessi alla sua predisposizione e mantenimento nel tempo. La sua capacità di sostenere funzioni vitali, temporaneamente o definitivamente compromesse, ne motiva l’impiego in ogni progetto di cura appropriato, efficace e proporzionato, compresi quelli esclusivamente finalizzati a alleviare le sofferenze. In queste circostanze le finalità tecniche e etiche che ne legittimano l’utilizzo definiscono anche i suoi limiti, sui quali può intervenire la scelta informata e consapevole, attuale o dichiarata anticipatamente, del paziente e la libertà di scienza e coscienza del medico».

È quindi nei confronti di quel delicato e personalissimo foro che è il rapporto tra medico e paziente, in cui i diritti di libertà trovano la massima espressione e spesso il più rilevante impedimento, che la Federazione degli ordini chiede, nel caso si voglia legiferare, di formulare un «diritto mite che si limiti a definire la cornice di legittimità giuridica sulla base dei diritti della persona, senza invadere l’autonomia del paziente e quella del medico». La relazione di cura «contiene tutte le dimensioni etiche, civili e tecnico professionali per legittimare e garantire la scelta giusta nell’interesse esclusivo del paziente e rispettosa delle sue volontà. L’autonomia e la responsabilità del medico sono a garanzia che le richieste di cura e le scelte di valore dei pazienti siano accolte nel continuo sforzo di aiutare chi soffre e che ha il diritto di essere accompagnato con competenza e solidarietà».

Per l’incontro di due libertà

Sono evidenti i rilievi di ordine etico e professionale che la Federazione degli ordini muove al disegno di legge tuttora, almeno al momento in cui queste note sono state scritte, in discussione in Parlamento. Una critica che vuol dire anche che le leggi inapplicabili sono inutili ai medici e ai pazienti (gli esempi della procreazione medicalmente assistita e della denuncia obbligatoria degli extracomunitari privi di permesso di soggiorno sono esemplari). Inoltre le leggi ad alto contenuto morale andrebbero ben finanziate onde evitare la tragica conseguenza di offrire sopravvivenza e non assistenza. Sarebbe spiacevole che i pazienti costretti loro malgrado a sopravvivere mediante una nutrizione artificiale, non voluta nè desiderata, si trovassero a morire di piaghe da decubito per carenza di assistenza. Ormai la valutazione del rapporto tra costi e efficacia di ciascuna prestazione deve entrare nel bagaglio professionale di ogni medico.

Celso, nel De medicina scriveva che «prudenza vuol dire in primo luogo di non porre mano a curare chi non può essere curato». Questo è ancora il nodo clinico, a maggior ragione attuale oggi, quando i successi della medicina si scontrano con il fallimento di molti di questi, e i pazienti non muoiono nè guariscono ma possono diventare, per usare termini politicamente coretti, diversamente vivi. Effectus trascendit finem, accade sempre più spesso in medicina. Ma dal tempo di Celso l’umanità si è evoluta anche se, con sommo dispiacere di Kant, ha tutt’altro che raggiunto la maggiore età. Tuttavia non è possibile non aggiornare l’antica massima affermando semplicemente che non è possibile curare neppure chi non vuole essere curato.

Questa affermazione non lede né la libertà né la responsabilità del medico. E i medici ne appaiono consapevoli. È dall’incontro di due libertà e nel rispetto dei valori e dei convincimenti di ognuno che la medicina può mantenere quel prestigio sociale che merita e i pazienti affidarsi ai medici certi di essere accompagnati nella cura e nella sofferenza.

Nota

  1. http://portale.fnomceo.it/PortaleFnomceo/showVoceMenu.2puntOT?id=5
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