Attualità
20/10/2009

Rischio pharmageddon

Il nocciolo delle questioni poste da Maurizio Ponz de Leon, e giustamente rilanciate da Benedetto Terracini col richiamo agli interessi economici retrostanti e al ruolo delle sperequazioni sociali su scala nazionale e globale, sta a mio avviso nel modo in cui il potere della medicina sta cambiando negli ultimi decenni. Giulio Maccacaro, fondatore di questa rivista, scriveva quasi quarant’anni fa che la medicina, come modo del potere, è «abilitata a dettare statuti, tracciare limiti, codificare eventi, attribuire significati». Partendo da questo assunto, si possono individuare due linee evolutive in corso: la prima consiste nel fatto che l’iniziativa degli interventi sanitari viene assunta sempre meno dai diretti interessati, pazienti o cittadini che siano, e sempre più dai professionisti della salute. Il potere di iniziativa, che sin dall’antichità era addirittura interdetto ai medici (medicus non accedat nisi vocatur), evidentemente per evitare un eccesso di autoreferenzialità, è oggi ormai quasi totalmente concentrato nelle mani di chi, grazie alla tecnologia, è in grado non solo di definire chi è malato, ma anche di prevedere chi, con una certa probabilità, lo sarà. Per millenni è stato il diretto interessato a chiamare il medico e a chiedergli: «aiutami con la tua scienza perché sto male e ne ho bisogno». Oggi sempre più spesso avviene il contrario, e il paziente apprende di essere malato, o almeno bisognoso di interventi medici, assai prima di soffrire qualsiasi disturbo. Si badi bene che l’inversione del potere di iniziativa non riguarda solo il settore, in continua espansione, della cosiddetta prevenzione su cui si sofferma in particolare Ponz de Leon, ma tutto l’ambito della medicina contemporanea. Anche quando si tratta di una persona già classificata come malata, perché ha avuto un infarto o un tumore, sono infatti i medici a decidere (sulla base di un’ecografia, di una TC o di un marcatore nel sangue) quando è il caso di intervenire, per esempio contro uno scompenso o una recidiva neoplastica, ben prima che il diretto interessato abbia qualunque nuovo disturbo. L’utilità in termini di salute di questo approccio può e deve essere stabilita caso per caso, sulla base del rapporto tra vantaggi e svantaggi, ed è accertata per un numero limitato di interventi, dubbia per altri e completamente sconosciuta per la maggioranza. Ma a prescindere da questo, resta il fatto che l’appropriazione della facoltà di iniziativa altera un millenario equilibrio di potere, con effetti profondi a livello sociale e biopolitico che non sono ancora stati compiutamente analizzati, compresi e discussi collettivamente. Ed è precisamente su questi aspetti che vuol richiamare l’attenzione Ponz de Leon. Sarebbe infatti necessario elaborare un nuovo “contratto sociale” tra medicina e società per tenere in debito conto tutte le implicazioni positive e negative di questa evoluzione. La cui portata appare ancora più rilevante alla luce della seconda linea evolutiva, che consiste nella trasformazione della medicina in un’attività industriale. Quella che è stata per secoli una professione, cioè un’attività artigianale esercitata sulla base di un codice deontologico, è oggi nei Paesi ricchi uno dei settori trainanti dell’economia, consistente nella produzione su scala industriale di beni e servizi (non solo di farmaci e di device, ma di una miriade di prodotti e di attività, compresa l’assistenza ospedaliera) e responsabile di una quota consistente del PIL, grazie a una crescita che non conosce recessione. Questa ‘industria della salute’ ha ovviamente interesse a reclutare clienti, coinvolgendo anche i sani, e utilizza sempre più efficacemente gli strumenti del marketing. Il saldarsi tra l’appropriazione del potere di iniziativa da parte dei medici e la nuova natura industriale della medicina crea a mio avviso una situazione di potenziale grave pericolo non solo per la sostenibilità dei sistemi sanitari, ma per il benessere stesso della popolazione, ben esemplificato dal fenomeno estremo ma paradigmatico del disease mongering, ormai ampiamente documentato nella letteratura scientifica e nella stampa divulgativa. Non a caso la percezione di una possibile catastrofe sanitaria imminente ha preso forma con il concetto di pharmageddon, coniato da un gruppo di intellettuali anglosassoni per denunciare «la prospettiva di un mondo in cui i farmaci, gli interventi della medicina in generale e la ricerca medica producono più danni che benefici», con l’intento anche di richiamare l’attenzione sul fatto che l’abuso iatrogeno nei Paesi ricchi e l’omissione di intervento in quelli poveri sono due facce della stessa medaglia, cioè a mio avviso delle due linee evolutive sopra richiamate.

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