Oncogenesi: solo mutazioni somatiche?
Il lavoro di Tomasetti e Vogelstein, incentrato sull’eziologia del cancro1 e recentemente pubblicato da Science, ha generato una vasta eco di apprezzamenti, discussioni e contestazioni e, ultimo in ordine di tempo, anche un editoriale apparso su Epidemiologia e Prevenzione2 che ha attirato la nostra attenzione. Perplessità e dubbi rispetto alla metodologia e alle conclusioni dell’articolo di Tomasetti e Vogelstein1 sono già stati sollevati e discussi altrove.3,4 In questo commento, dunque, ci limitiamo a segnalare alcuni contenuti dell’editoriale (che proprio da Tomasetti e Vogelstein prende le mosse) di Lucio Luzzatto2 che, a nostro giudizio, meritano qualche precisazione.
L’autore individua in maniera netta e non problematica la mutazione genetica somatica come l’unico meccanismo sotteso alla carcinogenesi, introducendo almeno tre argomenti forti a corredo della sua tesi:
- una cellula normale diverrebbe una cellula neoplastica in conseguenza di «una sequenza di mutazioni somatiche»;
- i fattori ereditari e ambientali agirebbero aumentando il numero di mutazioni che si accumulano in un organismo «e perciò il rischio di tumore»;
- non ci sarebbe «cancro senza mutazioni somatiche».
Benché l’editoriale riconosca che nel processo di carcinogenesi le mutazioni somatiche possono essere sostituite da «eventi epigenetici» e che «l’evento oncogenico può essere o mutazionale o epigenetico» (asserzione che di per sé contraddice la conclusione precedentemente ricordata secondo cui «non c’è cancro senza mutazioni somatiche»), comunque l’impressione generale che si ricava dalla lettura del testo è che l’origine mutazionale somatica della carcinogenesi sia un dato scientificamente assodato. Colpisce poi l’estrema vaghezza (comune purtroppo in molti lavori scientifici) del concetto di «evento epigenetico» che ricorda molto gli “epicicli” dei tardi astronomi tolemaici.5 Se i dati reali – per esempio, nel nostro caso, il crescente numero di cancerogeni chimici non genotossici6 – non si adattano alla teoria, si modifica di poco la teoria per farli accomodare. Nel caso dell’astronomia, l’eccentricità delle orbite che contraddiceva la teoria delle orbite circolari era “accomodata” immaginando un’altra orbita ciclica minore che si innestava (epi-) sul ciclo fondamentale.5
L’idea che la cosiddetta Somatic Mutation Theory (SMT) offra l’unica spiegazione possibile della carcinogenesi ci sembra francamente fuorviante. Lo spirito riduzionista insito nella SMT è stato messo in discussione7 e attualmente coesiste con altre e più recenti interpretazioni della complessità del processo di carcinogenesi, in particolar modo per quanto concerne le prime fasi evolutive. Anche se non è mai semplice capire se la ricerca scientifica sia entrata nella fase di stallo che precede un cambio di paradigma,8 oggi è sicuramente vero che siamo di fronte a differenti modelli di carcinogenesi.9,10 I modelli alternativi a SMT pongono l’accento sulle relazioni tra diversi piani di organizzazione tissutale piuttosto che cercare un unico livello fondamentale di causazione nelle mutazioni somatiche.10-15 In questi modelli, un ruolo molto importante viene assegnato al microambiente tissutale, soprattutto nelle prime fasi della carcinogenesi;16-20 il che caratterizzerebbe il cancro come una patologia a genesi sovracellulare. Punta avanzata di questo filone della ricerca biomedica è la Tissue Organisation Field Theory (TOFT), che assimila la carcinogenesi a un’organogenesi in cui «qualcosa è andato storto» (organogenesis gone avry),21-23 ossia a un processo in cui l’innesco della trasformazione neoplastica non è più il singolo evento molecolare che si verifica nel DNA di una cellula,24 ma una grave alterazione della comunicazione e dell’organizzazione intercellulare. Tale condizione, perturbata sia a livello stromale sia parenchimale, renderebbe le cellule incapaci di “percepirsi” nello spazio tissutale, sciogliendo i vincoli che regolano la loro innata tendenza proliferativa. Un presupposto della teoria TOFT è che tutte le cellule eucariote tendano spontaneamente a riprodursi in presenza di materiali nutritivi, e che nei metazoi tale tendenza venga inibita durante l’ontogenesi attraverso un rigido controllo sovracellulare della replicazione cellulare.21 Il livello a cui studiare la trasformazione maligna dei fenotipi cellulari sarebbe, quindi, quello tissutale, mentre le mutazioni somatiche costituirebbero un epifenomeno dovuto alla destabilizzazione del genoma conseguente alla disorganizzazione della trama e delle funzioni tissutali.
Questo modello si accomoda molto bene con la capacità dei test di trasformazione cellulare in vitro6 di prevedere la potenzialità cancerogena in vivo delle sostanze chimiche in maniera molto più accurata dei test basati sulla genotossicità. I test di trasformazione in vitro, infatti, hanno come ingredienti fondamentali la co-cultura di stroma e parenchima e come osservabile biologico l’abolizione dell’inibizione da contatto con la conseguente crescita disordinata (non più a monostrato) delle cellule.
Altri autori si sono occupati delle basi biofisiche del processo neoplastico e di metastatizzazione. Essi hanno avanzato l’ipotesi che il processo neoplastico sia un correlato evolutivo necessario della multicellularità. In altre parole, il “sistema tumore” sarebbe un particolare stato di un campo morfogenetico all’interno di una gamma di stati possibili, definiti “attrattori”. 25-29
Al di là della complessità fenomenologica della carcinogenesi, qui forzatamente schematizzata per necessità di sintesi, ci pare importante sottolineare, senza alcuna presunzione di esaustività, la notevole quantità di dati scientifici che lasciano la discussione sull’argomento molto più aperta di quanto l’editoriale di Luzzatto abbia riportato. La ricerca epidemiologica e in sanità pubblica potrebbe essere positivamente influenzata da approcci più innovativi e coerenti con ciò che sappiamo della storia biologica e dell’ecologia della vita multicellulare, anche nelle sue manifestazioni patologiche. Tali approcci hanno permesso di verificare sperimentalmente la possibilità di reversione dei fenotipi maligni grazie al ripristino delle normali proprietà del microambiente stromale.21,30
Inoltre, hanno permesso di dare un senso agli effetti cancerogeni di molte sostanze chimiche non genotossiche (ossia, che non producono mutazioni del DNA).22 Si deve, infine, considerare che la possibilità di migliorare e accrescere le conoscenze su questo argomento specifico può avere una ricaduta virtuosa sulle scelte di allocazione dei finanziamenti per la ricerca sul cancro,12 in particolare a favore della prevenzione del rischio chimico ed ecologico.
Per concludere, riteniamo che, nell’indagine sulla carcinogenesi, un approccio scientifico più fedele alle conoscenze emergenti dalla ricerca di base sia non solo auspicabile, ma necessario. Limitarsi allo schema esplicativo della SMT rischia di confinare il dibattito scientifico sul cancro a un solo quadro interpretativo, negando spazi di ricerca e opportunità di applicazione ad approcci che da quasi due decenni mostrano potenzialità decisamente interessanti, come speriamo di aver contribuito a chiarire nelle poche righe di questo commento.
Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.
Bibliografia
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