La sfida per l'SSN di oggi e di domani è il territorio
Quando si pensa al Servizio sanitario nazionale (SSN) vengono subito alla mente due contesti: da una parte l’ospedale (e il complesso di vicende che lo caratterizzano come strumento tramite il quale si affrontano momenti particolarmente critici della nostra vita, tali sono i periodi di ricovero per malattia), dall’altro la prevenzione (come percorso positivo per allontanare nel tempo l’inevitabile insorgenza delle malattie e delle rispettive conseguenze).
Da un punto di vista contabile, però, prevenzione e ospedale, con il loro 49% del Fondo sanitario nazionale (FSN), non rappresentano la maggioranza delle risorse, che è invece costituita da quell’ampio coacervo di attività che chiamiamo genericamente “territorio” (o livello di assistenza distrettuale) e che comprende un insieme molto variegato di elementi che vanno dalla medicina di base (MMG, PLS) all’emergenza territoriale (il 118), dalla farmaceutica alle prestazioni ambulatoriali, dall’assistenza integrativa a quella protesica, dalle attività residenziali e semiresidenziali a quelle più tipicamente sociosanitarie, per arrivare fino all’assistenza termale. Un coacervo complicato e articolato di elementi all’interno dei quali è difficile individuare un filo conduttore comune, e che costituiscono un contenitore solo apparentemente unitario, almeno dal momento in cui (29.11.2001) si è ritenuto di qualificarli con un unico livello essenziale di assistenza.
Premesso che sulla prevenzione c’è sempre da fare, e forse ancora di più si può e si deve intervenire sul livello ospedaliero, chi scrive ritiene che la vera e grande sfida che i servizi sanitari universalistici devono affrontare oggi e negli anni a venire si gioca sul versante del livello di assistenza territoriale, nella sua globalità, o meglio nella capacità dell’SSN di affrontare con un approccio coerente (e possibilmente unitario) i diversi aspetti che caratterizzano la medicina (o l’assistenza) del territorio.
In questo contesto, l’idea che viene proposta con maggiore frequenza ruota attorno all’espressione «continuità delle cure» (o continuità assistenziale), un concetto fortemente evocativo e che in teoria sembra mettere d’accordo molti commentatori, ma che, secondo chi scrive, non trova conseguente realizzazione dal punto di vista organizzativo. In altre parole: la continuità delle cure si presenta come un’idea piuttosto attraente, ma in nessun luogo (parliamo dell’Italia ovviamente) se ne vede una realizzazione che possa rappresentare un paradigma o che contenga elementi di rilievo che disegnino il percorso della continuità.
Cosa è la continuità assistenziale? Non si intende qui fare riferimento alla guardia medica o al servizio che garantisce le prestazioni sanitarie non differibili negli orari non coperti dal proprio medico di famiglia, bensì a quell’insieme di idee organizzative (tanto incerte spesso anche nella loro definizione) che fanno riferimento (con concetti non necessariamente analoghi) alla continuità e alla coordinazione della cura, al piano di dimissione, al case management, al disease management, all’integrazione dei servizi, alle cure condivise (shared care), all’integrated care (e l’elenco dei concetti simili o apparentati, anche se non del tutto identici, potrebbe proseguire a lungo). È l’idea, cioè, di qualcosa che
vada oltre la frammentazione dei servizi, delle attività, delle prestazioni che vengono erogate terminato il momento della fase acuta (in genere ospedaliera) di una malattia; è un sistema integrato di accompagnamento del malato nelle sue diverse fasi del bisogno, è un progetto organico di assistenza, che in genere richiede di essere affrontato in modo multidisciplinare nella competenza e un utilizzo plurale degli attuali livelli di assistenza, e non solo un problema di collegamento tra cure ospedaliere e territoriali.
Certo ci sono esperienze interessanti: le case della salute in Emilia-Romagna e i CReG (Chronic Related Group) in Lombardia costituiscono tentativi significativi di mettere mano all’assistenza territoriale, ma si tratta ancora di esperienze agli esordi che devono sviluppare in pieno le loro potenzialità e soprattutto dimostrare la loro capacità di affrontare non solo la medicina di base, ma tutto (o quasi) il complesso della medicina del territorio.
Che il concetto di svolta per il futuro dell’SSN possa essere la continuità delle cure o che invece sia qualche altro tipo di idea al momento non è del tutto chiaro, mentre sembra più facile l’identificazione di qualche elemento dell’assistenza territoriale che può essere messo in discussione. E il primo elemento è proprio il contenuto stesso del livello di assistenza distrettuale.
L’attuale suddivisione in sottolivelli del livello di assistenza territoriale è adeguata? A mio parere, se da una parte è comprensibile la scelta del DPCM 29.11.2001 di specificare con un certo dettaglio i contenuti del livello di assistenza, dall’altra questa specificazione (ma forse e soprattutto l’utilizzo che ne è stato fatto per la suddivisione dell’FSN) non ha fatto altro che rafforzare le differenze tra i sottolivelli, creando (o facendo intuire l’esistenza di) barriere comunicative e organizzative che vanno proprio nella direzione opposta a quella della continuità della cura.
È necessario separare farmaceutica e prestazioni ambulatoriali? È opportuno isolare la medicina di base? Che ruolo può avere (ammesso che lo debba avere e che di esso se ne debba avere bisogno) il MMG (o il PLS)? Come si integrano gli interventi sociosanitari con quelli sanitari? Sono solo alcuni esempi delle domande che interrogano l’attuale organizzazione delle cure sul territorio.
Personalmente ritengo che l’accentuazione di queste diversità e specificità (se si esclude l’emergenza territoriale, cioè il 118, che ha particolarità meritevoli di attenzione), è proprio l’opposto di un tentativo che mette al centro il tema della continuità della cura. E l’argomento diventa ancor più interessante se non ci limitiamo a considerare solo gli aspetti più tipicamente sanitari, ma introduciamo anche la parte sociosanitaria del problema (non la parte strettamente sociale), con ovvie maggiori difficoltà per quelle organizzazioni (come la Lombardia) che hanno scelto di separare i due contesti anche a livello amministrativo (due assessorati, due direzioni generali).
Alla luce di queste considerazioni, la proposta dei CReG di Regione Lombardia rappresenta un segnale significativo. Per i dettagli sulla proposta CReG rimando alla letteratura,1,2 mentre ne richiamo solo il nucleo concettuale centrale (il CReG affronta diverse altre questioni di interesse, ma che hanno poco a che fare con la riflessione che si sta sviluppando in questo contributo): si tratta di far fronte sul territorio (attività ospedaliera esclusa) non a un livello di assistenza specifico (medicina di base, farmaceutica, ambulatoriale), bensì a un tema (la cronicità) che per definizione richiama la continuità delle cure, la presa in carico, affrontare contemporaneamente più sottolivelli di assistenza, e suggerire un ripensamento concettuale proprio di quello che oggi chiamiamo «livello di assistenza territoriale».
La proposta CReG da una parte mette in discussione l’attuale separazione tra sottolivelli, dall’altra suggerisce l’idea che il livello di assistenza territoriale possa essere letto sotto forma di problema sanitario (la cronicità, la disabilità, l’intensità di cura) e non di forma erogativa (farmaceutica, ambulatoriale, residenziale); senza contare poi l’ovvia domanda provocatoria sul ruolo del MMG o PLS. L’opinione di chi scrive è che il primo punto da affrontare sia proprio un ripensamento della struttura attuale dei livelli essenziali di assistenza, e in particolare (ma non solo) del livello territoriale, non per decidere se si debba fare di più o di meno (allargare o restringere i livelli di essenzialità: la domanda è fondamentale ma non è oggetto della presente riflessione), bensì per valutare se l’attuale suddivisione si debba mantenere o debba invece essere ripensata (come suggerisce, per esempio, l’esperienza dei CReG lombardi).
Bastano questi pochi accenni per capire la rilevanza del tema, per il quale non sono tanto di interesse le mie eventuali proposte, quanto piuttosto la necessità di iniziare un lavoro serio nel merito, lavoro che al momento non mi pare catturi a sufficienza l’interesse (salvo, come al solito, rari casi) né degli studiosi né degli amministratori o programmatori sanitari.
Bibliografia
- Zocchetti C, Merlino L, Agnello M, Bragato D. Una nuova proposta per la cronicità: i CReG (Chronic Related Group). Tendenze Nuove 2001;5:377-98.
- Longo F, Carbone C, Ferrè F, Ricci A. La presa in carico dei pazienti cronici: il disegno dei CReG lombardi e i possibili scenari di governance. Mecosan 2013;86:33-52.