Attualità
11/08/2017

IL SESTANTE. Migranti

Ho avuto la fortuna di lavorare per diciotto anni alla International Agency for Research on Cancer con Lorenzo Tomatis (ricorrono in settembre dieci anni dalla scomparsa). Più di una volta mi ha rammentato: «C’è un problema con voi epidemiologi: se prima non contate i morti non pensate possibile una prevenzione basata sulle evidenze». Oggi gli direi: «C’è un problema anche più grave quando gli epidemiologi non contano più i morti». Rimedia all’omissione Amnesty International,1 estraendo alcuni dati generali essenzialmente da fonti ufficiali italiane. Nel 2014, 2015, 2016 e nei primi sei mesi del 2017 sono partite dal Nord-Africa per l’Italia rispettivamente 173.265, 156.718, 186.017 e 75.452 persone; in totale 12.693 sono decedute in viaggio. Il rischio grezzo di mortalità, per annegamento o altre cause, è nei quattro periodi 1,8%, 1,8%, 2,5% e 2,7%. Sono rischi non dissimili dai rischi di decesso (1%-10%) per malattie, generalmente infettive, degli italiani nelle traversate transatlantiche verso le Americhe: a chi, per guerra o miseria, non ha alcuna speranza, questi rischi appaiono come speranze di riuscita (99%-90%). Mancano nel rapporto di Amnesty molti elementi, primi tra i quali l’affidabilità e completezza dei dati (numeri e rischi) per sesso ed età e i tempi di esposizione al rischio. Un’analisi in questi termini non è sfizio accademico: è non chiudere gli occhi davanti alle vittime dell’ingiustizia e può contribuire a chiarire l’efficacia dei dispositivi di soccorso (Amnesty nota il parallelismo tra due loro diverse configurazioni e i rischi nettamente diversi di 6,2% e 0,89% in due periodi del 2015). Che lo sbarramento delle frontiere – al momento l’aspirazione di quell’Europa che ha esportato per cinque secoli colonialismo e due guerre mondiali – sia illusorio emerge in particolare dal lavoro di Branko Milanovic.2 Solo molto recentemente è stato possibile allineare su una stessa scala di reddito pro capite tutta la popolazione mondiale (tradizionalmente erano fattibili solo comparazioni tra Paesi e – separatamente – tra persone entro i singoli Paesi). Su questa scala comune l’indice di disuguaglianza (concentrazione) di Gini è salito da 0,50 nel 1820 a intorno a 0,70 alla fine del secolo scorso. Di questa disuguaglianza globale circa il 20% nel 1820 era dovuta alla disuguaglianza tra Paesi e l’80% a quella “di classe” entro Paesi: a fine secolo ventesimo la situazione si è praticamente invertita con la massima componente (intorno al 75%-80%) dovuta alla disuguaglianza tra Paesi, generatrice di un’alta pressione di emigrazione. Questa constatazione, così come la recente proiezione demografica 2016-2065 dell’ISTAT, che stima a circa trecentomila per anno il numero più probabile di immigrati, mettono fuori gioco qualunque “serrata delle frontiere”. Le dinamiche di popolazione che ne conseguono, compresi i flussi via Mediterraneo, e i relativi problemi per salute e servizio sanitario costituiscono un’ineludibile ed elevata priorità di documentazione e analisi per l’epidemiologia. Lavori come quelli pubblicati su E&P da Bena e Giraudo3 o quelli di Pacelli e collaboratori4 o del portale www.epicentro.iss.it/argomenti/migranti sono tra gli esempi ancora troppo infrequenti di attività in questo campo.

 

Bibliografia

  1. Amnesty International. A perfect storm – The failure of European policies in the central Mediterranean. London, Amnesty International, 2017.
  2. Milanovic B. Global Inequality – A new approach for the age of globalization. Cambridge (Mass), Belknap Press, 2016.
  3. Bena A, Giraudo M. Rischio infortunistico nei lavoratori immigrati in Italia: differenze per caratteristiche lavorative e per età. Epidemiol Prev 2014;38(3-4):208-18.
  4. Pacelli B, Zengarini N, Broccoli S et al. Differences in mortality by immigrant status in Italy. Results of the Italian Network of Longitudinal Metropolitan Studies. Eur J Epidemiol 2016;31(7):691-701.
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