Attualità
20/10/2009

Equilibrio cercasi

In un convegno sulla medicina di base, svoltosi a Firenze ormai circa trenta anni or sono, Julian Tudor Hart, General Practitioner dell'NHS inglese – autore di molti testi e articoli scientifici sulle funzioni del medico e della medicina e sullo sviluppo dei servizi sanitari – affermò che, per tutelare la salute dei propri assistiti, il medico di base, fra le altre cose, doveva consigliare di non fumare, fare eseguire il pap test per il tumore cervicale, controllare la pressione arteriosa. Aveva in mente e trasmetteva due idee forti (al di là delle specifiche indicazioni): che il compito del medico è anche quello di prevenire le malattie, oltre che di curarle, e che vi sono alcuni interventi efficaci per ridurre il rischio di ammalarsi. Si trattava di un forte cambiamento del paradigma del ruolo del medico e della medicina. Questo diverso paradigma si è via via affermato e, come dice Ponz de Leon, «si sta assistendo a un’importante trasformazione della medicina a seguito del grande sviluppo della medicina preventiva in tutto il mondo occidentale». Dobbiamo ripensare al ruolo della medicina nella società di oggi? Dobbiamo abbandonare il paradigma della prevenzione o ripensarlo? Oggi le conoscenze sui fattori di rischio di molte patologie si sono accresciute e di conseguenza le indicazioni su come comportarsi e che provvedimenti prendere per mantenere al meglio lo stato di salute si sono moltiplicate (non ingrassare, non fumare, fare esercizio fisico, evitare alcuni alimenti, consumarne altri, ridurre il tasso di colesterolo, aderire agli screening eccetera) al punto che l’offerta attiva di alcuni interventi e i messaggi sui comportamenti sembrano configurarsi, come sottolinea il testo di Ponz de Leon, come una vera e propria intrusione nella vita degli individui e della collettività. Ponz de Leon scrive preoccupato che questa nuova medicina ha «il potere di condizionare quasi tutti gli aspetti della nostra vita sociale» senza una chiara cognizione se sia «eticamente accettabile ed economicamente sostenibile». E si chiede: «Quali prezzi, oltre a quelli economici, si devono tenere presenti in termini di ansia, stress e sofferenze associate al concetto di prevenzione?». Capisco le sue preoccupazioni: che beneficio si avrà da questa forte medicalizzazione e da un interventismo medico che, talvolta, va molto oltre le certezze di cosa sia davvero utile? Ma dobbiamo anche chiederci se questa ‘intrusione’ trovi un qualche riscontro positivo in termini di anni di vita guadagnati e di qualità della vita, di sofferenze risparmiate, di sensazione di protezione. Appare, cioè, giustificata quest’intrusione? Sempre, solo talvolta, o mai? Le singole proposte, i singoli interventi possono e debbono essere valutati quanto a efficacia e beneficialità: prima di tutto si tratta di valutare se gli interventi sono davvero efficaci nel raggiungere l’obiettivo di salute individuato e poi, per gli interventi di provata efficacia, se siano anche benefici alla luce dei possibili effetti, nocivi, sia fisici sia psicologici (2009 updated method guidelines for systematic reviews in the Cochrane Back Review Group. Spine 2009;34(18):1929-41). Per esempio: gli studi ERSPC e PLCO, due lavori pubblicati recentemente sull’efficacia dello screening con il PSA per la diagnosi precoce del tumore della prostata, pur con alcune differenze, fanno pensare che lo screening con il PSA possa produrre una qualche (lieve) riduzione della mortalità per questo tumore; tuttavia, gli effetti negativi (complicazioni a seguito degli interventi terapeutici che conseguono alla diagnosi di tumore) appaiono troppo importanti e tali da sconsigliare l’effettuazione del PSA alla popolazione sana. Ciascun singolo intervento deve passare questo vaglio prima di potere essere proposto alla collettività degli individui; cioè prima di fare sì che un sottogruppo di questi soggetti da ‘sano’ diventi ‘malato’, si deve essere sicuri che tale passaggio comporti per le singole persone, e per l’intera collettività, una maggiore probabilità di avere un vantaggio, rispetto alla probabilità di ricavarne, invece, un danno. E non sempre al beneficio per alcuni individui corrisponde un beneficio per l’intera collettività. Credo che sia imprescindibile tenere ben separati l’ambito della ricerca da quello dell’operatività e dell’offerta dei servizi sanitari. La ricerca, sia epidemiologica e soprattutto biologica sui predittori di malattia e lo studio di nuove tecnologie diagnostiche è un terreno che si sta sviluppando enormemente sulla spinta sia della libera speculazione scientifica, ma anche di interessi economici. L’altro ambito, quello dell’offerta dei servizi e dei programmi di prevenzione – che un sistema sanitario può e deve offrire alla popolazione – deve essere ragionevolmente ristretto a quegli interventi che siano passati al vaglio della valutazione di efficacia e beneficialità. Ma, se uno per uno i diversi interventi possono essere valutati in termini di efficacia, di costi, di possibili benefici e di possibili danni (con tutte le difficoltà che fare ciò comporta e con le conseguenti incertezze associate a tale tipo di valutazione), quale potrà essere l’impatto sulla salute degli individui e della collettività di un insieme sempre più largo di proposte e di offerte sanitarie è, invece, un quesito aperto. Si dovrà cercare un punto di equilibrio, tra conoscere e comunicare, tra conoscere e agire. Trovare questo punto di equilibrio sia in termini di guadagno di salute per gli individui e per la collettività, sia in termini di sostenibilità economica, sia nei termini dell’eticità di interventi invasivi fisicamente e psicologicamente, è un obiettivo ambizioso, un difficile cammino da percorrere, una sfida dell’attuale sistema sanitario e dell’agire medico.

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