Attualità
11/12/2016

Manfredonia: catastrofe continuata, cittadinanza ritrovata e rimozione

La ricerca storica sulla città di Manfredonia che qui viene proposta è parte integrante del progetto “Manfredonia Ambiente e Salute”, ampiamente illustrato in questa rivista.1-5
Inserendosi in un progetto di indagine epidemiologica partecipata, anche la parte storica vuole essere un tentativo di ricerca partecipata, coniugando l’utilizzo di fonti primarie (sia pubblicate sia in documenti originali), di fonti secondarie e di una preziosa raccolta di fonti orali, nella forma di interviste registrate, resa possibile dal supporto dei cittadini e delle cittadine che si sono generosamente attivati nel recupero di una fitta rete di contatti. L’utilizzo di fonti orali è ampiamente affermato nella storiografia italiana6-8 che ne ha rilevato il significativo apporto metodologico nell’ambito della storia locale e della valorizzazione delle specifiche soggettività coinvolte in un processo storico: il recupero di testimonianze sugli eventi di una comunità consente di far emergere un racconto a molte voci, di portarne alla luce le parti taciute o rimosse e di poter ricostruire non solo il succedersi degli avvenimenti, ma anche le modalità secondo le quali le persone li hanno vissuti e il significato che hanno attribuito a ciò che stavano vivendo.9-10 Oltre alla raccolta di testimonianze, la partecipazione dei cittadini alla ricostruzione storica si è tradotta nel recupero di documenti conservati in archivi personali, nella definizione e condivisione di categorie interpretative, nel confronto sui risultati.
L’obiettivo della presente ricerca, tutt’ora in fieri e della quale si presentano in questa sede solo alcun aspetti, è ricostruire la storia di Manfredonia dagli anni Sessanta agli anni Novanta del Novecento, periodo nel quale la città venne profondamente segnata dalla presenza del petrolchimico dell’Anic-Scd (Azienda nazionale idrogenazione combustibili – Società chimica dauna, la cui denominazione divenne dal 1983 Enichem e dal 1986 Enichem Agricoltura).
Città di terra e di mare,11 Manfredonia aveva sviluppato fin da inizio Novecento un’importante attività di pesca, arrivando nel secondo dopoguerra a un’imponente attività di commercio del mercato ittico.12 La riforma agraria del 1950 e le bonifiche avevano contribuito a migliorare la produzione agricola, intervenendo in un contesto caratterizzato da territori acquitrinosi e paludosi e dalla grande presenza del latifondo.13,14 Nel 1952 vennero espropriati e redistribuiti 4.000 ettari di terra; tuttavia, la precarietà economica e produttiva e l’esodo dalle campagne dei giovani in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita furono fattori che non consentirono un’espansione rilevante del settore agricolo. Gli ambiti nei quali si ebbe in quegli anni un discreto sviluppo furono, invece, quello del piccolo commercio, dell’artigianato, quello della pubblica amministrazione e quello del turismo, con l’inaugurazione di stabilimenti balneari nella zona di Siponto.15,16
Città di terra e di mare, ma anche di arrivi e partenze, Manfredonia conobbe nel secondo dopoguerra importanti fenomeni migratori, con emigranti diretti verso le regioni settentrionali o all’estero; flusso che si sarebbe invertito in maniera significativa proprio con l’avvio dell’industrializzazione, che fece di Manfredonia un polo d’attrazione per i comuni limitrofi.
È nel contesto fin qui delineato che si viene a inserire la vicenda del petrolchimico, insediato nella zona di Macchia, a poche centinaia di metri da Manfredonia, ma formalmente una propaggine del comune di Monte Sant’Angelo, in una zona coltivata con ampie distese di mandorli e ulivi centenari e una costa utilizzata per la balneazione. Nei primi anni furono poche voci isolate, sia locali sia nazionali,17-19 a mettere in guardia dal pericolo della deturpazione del territorio; in generale, gli abitanti vennero tenuti all’oscuro dei processi produttivi del petrolchimico e delle conseguenze che potevano determinare sul territorio e sulla salute.
Nel 1971 lo stabilimento avviò la produzione di ammoniaca, urea e caprolattame, inserendosi a pieno titolo nella filiera della chimica del petrolio che rientrava, in base alle misure previste dalla Cassa per il mezzogiorno e dalla Legge n.634 del 29 luglio 1957, nella politica meridionalista dei poli di sviluppo.20-22
Per la popolazione di Manfredonia, il petrolchimico portava lavoro: molti avevano parenti occupati all’Anic o nell’indotto e questo aveva creato un forte legame con lo stabilimento. Lo stipendio sicuro, la fine dell’emigrazione, la diffusione di beni di consumo di massa, la conquista del benessere economico, uniti alla totale mancanza di informazioni sui processi produttivi, impedirono in un primo momento di vedere che l’industrializzazione del petrolchimico portava con sé una seconda faccia della medaglia: un modello industriale con impatto elevato sull’ambiente e sulla salute dei cittadini.

Non un singolo incidente, ma una catastrofe continuata

L’incidente più grave che colpì la città fu quello del 26 settembre 1976: a causa dell’esplosione della colonna di lavaggio dell’impianto di sintesi dell’ammoniaca nell’Isola 5 dello stabilimento, si ebbe la dispersione sulla città di almeno dieci tonnellate di arsenico. Nelle prime ore, nessuna comunicazione venne data dai vertici dello stabilimento alle autorità locali, al Comune, alla prefettura, ai presidi sanitari; venne, anzi, dichiarato che la nube seguita allo scoppio era stata di vapore acqueo. Solo in seguito si seppe che la sostanza dispersa in realtà era arsenico e vennero iniziate le prime opere di bonifica.14,23-26
I cittadini non ricevettero alcuna informazione: mancarono del tutto, da parte della dirigenza aziendale, le dovute assicurazioni alla popolazione di Manfredonia sull’incidente e sui cicli produttivi adottati nello stabilimento. Così come non venne comunicato ai lavoratori il pericolo dell’esposizione da arsenico: nei giorni successivi, furono registrati un centinaio di ricoveri per segni di intossicazione acuta tra i lavoratori nei vicini ospedali e fino al 29 settembre la mensa aziendale servì pasti preparati all’interno.27 Molti operai, in particolare delle ditte in appalto, incaricati di bonificare lo stabilimento – come risulta, oltre che in varie testimonianze,24,26 anche nella Memoria del sostituto procuratore Lidia Giorgio a sostegno della requisitoria nel processo avviato con l’esposto di Nicola Lovecchio del 1996 – furono mandati a compiere le operazioni di pulizia senza indossare appositi dispositivi di protezione. Scrive la PM che «subito dopo l’esplosione fu inviata una squadra di una ditta appaltatrice a scopare la polvere di arsenico e, fino al 30 settembre, 500 operai furono adibiti alla sicurezza degli impianti, mentre le tute protettive disponibili erano 150».28
Nello scritto della titolare dell’inchiesta si metteva in evidenza, inoltre, la presenza di quantità definite «abnormi» di arsenico nelle urine rilevate nelle analisi alle quali vennero sottoposti i lavoratori dopo l’incidente; inoltre, si sottolineava che l’esposizione degli operai dello stabilimento continuò in maniera significativa anche dopo la fase acuta di contaminazione, definita nei cinque giorni successivi all’incidente, e si protrasse sino alla fine del 1981, intendendo per esposizione significativa «un’esposizione che, alla luce degli studi epidemiologici in ambiente lavorativo, evidenzia livelli significativi di mortalità per neoplasie maligne del sistema respiratorio in lavoratori esposti».28
L’ipotesi che il rischio di esposizione ad arsenico fosse stato prolungato nel tempo era riportata anche nella Relazione del Comitato tecnico-scientifico dei Comuni di Manfredonia e Monte Sant’Angelo redatta nel 1982: in riferimento alle colonne di sintesi del petrolchimico era ancora presente il rischio di «trascinamento di nebbia di soluzione contenente sali di arsenico da parte della corrente gassosa in uscita dalla colonna di rigenerazione posta accanto a quella di assorbimento»;29 nella stessa Relazione si citava un documento del Consiglio di fabbrica Anic-Scd del 1982 che affermava: «a distanza di cinque anni, oltre all’evento acuto, ci si trova di fronte a un fatto costantemente ripetuto, in quanto l’anidride arseniosa presente nella soluzione gianmarco-vetrocoke viene periodicamente reintegrata nel processo, presupponendo una fuoriuscita in atmosfera».30
Senza dubbio lo scoppio del 1976 fu l’evento di maggiore impatto, tuttavia non fu l’unico: la città di Manfredonia ha subito una vera e propria catastrofe continuata.
Durante gli anni di attività del petrolchimico fu un susseguirsi di incidenti e fughe di sostanze chimiche: un rapido excursus della cronologia di questi episodi rende l’idea del processo ininterrotto di inquinamento del territorio. Particolarmente vivo nella memoria dei manfredoniani è il ricordo della fuga di ammoniaca del 1978, che generò il panico in città: gli abitanti, tentando di fuggire in massa senza che fosse previsto alcun piano di evacuazione, si ritrovarono intrappolati in una bolgia di auto e persone «come topi in trappola», ricordano ancora oggi nelle interviste.
Oltre agli incidenti, nel corso di più di vent’anni di attività ci fu un quotidiano, ininterrotto inquinamento del territorio circostante, con l’interramento dei rifiuti tossici nello stabilimento, lo sversamento in mare dei sali sodici, che continuò, dietro concessione ministeriale, dal 1980 al 1988, quando venne interrotto dall’intervento della pretura di Otranto, mentre ancora oggi rimane da portare a compimento la bonifica dell’area ex-Enichem.24

L’opposizione alla fabbrica: tra riappropriazione di cittadinanza e conflitto

Gradualmente crebbe tra la popolazione una diffusa opposizione all’Enichem, che arrivò a palesarsi in maniera dirompente nel 1988.
Nell’arco di pochi mesi, furono tre gli eventi che catalizzarono l’attenzione della cittadinanza sul petrolchimico: l’intervento della pretura, a seguito di un esposto del movimento ambientalista, che poneva sotto sequestro le navi utilizzate per lo sversamento in mare dei sali sodici; la decisione della Regione Puglia di permettere la costruzione di un inceneritore per rifiuti tossici e nocivi all’interno dello stabilimento;31 l’approvazione da parte del governo De Mita di un decreto che autorizzava la nave Deep Sea Carrier ad attraccare a Manfredonia per campionare e reinfustare rifiuti tossici presso l’Enichem.32
In breve tempo si diffuse la consapevolezza che i tre eventi erano strettamente collegati e che il rischio era quello della realizzazione, nello stabilimento, di una piattaforma per lo smaltimento dei rifiuti industriali tossici mediante l’incenerimento.24
Davanti a tale prospettiva, la popolazione di Manfredonia insorse in un movimento popolare spontaneo: il 24 settembre scesero in piazza 15.000 persone per manifestare. La tensione in città crebbe fino a sfociare in quelle che sarebbero rimaste nella memoria come “le quattro giornate di Manfredonia”:25,33 il 28 settembre venne proclamato uno sciopero cittadino a oltranza, il Consiglio comunale decise di riunirsi in seduta permanente, l’attività scolastica venne bloccata, scesero in piazza 20.000 persone e vennero attuati blocchi stradali e navali in segno di protesta. Nei giorni successivi, fino al 1 ottobre, a Manfredonia proseguirono manifestazioni e tumulti; la situazione precipitò con l’assalto al palazzo del Comune e l’occupazione, notte e giorno, della sala consiliare: la città si trovava in stato di assedio, isolata dal resto del territorio, e il sindaco Quitadamo e tutta l’amministrazione comunale erano sotto pressione perché si opponessero alla nave dei veleni.34
Nelle settimane seguenti fu un susseguirsi di scioperi e manifestazioni di decine di migliaia di persone; è ancora viva nella memoria la giornata del 16 ottobre, con 40.000 persone in corteo verso l’Enichem.14,24
Fu questo l’inizio di un movimento di più ampia portata politica e sociale: se in un primo momento tutta l’attenzione venne rivolta contro la Deep Sea Carrier, in seguito si allargò a una contestazione del petrolchimico stesso.
Venne costituito un Comitato Cittadino rappresentativo di tutte le categorie sociali impegnate in difesa della salute e dell’ambiente; ne facevano parte in maniera trasversale soggetti diversi: i pescatori, le donne, le associazioni ambientaliste, i principali partiti politici (il PCI, il PSI, la DC), la Confcommercio, gli insegnanti, il personale della scuola, le associazioni artigiane, l’Unione dei costruttori, i dipendenti di Enel e Sip, ingegneri, architetti e tanti cittadini coinvolti a titolo personale.
Nella memoria della comunità, l’immagine del Movimento rimane ancora oggi la distesa di tende installate in piazza Duomo. Tutte le sere per due anni, fino al 1990, la popolazione di Manfredonia si riappropriò di questo spazio collettivo e lo trasformò in un’università in piazza, vera e propria agorà, un luogo condiviso di partecipazione civica e politica, di riappropriazione di cittadinanza, con la lettura dei giornali e lo studio puntuale, serio, ordinato dei processi produttivi dello stabilimento, dei materiali utilizzati e dei rifiuti prodotti, dell’impatto sul territorio e sulla salute degli abitanti. Diffondere il sapere, squarciare il velo che aveva tenuto la popolazione all’oscuro, riappropriarsi del territorio, esercitare pressioni sulle istituzioni e rivendicare il diritto di programmare un diverso sviluppo furono i punti fermi del Movimento Cittadino.
Non soltanto l’incidente del 1976, ma il continuo impatto inquinante della fabbrica, la mancanza di informazioni e la sfiducia nella capacità, o volontà, delle istituzioni di preservare il territorio e la salute dei cittadini avevano generato una crescente apprensione e incertezza che taluni vollero leggere come psicosi collettiva,35 ma che, invece, scaturiva dalla realtà dei fatti. Nelle parole delle donne di Manfredonia: «la serie impressionante degli incidenti ha radicalizzato nella popolazione di Manfredonia un atteggiamento di insicurezza e diffidenza nei confronti dell’Enichem che noi rivendichiamo come dato fondamentale di esperienza e non come dato irrazionale».36
La mobilitazione produsse importanti risultati: grazie alla pressione esercitata sul Consiglio comunale e sull’Amministrazione cittadina, si ottenne la convocazione di una Commissione tecnica comunale che, nel dicembre del 1988, si espresse sull’incompatibilità dell’inceneritore con la città, sostenendo che l’impianto costituiva un rischio elevato per la salute dei cittadini di Manfredonia.24 Il 24 aprile 1989, mentre continuavano le lotte che riuscirono a impedire l’attracco della Deep Sea Carrier, venne insediata una Commissione tecnico-scientifica nominata dal Ministro dell’ambiente.24 La Relazione finale dei lavori della Commissione mise in risalto le notevoli mancanze della dirigenza Enichem, sottolineando l’assoluta insufficienza dei controlli e la lentezza delle procedure nel rispetto delle norme ambientali. Metteva in evidenza, inoltre, che «enormi quantitativi di rifiuti, a volte di elevata pericolosità riconosciuta, a volte neppure identificati sul piano analitico, sono stati interrati per molti anni nel sottosuolo dello stabilimento»;37 e ancora: «non sono peraltro disponibili, e la cosa appare poco comprensibile e soprattutto non condivisibile, informazioni di provenienza Enichem circa la presenza negli scarichi di arsenico e di altre sostanze organiche complesse».37

Le donne di manfredonia e l'indagine di nicola lo vecchio

Nel processo di riappropriazione di cittadinanza ebbero un ruolo fondamentale le donne, che scardinarono le abitudini familiari e personali, si ritrovarono fuori dai classici ambiti di aggregazione e costruirono una collettività in grado di dare una visione femminile sul mondo: le donne, donatrici di vita, divennero le più radicali e tenaci assertrici del diritto alla vita.
Il Movimento Cittadino Donne conquistò autorevolezza nella proposta di una parola femminile sulla città, che poneva a fondamento lo sviluppo vivibile del territorio. Alla denuncia dell’incompatibilità del petrolchimico con la comunità – un’incompatibilità ambientale, economica e psicologica – seguiva la proposta del recupero di un atteggiamento “al femminile” verso la natura, «di cura e rispetto e non di rapina e di conquista».36 L’impegno delle donne raggiunse il culmine con il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nell’ottobre 1988, nel pieno della protesta, 3.000 donne del movimento avevano firmato una petizione per chiedere alla Corte il riconoscimento dei danni arrecati dall’Enichem alla salute e all’ambiente; dieci anni dopo, nel febbraio del 1998, la sentenza riconobbe la violazione dell’articolo 8 della Convenzione internazionale dei diritti dell’uomo: era stata riconosciuta la lesione del diritto di sapere a proposito dei potenziali rischi derivanti dall’attività dello stabilimento e lo Stato italiano venne condannato al risarcimento di una somma simbolica alle prime quaranta donne firmatarie.38,39
Lo sviluppo del Movimento Cittadino fu affiancato anche da fenomeni di forte conflittualità: lo scontro tra gli operai che difendevano il lavoro in fabbrica e coloro che non ritenevano più compatibile la presenza dello stabilimento con la vita stessa dei manfredoniani fu lacerante per la comunità. La rottura di relazioni amicali e familiari fu diffusa e profonda, raggiunse un livello altissimo di tensione e divenne in molti casi insanabile, tanto da persistere tutt’oggi.
Il conflitto generato dalla vicenda Enichem produsse nella comunità di Manfredonia un processo di forte disgregazione, insieme alla sfiducia nelle istituzioni ritenute incapaci di garantire il benessere della collettività. Un percorso che è proseguito nel tempo, riproponendosi con la vicenda del processo avviato dall’operaio Nicola Lovecchio. A metà anni Novanta, quando ormai la maggioranza dei cittadini voleva dimenticare, iniziarono a verificarsi malattie e decessi; erano, infatti, necessari tempi lunghi affinché gli effetti del petrolchimico e dell’incidente del 1976 sulla salute iniziassero a palesarsi e i primi a essere colpiti furono i lavoratori.
Assunto all’Anic nel 1971, Lovecchio era stato capoturno del reparto insacco fertilizzanti ed era presente il giorno dello scoppio del 1976; l’Istituto di medicina del lavoro di Bari aveva registrato nella sua cartella clinica un’intossicazione acuta da arsenico.40 Nel gennaio 1995 Nicola Lovecchio incontrò il medico Maurizio Portaluri per una visita di controllo dopo l’intervento per un tumore al polmone e la radioterapia; l’insorgere di un tumore di quel tipo in un uomo giovane e non fumatore non era spiegabile se non collegandolo alla sua attività lavorativa. Ne seguì una strettissima collaborazione, nella quale alle competenze del medico si affiancò la tenace e minuziosa indagine di Lovecchio, che in pochi, intensi e faticosi mesi ricostruì con esattezza i cicli produttivi dello stabilimento, le sostanze che venivano impiegate, le mansioni degli operai e l’elenco degli elementi tossici con cui entravano in contatto, le storie cliniche e lavorative dei colleghi che come lui si erano ammalati, arrivando a comporre una lista di ventisei casi di neoplasie accertate tra i lavoratori.25,40
Dall’esposto presentato nel 1996 sarebbe scaturita l’inchiesta condotta dalla Procura di Foggia e il rinvio a giudizio di dodici persone: sul banco degli imputati finirono i vertici del petrolchimico.
Maurizio Portaluri riferisce che nel dibattimento emerse la possibile conferma dell’ipotesi che l’arsenico fosse fuoriuscito anche durante il ciclo produttivo, sebbene questo fosse definito “a ciclo chiuso”; campioni di urea prelevati nel 2000, a stabilimento ormai dismesso, e analizzati confermavano che l’urea era contaminata con arsenico: la contaminazione degli operai era stata, con ogni probabilità, prolungata nel tempo.40
Nonostante la mole di prove e di testimonianze raccolte, il processo vide, in seguito a procedure di indennizzo, il ritiro da costituzione di parte civile di molti parenti dei lavoratori ammalati e deceduti e soprattutto delle stesse Amministrazioni comunali di Manfredonia, Monte Sant’Angelo e Mattinata. Contrariamente alla richiesta del Pubblico ministero, Lidia Giorgio, di condanna di otto dei dodici imputati, nel 2007 la sentenza di primo grado sarebbe stata di assoluzione, perché il fatto non sussiste: veniva accolta la tesi della difesa secondo la quale l’alto tasso di arsenico era dovuto all’eccessivo consumo di crostacei.40

La catastrofe dimenticata: memoria divisa e rimozione

Quella di Manfredonia è stata una catastrofe che, come emerso dalle testimonianze raccolte, sembra non avere fine. La chiusura stessa del petrolchimico è stato un momento traumatico per quella parte di popolazione che, perso il lavoro, ha ripreso a emigrare, mentre chi è rimasto ha dovuto affrontare nuove forme di industrializzazione ad alto impatto ambientale e la problematicità di un sito, quello dell’ex-Enichem, ancora da bonificare.
Il profondo impatto avuto dal petrolchimico ha lasciato nella comunità di Manfredonia disgregazione, memoria divisa e rimozione. Permangono ancora oggi forti fratture sociali e parentali di difficile composizione, nodi irrisolti che si fatica a sciogliere: anche da questo punto di vista, la catastrofe non si è interrotta. Le lacerazioni profonde che tutt’ora segnano questa vicenda hanno prodotto una vera e propria memoria divisa, che ancora oggi stenta a trovare elementi di ricomposizione.
Quella di Manfredonia è stata anche una catastrofe dimenticata. L’intera vicenda ha subito un processo di rimozione, in primo luogo interno alla città, tra i cittadini di Manfredonia. Di Enichem la maggioranza della popolazione parla con fatica, perché per molti ancora oggi le vicende legate al petrolchimico sono dolorose, non solo per il conflitto che divise la città, ma anche per i tanti lutti che hanno segnato la vita delle famiglie.
Tuttavia, a questa rimozione se ne affianca una esterna alla città, che riguarda le istituzioni nazionali e i mezzi di comunicazione di massa, e che assume notevole rilevanza.
Manfredonia è stata dimenticata: la catastrofe di questa città non trova posto nell’immaginario collettivo degli italiani. La storia del complesso impatto avuto dal petrolchimico sulla comunità non è stata oggetto dell’attenzione che altre drammatiche vicende, a partire da Seveso, hanno suscitato negli studi di storia ambientale ed economica, negli approfondimenti dei mezzi di comunicazione di massa e tantomeno nel dibattito politico. Perfino la direttiva europea che venne redatta a seguito degli incidenti di Seveso e Manfredonia è rimasta nel lessico comune come “Direttiva Seveso”.
Probabilmente le ragioni sono molteplici; qui si tenta di indicarne sommariamente alcune: a Manfredonia si trattava di un’industria di Stato, anziché una multinazionale come l’Icmesa di Seveso; di un contesto meridionale e periferico, non centrale e produttivo come la Lombardia; di un diverso orientamento delle organizzazioni sindacali, che al Nord, più che nei poli industriali del Sud, iniziavano a porre il tema della salute sui luoghi di lavoro; infine, la contaminazione da arsenico, diversamente dalla diossina, non aveva dato segni visibili, se non nei pochi episodi di contaminazione acuta e, anche in quel caso, molto meno drammatici. A differenza di Seveso, dunque, Manfredonia non è stata oggetto di stigmatizzazione: il territorio e la stessa popolazione non sono stati stigmatizzati come contaminati. Fenomeno forse riconducibile al fatto che l’intero meridione d’Italia è stato stigmatizzato:41 che una cittadina meridionale fosse intossicata dall’arsenico non suscitava lo stesso scalpore di Seveso, vicino a Milano; d’altra parte, proprio lo stesso processo di rimozione ha contribuito alla non stigmatizzazione.
Recuperare la ricchezza della storia di questa città e indagare le ragioni profonde della memoria divisa che oggi la caratterizza possono contribuire, insieme all’indagine epidemiologica, al superamento di questa rimozione.
Nelle giornate organizzate in occasione del quarantesimo anniversario dell’incidente del 1976, Anna Guerra, promotrice del ricorso in sede europea e attivista del Movimento Cittadino Donne, ha dichiarato: «nei disastri ambientali il rischio vero subito dalla persona e il rischio percepito dalla stessa si uniscono amplificando l’effetto del trauma. Quindi, anche il percepito può dare la malattia. In teoria tutti i cittadini dovrebbero essere sotto osservazione dopo un incidente ambientale. Questo principio l’ho appreso partecipando dal 2015 allo studio epidemiologico sullo stato di salute dei cittadini di Manfredonia. Attraverso questo studio ho avuto la possibilità non solo di conoscere le malattie del territorio, ma anche di dare una risposta a una mia difficile e antica domanda: perché mi sono impegnata così profondamente nella vicenda Enichem? Oggi ho la risposta: il mio impegno civile nelle lotte del 1988 è dipeso soprattutto dal mio personale modo di percepire i disastri ambientali. Ho reagito con l’attivismo perché volevo salvarmi a tutti i costi».

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.

Bibliografia e note

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  34. Le principali testate giornalistiche locali e alcune nazionali seguirono con attenzione la mobilitazione. Tra i numerosi articoli si può fare riferimento a: “La città oggi in piazza contro la nave dei veleni” in La Gazzetta del Mezzogiorno del 24.09.1988; “Manfredonia, in ventimila contro la nave dei rifiuti” in Il Manifesto del 25.09.1988; “Manfredonia si ferma: ‘No ai rifiuti tossici’” in Il Secolo d’Italia del 28.09.1988; “Manfredonia insorge, ‘No ai veleni’” in L’Unità del 29.09.1988; “Per la nave assalto al Comune” in La Repubblica del 29.09.1988; “Manfredonia a ferro e fuoco” in Il quotidiano di Foggia del 30.09.1988; “Manfredonia il giorno della rivolta” in Il Tempo del 30.09.1988; “Manfredonia in fiamme” in Il Manifesto del 30.09.1988; “Assalto al Comune, Manfredonia assediata” in Il Corriere della Sera del 30.09.1988; “I posti di blocco isolano ancora Manfredonia” in Il Tempo del 02.10.1988; “‘Tregua armata’ per Manfredonia” in Il Sole 24 Ore del 04.10.1988.
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  38. European Court of Human Rights. Case of Guerra and others v. Italy (116/1996/735/932). Judgment. Strasbourg, 19.02.1998.
  39. Barca S. Pane e veleno. Storie di ambientalismo operaio in Italia. Zapruder 2011;24:100-07.
  40. Langiu A, Portaluri M. Di fabbrica si muore. San Cesario di Lecce, Manni editore, 2008.
  41. Teti V. Maledetto sud. Torino, Einaudi, 2013.

 

CATASTROFE CONTINUATA: CRONOLOGIA

  • 15 luglio 1972: lo stabilimento è invaso da un’alluvione: non vengono date informazioni su eventuali fuoriuscite di sostanze chimiche.
  • 26 settembre 1976: fuga di arsenico che contamina la città.
  • 3 agosto 1978: una nube di ammoniaca si diffonde sull’abitato.
  • 22 settembre 1978: violento incendio nell’impianto per la produzione di fertilizzanti.
  • 23 ottobre 1980: perdita di anidride solforica.
  • 15 maggio 1984: un incendio distrugge completamente il magazzino di caprolattame.
  • 11 luglio 1986: fuoriuscita di gas nitrosi dall’impianto di caprolattame e formazione di una densa nube gialla sulla città.
  • 16 giugno 1987: il Pretore di Otranto, Ennio Cillo, dispone il sequestro dello scarico dei reflui della lavorazione del caprolattame.
  • 2 marzo 1988: il Pretore di Monte Sant’Angelo ordina il sequestro di 30 ettari di terreno contiguo allo stabilimento per smaltimento di rifiuti non autorizzato ed inquinamento della falda.
  • 18 luglio 1988: fuoriuscita di acido solforico da un serbatoio di stoccaggio dello stabilimento
  • 15 ottobre 1988: il Pretore di Manfredonia sequestra 4 navi cariche di 50.000 tonnellate di sali sodici per stoccaggio non autorizzato.
  • 11 gennaio 1989: il Pretore di Monte Sant’Angelo sequestra l’impianto di incenerimento in costruzione nello stabilimento e le discariche in Isola 12 in cui sono state smaltite 30.000 tonnellate di code benzoiche.
  • 8 marzo 1990: durante le operazioni di trasferimento di ammoniaca dallo stabilimento alla nave cisterna HAVPIL si libera una nube di ammoniaca che investe l’abitato di Manfredonia.
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