Toxic bios. Autobiografie tossiche: un progetto di guerriglia narrativa
Tra le sue pubblicazioni: Le montagne della patria (Einaudi 2013); A history of environmentalism, con Lise Sedrez (Bloomsbury 2014), e Future remains, con Gregg Mitman e Rob Emmett (Chicago University Press 2018).
È uno dei direttori di Capitalism Nature Socialism e fa parte della direzione di Environmental Humanities.
Un luogo in cui raccogliere e diffondere le storie di chi vive in zone inquinate e sta subendo o ha subito le conseguenze della contaminazione ambientale. Racconti di resistenza, di lotte, storie di vita vissute in prima istanza dal, e con, il proprio corpo.
Questo è Toxic bios, letteralmente: “autobiografie tossiche” (uno dei – rari – casi in cui la traduzione in italiano non giova alla comprensione del senso racchiuso nella dizione inglese), di fatto un portale (www.toxicbios.eu) ideato e lanciato da due ricercatori italiani che si occupano di conflitti ecologici e giustizia ambientale, Marco Armiero e Ilenia Iengo, attivi presso il Laboratorio di Environmental humanities del KTH Royal Institute of Technology – il più grande e antico politecnico della Svezia – dell’Università di Stoccolma, dove il progetto ha preso forma.
Un progetto che, a detta dei propri ideatori, mira a ribaltare il modo di rapportarsi ai conflitti ambientali. «Esatto» dice Marco Armiero. «Con questo approccio (che in inglese abbiamo battezzato guerrilla narrative) intendiamo far sì che i racconti di chi vive in prima persona esperienze di ingiustizia ambientale riempiano sempre più gli spazi oggi monopolizzati da una narrativa corrente che invece tende a normalizzare, o addirittura ridurre al silenzio, queste storie tossiche». Un’iniziativa di controinformazione, come si sarebbe detto un tempo… «Sì, ma anche di più. Un’azione di resistenza». Troppe volte, infatti, le comunità che vedono il proprio ambiente di vita contaminato, l’aria che respirano inquinata, sono fatte oggetto di racconti che, nel migliore dei casi, imputano loro stili di vita sbagliati (memorabili gli interventi di alcuni ministri del Governo italiano a Taranto e nella Terra dei fuochi) e nel peggiore le accusano di collusione con la criminalità organizzata. Un’ulteriore violenza che si somma a quella perpetrata dagli inquinatori e da chi ha favorito la loro opera. Riequilibrare questa immagine con le testimonianze di chi patisce il vulnus ambientale diventa allora una vera azione di resistenza. E di “giustizia narrativa”.1
Come è nato Toxic bios?
Ci siamo ispirati a EJAtlas (Environmental Justice Atlas – Atlante delle ingiustizie ambientali, http://www.envjustice.org) e siamo orgogliosi di riconoscere il nostro debito verso di esso. Speriamo che, grazie al loro ampio lavoro, EJAtlas e Toxic bios possano rivelarsi archivi complementari nella localizzazione e nella narrazione dei conflitti socioambientali.
Da una parte, infatti, EJAtlas fornisce una base dati cruciale, dall’altra, Toxic bios vuole recuperare la profondità storica e narrativa della (in)giustizia ambientale, che riguarda non solo luoghi, ma anche vite, corpi e memorie delle persone. Noi crediamo che ridurre al silenzio queste memorie, cancellandole dal passato collettivo e dal panorama materiale, sia una parte importante della vera ingiustizia esercitata sulla natura e sulle persone che subiscono quell’ingiustizia, spesso gruppi subalterni e per questo più esposti. La sfida della giustizia ambientale è anche la sfida per una giustiza narrativa che possa curare la tossicità di esperienze inespresse.
Come è stutturato e come funziona il portale?
Il progetto dispone di una piattaforma on-line dove le “autobiobgrafie tossiche” prodotte dagli utenti vengono mostrate attraverso un’interfaccia georeferenziata. Al fine di garantire la pluralità della produzione e della riproduzione di conoscenza, permettendo a ciascuno di essere autore della propria storia quotidiana vissuta ai margini del benessere, la piattaforma offre la possibilità di inviare le proprie autobiografie in vari formati: video, testi scritti, immagini, file audio eccetera.
Attualmente, Toxic Bios ha racolto quasi 70 storie provenienti da Italia, Portogallo, Grecia, Turchia, Svezia e altri Paesi.
In parallelo, si è costruita una rete di collaborazioni tra centri di ricerca, movimenti dal basso, giornalisti, think-tank e intellettuali. Una rete collaborativa che ha lavorato per la divulgazione del progetto e la raccolta della storie, che vengono pubblicate man mano.
Il progetto è ancora in fase di sviluppo e la nostra speranza è che si allarghi, catturando l’attenzione e l’interesse di coloro che credono che lo storytelling, il raccontare e raccontarsi, possa essere uno strumento potente di resistenza. Si è appena costituito un gruppo Toxic Bios in Brasile che sta raccogliendo storie davvero molto importanti nell’area di Santo Amaro.
Chi voglia far parte di Toxic Bios non deve far altro che andare alla «material section» del sito e guardare il video che chiama all’azione oppure leggere il breve manuale che spiega come raccontare la propria storia. E, ovviamente, mettersi in contatto con noi. Saremmo felici di avere più gruppi o individui affiliati a Toxic Bios dall’Italia.
L’approccio guerrilla narrative, come l’avete chiamato, richiama esperienze in sintonia con l’atmosfera degli anni Sessanta e Settanta. Anche la letteratura a cui vi ispirate, il linguaggio e i riferimenti culturali a cui vi richiamate sembrano affondare le radici in quel periodo…
Beh, in qualche modo sì, sebbene l’elaborazione teorica in questo ambito – essenzialmente quello dell’ecologia politica – si sia molto sviluppata negli ultimi decenni. È stato Richard Newman, nel 2012, a definire toxic autobiography un genere letterario appartenente alla seconda ondata di scrittura ambientalista negli Stati Uniti, intendendo con questa espressione il prodotto di gruppi marginalizzati che denunciano l’ingiustizia ambientale al cui interno si sentono intrappolati.2 Le “autobiografie tossiche” sono, perciò, il prototipo di una contro-storia che mira a sabotare, attraverso narrazioni contro-egemoniche, le “narrazioni tossiche” correnti, in particolare quelle che riproducono o silenziano l’ingiustiza. Così, gli autori di queste autobiografie tentano di rendere visibili le storie quotidiane di contaminazione e tossicità che provengono dai margini della società del benessere, e lo fanno attraverso una miscela di narrativa e storia, scienza e politica, personale e collettivo.
Basandosi su questa definizione di “autobiografia tossica”, il progetto Toxic bios ha come base teorica il lavoro di Stacy Alaimo sulla transcorporalità e la ricerca che connette corpo e giustizia ambientale3 (come, per esempio, quella proposta da Gregg Mitman nel suo libro Breathing space).4
Può dire qualcosa di più su questo tipo di ricerca e il suo legame con Toxic bios?
Negli ultimi anni, studiosi e attivisti di ecologia politica hanno analizzato gi aspetti materiali ed emotivi dei conflitti ambientali. Mentre l’approccio alla giustizia ambientale dell’ecologia politica tradizionale ha evidenziato soprattutto le strategie politiche ed economiche che danno forma alle ineguaglianze spaziali, le indagini attuali sugli aspetti emotivi/affettivi dell’ecologia politica e l’ecologia politica della salute e della malattia inaugurano una svolta materiale e narrativa, mettendo in risalto la materia vibrante della contaminazione e delle esperienze corporee.
L’International Handbook of Political Ecology del 2015 comprende due capitoli sulle dimensioni affettive, emotive e corporee dell’ecologia politica.5 Da una parte, Farhana Sultana spiega che l’ecologia politica emotiva «ha come oggetto di indagine tanto gli aspetti emotivi e le esperienze vissute quanto i diritti di proprietà legati ai conflitti socioambientali». D’altro canto, Allison Hayes-Conroy e Jessica Hayes-Conroy si schierano a favore di ciò che chiamano “ecologia politica del corpo: un approccio viscerale”, proponendo che gli studi di ecologia politica su salute e medicina debbano riconoscere che l’organismo umano è interconnesso con altri organismi culturali, animali, tecnologici e politici. In altre parole, ciò che Stacy Alaimo chiama transcorporalità nel suo testo fondamentale fondamentale Bodily natures: Science, environment, and the material self.3
Lo storico dell’ambiente Gregg Mitman, d’altra parte, nel suo lavoro sulle allergie nella società statunitense spiega così questo intreccio tra corpo, ambiente e politica: «[…] i luoghi dove gli americani hanno difficoltà a respirare, così come gli spazi che essi hanno creato per respirare più liberamente […] sono stati forgiati non solo dall’ecologia di animali, piante e allergeni artificiali, ma anche dall’ineguale distribuzione della ricchezza e dell’assistenza sanitaria nella società americana».
Toxic bios sta esattamente qui, nel punto in cui racconti di ingiustizie socioambientali, di scienza contestata ed emozioni, di percezioni e conoscenza convergono e si fondono. E per amalgamare queste diverse narrative getta un ponte tra l’attuale interesse dell’ecologia politica verso gli elementi affettivi e corporei e l’approccio multimodale al racconto tipico di quelle che in ambito angloassone sono le environmental humanities.
Toxic bios parte dall’assunzione che siamo entrati nell’età del “Wasteocene”, l’era dei rifiuti. In un articolo pubblicato sul South Atlantic Quarterly, Massimo De Angelis e io abbiamo proposto questa categoria del Wasteocene come critica al discorso dell’Antropocene, oggi molto di moda.6 In estrema sintesi, molti studiosi ritengono che l’umanità sia entrata in una nuova era geologica, l’Antropocene, in cui gli esseri umani sono diventati una forza geologica in grado di avere effetti sull’intero pianeta.7 I critici, me incluso, hanno fatto notare che non sono gli umani come specie ad avere creato la crisi ecologica attuale, ma alcuni umani e un particolare sistema economico. Insomma, non si possono dimenticare le ingiustizie storiche globali, le differenze tra Nord e Sud, colonizzati e colonizzatori. Il Wasteocene vuole rimettere le cose al loro posto. La crisi ecologica attuale è creata da un sistema basato su quello che De Angelis e io abbiamo definito di wasting relationships, ovvero di relazioni che trasformano luoghi e persone in rifiuti. Ora, se le tracce dell’Antropocene vanno ricercate nella geosfera, il Wasteocene deve essere ricercato nell’organosfera, poiché le sue tracce si sono accumulate nei tessuti e nelle cellule degli esseri viventi, oltre che, ovviamente, più in generale nell’ambiente.
Toxic bios, dunque, si focalizza sulle narrative corporee di contaminazione e fornisce una critica radicale dell’Antropocene e del suo nascondere l’organizzazione disuguale di spazialità e temporalità. La complessità spaziale e temporale nel raccontare l’incontro fisico di una persona con le ingustizie socioambientali implica lo scontro e la sovrapposizione di molteplici estensioni temporali narrative: biologiche, personali e collettive. Narrare una storia personale implica sempre una negoziazione tra tutte queste diverse scale temporali. Per questo motivo, Toxic bios non vuole essere solo un’esplorazione di storie tossiche private; al contrario, vogliamo dare un senso e confrontarci con le articolazioni di estensioni temporali personali e collettive e crediamo fortemente che ciò possa e debba essere fatto attraverso il racconto.
Bibliografia e note
- Barca S. Telling the right story: Environmental violence and liberation narratives. Environment and History 2014;20(4):535-46.
- Newman R. Darker shades of green: Love Canal, toxic autobiography, and American environmental writing. In: Foote S, Mazzolini E (eds). Histories of the dustheap: Waste, material cultures, social justice. Cambridge (USA), MIT Press, 2012.
- Alaimo S. Bodily natures: Science, environment, and the material self. Bloomington, Indiana University Press, 2010.
- Mitman G. Breathing space: how allergies shape our lives and landscapes. New Haven, Yale University press, 2008.
- Bryant R. International Handbook of Political Ecology. Cheltenham (UK), Edward Elgar Publishing, 2015.
- Armiero M, De Angelis M. Anthropocene: Victims, Narrators, and Revolutionaries. South Atlantic Quarterly 2017;116(2):345-62.
- Crutzen Paul J. The “Anthropocene”. In: Ehlers E, Krafft T (eds). Earth system science in the Anthropocene. Berlin, Springer, 2006; pp. 13-18.