Attualità
04/12/2009

Eccessi di pessimismo

È sicuramente provocatorio l’intervento di Ponz de Leon sulla «medicina moderna e il suo potere». Vi si propone una visione della medicina moderna preventiva rivolta principalmente a conquistare nuovi spazi e nuove platee, a medicalizzare la vita delle persone sane e a proporre la cultura della «malattia temuta». Le conclusioni che trae l’autore mi appaiono però piuttosto forzate. Vorrei quindi approfittare di questa occasione per proporre alcune considerazioni che penso si leghino all’articolo in questione.

  • La riduzione dei rischi e il mantenimento della salute dei sani, argomento base dell’intervento di Ponz de Leon, non riguarda solo la prevenzione, ma chiama in causa principalmente la promozione della salute (PdS). La Carta di Ottawa dell’Organizzazione mondiale della sanità del 1986 definisce la promozione della salute come «il processo che consente alle persone di esercitare un maggiore controllo sulla propria salute e di migliorarla».1 La PdS è rivolta alla riduzione delle disuguaglianze e delle povertà del mondo,2 ma propone anche alcune tematiche di lavoro innovative, che legano il benessere individuale e delle comunità allo sviluppo sociale ed economico.3 Negli ultimi anni questa è diventata una scienza vera e propria, con proprie regole, metodi di ricerca e pubblicazioni scientifiche. Mentre la PdS studia sia i determinanti della salute sia i motivi che permettono di restare sani nonostante la presenza di fattori di rischio («salutogenesi»), la prevenzione studia le cause e la genesi delle malattie («patogenesi»). Una è tarata sul sano, l’altra sul potenziale malato.
  • Le nuove tendenze della medicina sono sempre più volte a ridurre i rischi delle singole persone, sia da un’ottica preventiva, sia, dal punto di vista della PdS, analizzando e modificando le condizioni che determinano i rischi. Molti programmi nazionali di prevenzione si basano sull’epidemiologia dei singoli fattori di rischio. Negli ultimi anni, però, sono aumentati gli studi scientifici che considerano questo approccio utile, ma insufficiente per l’applicazione di strategie efficaci di protezione della salute. Gli stili di vita infatti sono responsabili solo per circa il 40-50% dell’aumento della mortalità riscontrata negli anni recenti, mentre una grossa fetta è imputabile a fattori che stanno alla base della salute e che ne costituiscono i prerequisiti, i determinanti.
  • La PdS si basa su una definizione globale di salute descritta come «uno stato nel quale ogni individuo ha un certo repertorio di risorse personali», correla la salute all’entità con la quale l’individuo «può realizzare i propri obiettivi di vita in circostanze di vita normali».4 Il suo obiettivo primario è perciò l’individuo sano. È noto che avere un senso generico di «star male» aumenta il rischio di contrarre una malattia. Molti studi confermano che persone con reti sociali fragili o affette da depressione corrono un rischio maggiore di ammalarsi o di morire prematuramente.
  • Oltre ai batteri e ai fattori di rischio da stili di vita, quindi, bisogna considerare sia i determinanti di salute, sia le caratteristiche delle persone, comprese le risorse individuali e la capacità di produrre salute. Lavorare su questi fattori non riguarda solo i medici, ma anche coloro che si interessano della sfera sociale, economica, culturale, ambientale. Da qui tutta una serie di interventi basati sul mantenimento del benessere piuttosto che sull’attesa di ammalarsi, azioni per potenziare le risorse personali, di comunità e di cambiamento di stili di vita incongrui. Il tutto con strumenti scientifici e indicatori ben precisi e consolidati.5
  • Che c’entra il medico in tutto questo, e quale può essere il suo contributo? Credo che si debba prendere coscienza che i medici non sono gli unici depositari del sapere. Bisogna conoscere nuovi meccanismi, strategie e strumenti operativi, collaborare con lo psicologo, il sociologo, l’antropologo e l’amministratore locale. Occorre che il medico si cali nella comunità locale e capisca i meccanismi che la regolano, parlare alle persone con il loro stesso linguaggio e, perché no?, partecipare alla vita pubblica e mediatica (con prudenza!).

«I medici non sono gli unici depositari del sapere. Bisogna collaborare con psicologi, sociologi, amministratori locali, calarsi nella comunità locale, parlare alle persone con il loro stesso linguaggio».

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