Attualità
28/02/2016

COP21: un successo a metà

Tante erano le aspettative per il 21° appuntamento della Conferenza ONU sul clima (COP21) tenutasi a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre scorsi. Occorreva concretizzare l’ambizioso obiettivo contenuto nel “Lima call for climate action” sottoscritto al termine della COP20 tenutasi l’anno precedente in Perù: arrivare a un accordo globale e legalmente vincolante sul clima allo scopo di limitare il riscaldamento sotto i 2°C.

Aspettative rispettate? In linea di massima sì, nel senso che l’accordo globale, dopo molte difficoltà, alla fine è stato sottoscritto da 196 Paesi. Un bel passo in avanti rispetto ai 35 sottoscrittori del protocollo di Kyoto, nel 1997. Ma la verità è che il complesso macchinario delle conferenze ONU sul clima sembra muoversi con il tempismo di un pachiderma: nei quasi 20 anni che ci sono voluti perché i governi mondiali cominciassero a dimostrare un minimo di sensibilità, le leggi fisiche, infatti, hanno continuato ad agire cambiando il clima, incuranti dei ritardi degli esseri umani.

Il risultato è che oggi la concentrazione di CO2 nell’atmosfera ha raggiunto le 400 parti per milione (nel 1997 erano 364) e che dei due gradi di incremento – rispetto alle temperature di epoca preindustriale – indicati come soglia nemmeno da sfiorare, nel 2015 un grado tondo tondo è già stato messo nel paniere (nel 2014 si era arrivati a +0,8°C). Come ha commentato il climatologo Luca Mercalli a LaPresse: «Sempre meglio di niente, ma per il clima è un accordo davvero piccolino».

Per fortuna, la realtà si muove indipendentemente dai negoziati ONU. E alcune buone notizie ci sono. Come i dati riguardanti l’uso delle energie rinnovabili, andato ampliandosi sempre più negli ultimi anni: in Danimarca, per esempio, oggi il 70% dell’energia viene da impianti eolici. Anche in Italia il trend è positivo: secondo il rapporto Comuni rinnovabili 2015 di Legambiente, nel 2014 le rinnovabili hanno contribuito per il 38,2% ai consumi elettrici complessivi (15,4% nel 2005).

La cosiddetta green economy è sempre più gettonata, come dimostrato dalla massiccia presenza dei grandi protagonisti del business internazionale a Parigi, segno che il capitale vede notevoli fonti di guadagno in questo settore. D’altronde, la stessa ONU afferma che «the Paris Agreement sends a powerful signal to markets that now is the time to invest in the low emission economy». Bisogna vedere se affidarsi al mercato per indirizzare le scelte in questo campo sia l’opzione più saggia (le distese di pannelli solari che soffocano ettari di terreni coltivabili sono pur sempre considerate esempi della rampante “economia verde”).

Sulla scia di Parigi, anche il governo italiano a fine anno ha approvato un decreto legge sulla green economy, «una piccola finanziaria verde che aiuta la società e le imprese ad andare nella direzione di un’economia più green», secondo Ermete Realacci. Peccato che nel frattempo non si siano revocati i permessi di trivellazione e che si dovrà andare a un referendum per impedire che si buchino i fondali dei mari italiani alla ricerca di petrolio.

La verità è che l’oro nero continua a farla da padrone negli assetti economici e geopolitici mondiali: i mercati internazionali non sono forse in fibrillazione per il prezzo troppo basso del barile di petrolio? Di nuovo: l’economia di mercato può garantire il mantenimento degli impegni presi a Parigi?

Stando al Vertice dei popoli indigeni svoltosi durante la COP21, non si possono combattere i cambiamenti climatici senza ripensare a fondo l’intero sistema.

Nel frattempo si confida in iniziative come quella messa in campo dal presidente Obama, che il 4 febbraio 2016 ha proposto di tassare i produttori di petrolio (10 dollari al barile) per finanziare un piano per la realizzazione di una sistema di trasporto più sostenibile e ridurre così le emissioni di gas serra. Riuscirà a far accettare il provvedimento? Vedremo.

Luci e ombre dell’accordo di Parigi

Alcune luci

  • Aumento della temperatura contenuto «ben al di sotto dei 2°C».
  • Adesione di tutti i Paesi presenti, compresi i maggiori inquinatori (Europa, Cina, India, USA).
  • Revisione ogni 5 anni degli obiettivi (già dal 2018 si chiederà di aumentare i tagli alle emissioni).
  • Contributo di 100 miliardi l’anno, a partire dal 2020, da parte dei Paesi occidentali per la diffusione delle tecnologie verdi e la decarbonizzazione.
  • Rimborsi per i danni subiti dai Paesi più vulnerabili geograficamente ai cambiamenti climatici.

Diverse ombre

  • Entrata in vigore troppo posticipata, nel 2020, accompagnata da una prima revisione nel 2018: se gli stati continueranno a inquinare con i ritmi attuali per 3 anni, sarà impossibile raggiungere gli obiettivi dell’Accordo.
  • Meccanismo basato sugli impegni volontari dei singoli Paesi: impegni che secondo gli scienziati del clima sono insufficienti perché porterebbero a un aumento di 3°C.
  • Autocertificazione dei controlli: ogni Paese verificherà i propri obiettivi.
  • Assenza totale di meccanismi sanzionatori.
  • Nessun impegno per l’eliminazione dei sussidi ai combustibili fossili.
  • Nessun riferimento alla raccomandazione dell’IPCC di ridurre le emissioni del 40-70% entro il 2050.
  • Nessun intervento sui trasporti aerei e marittimi.
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