Attualità
06/04/2012

Amianto: c'è ancora da fare

Dal 13 febbraio, data della sentenza Eternit, ad oggi molte cose sono state dette e scritte da giuristi e da esperti di patologie da amianto, ma ci sono alcune questioni che sinora non sono state oggetto di specifica attenzione da parte di quanti operano nella sanità pubblica.

Attenzione e disattenzione

In primo luogo va segnalato l’interesse per l’amianto manifestato dai media, che  ricorda per intensità e diffusione quello registrato nella seconda metà degli anni Ottanta, in seguito all’emersione di una serie  inattesa (dall’opinione pubblica e in una certa misura anche dalla comunità  scientifica) di cluster di mesoteliomi pleurici fra i lavoratori del cemento-amianto (primo studio di coorte sulla Eternit di Casale), gli addetti alla costruzione e riparazione delle carrozze ferroviarie a Bologna e in Emilia-Romagna, e gli addetti al ciclo tessile pratese. La questione è capire perché questo interesse sia poi venuto meno per circa vent’anni.

A questo proposito, si possono formulare alcune ipotesi. Sappiamo bene quanto le vicende qui ricordate abbiano accelerato l’emanazione della legge 257 del 1992 che prevedeva la cessazione dell’utilizzo industriale dell’amianto. Nel periodo immediatamente successivo all’emanazione della legge c’è stata in molti ambienti la sensazione che il problema fosse risolto. Inoltre sempre in quegli anni si è diffusa (fra i tecnici) la convinzione che sull’amianto si sapesse tutto e non occorresse produrre nuove conoscenze. Infine non va sottovalutata la sottile opera di disinformazione che prese le mosse proprio in quel periodo coinvolgendo alcuni settori della comunità scientifica, dell’amministrazione pubblica e delle imprese, accomunati dall’interesse a minimizzare la percezione dell’impatto sanitario dell’amianto. Questo materiale, come hanno dimostrato i colleghi del Registro nazionale mesoteliomi, aveva avuto in Italia un picco di utilizzo differito di circa dieci anni rispetto agli altri principali Paesi industrializzati.

L’insieme di questi fattori, e forse di altri, concorse a determinare un risultato: l’interesse della sanità pubblica per l’amianto fu nel complesso modesto (con l’eccezione della comunità scientifica epidemiologica) e generalmente incentrato su aspetti come il rispetto dei limiti di esposizione e la corretta gestione dei materiali contenenti amianto e dei rifiuti, ma senza affrontare il tema dell’impatto sulla salute e dei gruppi a rischio, argomenti lasciati all’impegno delle associazioni e al lavoro dei magistrati.

E da qui si deve ora ripartire

I ritardi vanno recuperati, la comunicazione fra le istituzioni va riattivata, gli strappi vanno ricuciti. Gli strumenti da adottare sono l’aggiornamento scientifico e culturale degli operatori, l’utilizzo di metodologie d’indagine accreditate, l’accantonamento progressivo dei portatori di conflitti d’interesse, o quanto meno la loro emersione dall’opacità. Ed è da perseguire infine la consapevolezza della dimensione planetaria della questione amianto, un materiale estratto, lavorato ed esportato da potenze economiche e politiche in particolare dell’Europa Orientale, dell’Asia, dell’America Settentrionale e Meridionale.

L’esperienza italiana in materia di amianto, compresa quella giudiziaria, è stata ricca di elementi di interesse. È sicuramente da perseguire una più efficace politica di contrasto alle esposizioni indebite e prevenzione delle patologie asbesto-correlate nel nostro Paese, ma è anche importare operare in rete con quanti nel mondo sono impegnati in questo settore.

 

Pietro Comba
Rep. Epidemiologia ambientale
Dip. Ambiente e prevenzione primaria
Istituto superiore di sanità

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